di Claudio Cajati
Ho abbandonato la lunga familiarità
con racconti e raccontini, e mi sono misurato con la dimensione del romanzo. Ho
scritto, di getto, Una vita felina,
storia di una identità sospesa fra umano e animale. Riporto qui alcuni stralci indicativi:
Sono anni che insegno matematica. Ho avuto a che
fare, fra colleghi, studenti e genitori, con moltissimi esseri umani con cui ho
dovuto e saputo andare d’accordo. Ma senza trasporto ed entusiasmo: la mia
passione sono stati sempre gli animali. Soprattutto i gatti.
Questa
passione mi viene in eredità da mio padre. E l’ho avuta sin da piccolissimo.
Allora abitavo a pianterreno, e la casa affacciava su un minuscolo giardinetto
dove erano di passaggio, spesso, dei gatti randagi. Tiravano diritto e, se aprivo
una finestra, subito se la davano a gambe. Ma fra loro Chico, un bellissimo gatto
dal mantello marmorizzato marrone, invece era ardito: veniva a bussare ai vetri
di una finestra con le sue graziose zampotte. Capii subito che, ancora più che
cibo e acqua, Chico voleva compagnia, voleva giocare con me. Quindi legai una
pallina di carta a uno spago e la feci saltellare per aria. Chico si eccitava e
faceva di tutto per acchiapparla. Per quanto mi industriassi di sottrarla alla
sua presa, presto vinceva lui: con una zampa portava la pallina alla bocca e la
mordeva di gusto.
Un giorno, un giorno terribile, Chico non venne. E
non venne mai più. Non potetti sapere se fosse stato rapito – era bellissimo –
se avesse cambiato zona, magari scacciato dalla prepotenza di un rivale, o
fosse proprio morto investito da un’auto, come succede spesso ai gatti, che chissà
perché non sanno attraversare la strada. Rimasi a lungo inebetito, chiuso in
una solitudine dolorosissima. Quando qualche adulto, come si usa, mi chiese
cosa volevo fare da grande, dissi: il veterinario. Ma intendevo il veterinario
solo per gatti.
Da buon matematico, mi sono proposto di definire il numero
dei gatti compatibili con la mia casa: per la mia competenza disciplinare
nonché per le mie nozioni cattoliche basilari (la Trinità), ho deciso che avrei
avuto 3 gatti, e non uno in più.
Ma poi tutto è saltato: ho un animo sensibile, e
così mi impietosisco per i gatti randagi, sempre alla ricerca di cibo e riparo.
Molti di loro, armato di veri e propri strumenti di cattura, li ho acchiappati
e portati a casa. Ma in certi casi sono arrivato troppo tardi: ho trovato ormai
morta Macchiottella, una piccola gatta bianca con macchie gialle e marroni che
si aggirava innocua nel viale. Le portavo da mangiare e bere, fra le auto
parcheggiate. Ma una di queste doveva averla travolta e uccisa. Il mio dolore aveva
il sapore dell’impotenza e della rabbia. Accovacciato accanto a lei, non finivo
di accarezzarla e di parlarle: “Macchiottella, tu non dovevi morire, tu non
dovevi morire, così giovane e bella…” e mi veniva da piangere. Mi trattenevo
soltanto per timore che qualcuno di passaggio mi prendesse per un tipo bizzarro:
uno che parla e piange davanti a un gatto morto.
Arrivai in pochi mesi a dover badare a ben 23 gatti!
Per mantenerli tutti dovevo spendere molto. Troppo per il mio magro stipendio
di insegnante. A nulla valevano i miei crescenti sacrifici. Alla fine mi decisi
a fare ripetizioni di matematica, perfino a casa loro, a studenti negati per la
materia. (La matematica è, per chi vi è predisposto, un lago limpido in cui
guazzare sereni; per gli altri è un pantano torbido in cui non si ha voglia di
avventurarsi.) Praticai tariffe inferiori a quelle dei colleghi miei
competitori, e così attirai molti studenti.
Ma poi ho dovuto proprio smettere: ci è piombata
addosso la crisi economica e gli studenti sono diventati pochi, infine
pochissimi. Come avrei fatto con i miei 23 gatti? Alcuni li ho regalati, altri
me li sono venduti per pochi euro a famiglie danarose. Però alla fine mi sono
ritrovato con ben più di 3 gatti: me ne sono rimasti 10! Nessuno di loro l’avrei
mai riportato in strada. Non sono un incosciente o una canaglia. Ho ripreso a
fare sacrifici, ho ridotto le sigarette, poi le ho proprio eliminate, ho
ridotto le quantità e la qualità di tutti i cibi, ho risparmiato su luce, gas,
telefono. In conclusione ho perso una diecina di chili. Anche ai gatti ho fatto
fare un po’ di dieta, ma loro sono rimasti belli grassottelli.
Chi è meglio che muoia prima, io o i miei gatti?
Naturalmente i gatti. Ma non perché voglio vivere molto. Solo perché, se muoio
prima io, chi baderà a loro? Gianna, la mia compagna, non li ama. Dice che i
loro sguardi la spaventano, la ipnotizzano o sembrano giudicarla, perfino
condannarla. Lei preferisce i cani. E questo nostro dissidio animale rischia talvolta
di condurci alla rottura. Ma lei non sa, io non gliel’ho mai rivelato, che ha
fatto subito colpo su di me per i suoi occhi che sono felini, a dispetto della
sua cinofilia. Bizzarrie della natura.
C’è stato un periodo in cui sono stato preda del mio
velleitario egocentrismo. Volevo nientemeno umanizzare i gatti. Per l’esperimento
ho scelto, fra i miei, Codastorta, la gatta più intelligente e affettuosa.
Avevo notato che, in braccia a me che leggevo un saggio di matematica, guardava
verso il libro e sembrava leggere anche lei. Potevo istruirla nella matematica,
pensavo, che è l’unico campo dello scibile che veramente conosco e so insegnare.
Con Codastorta dovevo cominciare con esercizi semplici, come se fossimo alle
elementari: ho cominciato con 2+2=4. Come facevo? Le sussurravo 2+2=4 e subito le
prendevo una zampetta e le toccavo in sequenza i 4 polpastrelli. Cercavo,
ripetendo più volte la somma, di farle alzare la zampetta per mostrarmi il
risultato, 4 appunto. Ma, dopo vari tentativi a vuoto, Codastorta ha usato la
zampa a modo suo, prettamente felino: mi ha dato una fulminea zampata a unghie
sguainate. Il dolore fisico non è stato pari alla mortificazione per l’esperimento
fallito.
E allora, come non averci pensato prima? La cosa
giusta era tutto il contrario: gattizzare gli umani. Cominciando con il
gattizzare me. Che cosa avevo in meno di un gatto? Questo era ciò su cui mi
dovevo concentrare ed esercitare. Ero meno agile, meno veloce, meno elegante, meno
capace di adeguarmi all’ambiente, meno tenace, meno capace di riposare. Un
disastro ero. Ho provato vergogna. Dovevo riscattarmi, cominciare un apposito
training. L’ho chiamato “Operazione Felinità”.
Migliorare la mia agilità, prima di tutto. Il salto
in alto. Un gatto è capace di saltare in alto, in media, almeno un metro. Io,
da esperto di matematica e geometria, mi sono servito di una proporzione: se un
gatto lungo, poniamo, 55 centimetri, salta in alto circa un metro, io che sono
1 metro e 70, dovrei saltare in alto circa 3 metri! Mi sono reso conto che
potevo saltare al più la metà, 1 metro e 50. Così ho individuato un armadio
circa di quella altezza, ho preso una bella rincorsa, ho spiccato il salto… e
sono arrivato con il muso contro le ante. Sono ricaduto all’indietro, ho
sbattuto con la colonna vertebrale. I gatti non sanno ridere, altrimenti si
sarebbero scompisciati dalle risate. Gianna avrebbe voluto ridere ma in lei
hanno prevalso la preoccupazione e la premura. Mi ha sollevato di peso, caspita
che forzuta!, e mi ha trascinato dolorante nel letto, dove sono restato per una
intera settimana. La mia principale preoccupazione era come lei avrebbe
trattato i gatti, lei che non li ama. Ma è stata brava, se l’è cavata
abbastanza bene. Però, quando mi sono alzato, finalmente, i gatti mi sono
venuti incontro, con le code in su, a farmi grandi festeggiamenti.
Per la prova di velocità, ho scelto la mia gatta più
veloce, Mimì. Due anni e un carattere da giocona. L’ho messa per terra affianco
a me all’inizio di un viale deserto a cul de sac, lungo più di cento metri, e
ho lanciato una palla di gomma più lontano che potevo, praticamente fino in
fondo al viale. Mi ero allenato per parecchi giorni cercando di recuperare,
almeno in parte, quella velocità che a scuola aveva fatto di me il velocista
più ammirato. Io e Mimì siamo scattati, lei un istante prima di me. A metà del
percorso mi aveva già staccato nettamente. Allora ho pensato di fare una
seconda prova, questa volta concedendomi una decina di metri di vantaggio alla
partenza. Ho dovuto sudare per farle capire che doveva rimanere sulla linea di
partenza di prima, dieci metri dietro a me: lei mi guardava perplessa per questa
novità. Ma quando sono arrivato alla metà del percorso, mi aveva già raggiunto.
Al traguardo mi precedeva, ancora una volta, di molti metri. Mi guardava
trionfante, o proprio beffarda.
Quanto all’eleganza, conscio di quanto il mio corpo
nudo sia inadeguato, con la sua pelle miseramente rosea, per rivaleggiare con
le pellicce feline, mi sono andato a comprare scarpe, calzini, slip, canottiere,
camicie, giacche e pantaloni: tutti leopardati! Ho speso una cifra. La prima
che mi ha visto conciato così, è stata Gianna. E’ scoppiata a sghignazzare, a
piegarsi in due, tanto che non le riusciva nemmeno di spiccicare parola. I
gatti, che mi avevano avvicinato prudenti e perplessi a piccoli passi, non ci
hanno messo molto a capire che davanti a loro non c’era un enorme goffo
leopardo. E meno male che non sanno ridere.
Per l’adeguamento all’ambiente, i mici sono
campioni: trovano il posto della casa più caldo quando è inverno, e il posto
più fresco quando è estate; sanno dove nascondersi se minacciati, trovano
‘nicchie’ impensabili, da cui riemergono se e quando loro garba; salgono sui
mobili più alti per controllare il territorio e rappresentare la loro
supremazia. Io invece debbo imbottirmi di panni d’inverno anche se ho i
termosifoni al massimo, e in estate non riesco a trovare la frescura anche se
mi metto in mutande e bevo granite; se qualche importuno entra in casa – Gianna
apre a tutti – e non mi voglio far trovare, cerco un nascondino, una nicchia
adatta a me, ma niente… sono tanto più grande di un gatto, e stare chiuso in un
armadio mi è insopportabile per la claustrofobia; di controllare il territorio
e rappresentare la mia supremazia, non se ne parla proprio, dato che non ho
supremazia sui gatti e tanto meno su Gianna che è solita rimproverarmi e comandarmi
a bacchetta più volte al giorno.
Invidio la tenacia felina, esempio di sorniona
pazienza. Un gatto è capace di stare fiducioso, sotto un balcone o davanti a
una porta di casa, anche per ore, se è abituato a ricevere così, quando che sia,
il suo pasto. Io ho provato a fare più o meno altrettanto. Ma è bastata meno di
mezz’ora, che Gianna tardava a tornare e preparare il pranzo (io sono un cuoco
mediocre), per farmi irritare. Ho cominciato a sbraitare a voce alta. Allora i
gatti sono accorsi: più che spaventati o innervositi, avevano sguardi che mi
sembravano di commiserazione e disprezzo. Quasi volessero dirmi: ”E tu, umano
impaziente, vorresti pure gattizzarti?!”
Come mi piacerebbe imitare i mici quando riposano:
tante posizioni inventano, a sfinge, a rotolo, su un fianco, a pancia all’aria,
a sogliola… e quando nel sonno sognano, come vibrano frementi le loro sottili
vibrisse (io ho dei baffi ridicoli al confronto). Ho provato a imitarli, ma
dopo pochi minuti, a furia di cambiare posizione per la scomodità, mi sono
stirato e anchilosato. A stento ho potuto alzarmi, camminare lentamente tutto
storto, con dolori che non conoscevo. Attorno a me, intanto, i gatti si
sfrenavano nelle più acrobatiche evoluzioni, senza posa, senza stancarsi mai. Per
farmi forse percepire meglio la differenza fra loro e me.
L’Operazione Felinità è fallita miseramente. Sconfitto
e umiliato su tutti i fronti. Adesso lo so ancora di più per certo: non è vero
che l’essere umano è il culmine del creato. Lo sono gli animali. E, su tutti,
il Gatto. Ho voluto riassumere questo pensiero in una frase che a Gianna non è
andata giù. Ma non perché ama invece i cani, bensì perché non sopporta quelle
che giudica stupidità blasfeme. La mia frase è: “Dio guardò l’Uomo appena
creato e pensò: “Posso fare di meglio” e subito creò il Gatto.” Io sono uno di
quegli umani che ammettono la loro inferiorità: guardo un gatto, un gatto
qualsiasi, e mi attanaglia il desiderio acuto e impellente di diventare lui. O
almeno perdermi in lui.
Un giorno l’incredibile metamorfosi arriva. Mi sento
chiamare, ancora nel dormiveglia mattutino, dalla voce allarmata di Gianna: “Ma
che fai, miagoli nel sonno?!” Vorrei rispondere, incredulo e un po’ irritato:
“Come sarebbe a dire che miagolo?” Ma la voce non mi esce. Dalla bocca viene
fuori un miagolio. Un miagolio che non finisce più. I miei gatti cosa
penseranno?
Ho deciso di inviare il manoscritto di Una vita felina alla casa editrice
“FastQuality”: ne ho sentito parlare bene da colleghi e conoscenti. Ebbene, nientemeno
dopo soltanto pochi giorni, mi arriva la risposta:
“Gentile Prof. Cajafa,
abbiamo letto il suo manoscritto Una vita
felina. L’abbiamo fatto con la sollecitudine e la professionalità che tutti
i nostri autori ci riconoscono. La sua opera è notevole per l’originalità del
tema, per la correttezza e l’essenzialità del linguaggio, per quella sottile
ironia che Lei sa far trasparire di tanto in tanto, ironia che smorza a dovere
gli aspetti drammatici, che da soli potrebbero finire per opprimere un lettore
medio. Complimenti quindi, tanto più considerando che Lei ha soltanto una
quarantina di anni e che questa è la sua prima opera, come Lei stesso ha tenuto
a precisare.
Ma veniamo al problema della
pubblicazione. Come Lei sa, come tutti purtroppo dobbiamo constatare, siamo nel
pieno di una grave crisi economica che sta colpendo ferocemente anche noi
editori. La vendita dei libri è calata paurosamente. Non Le nascondo che
combattiamo giorno dopo giorno per evitare di chiudere. Orbene, il suo romanzo,
pur ottimo, è troppo lungo per essere messo sul mercato. Dati i costi di
produzione, il prezzo di copertina non potrebbe essere inferiore ai 20 euro, e
quindi inaccessibile alla maggior parte dei lettori, i quali cercano in
prevalenza libri intorno ai 10 euro. Rinunciare allora alla pubblicazione?
Certamente no. Il suo lavoro non merita questa ingrata e ingiusta fine. Per
renderlo pubblicabile La invitiamo a ridurlo dalle 300 pagine alla metà circa.
Un compito molto impegnativo, che però siamo sicuri Lei saprà portare a termine
con successo. RinnovandoLe i nostri complimenti, La salutiamo cordialmente.
Uberto Franchini, capo redazione”
“Gentile Uberto Franchini,
le sottopongo il mio lavoro dopo l’operazione ‘dimagrimento’, chiamiamola così.
Non sono riuscito a dimezzare il numero di pagine, ma sono sceso, con notevole
dispendio di energie, da 300 a 200. Mi faccia sapere se così può andare, come
qualità del testo e dal punto di vista economico. Cordiali saluti. Corrado
Cajafa”
“Caro Prof. Cajafa, Lei ha
portato a termine il compito che Le avevamo proposto, in maniera brillante,
narrativamente convincente. Purtroppo, però, un nuovo recente calcolo del
rapporto fra costi da sostenere e benefici attesi ci costringe ad ammettere che,
nemmeno con la riduzione da 300 a 200 pagine, siamo in grado di procedere alla
pubblicazione del suo romanzo. Ma questa impresa non finisce qui, stia
tranquillo. Siamo talmente entusiasti del Suo testo, e talmente sicuri delle Sue
qualità di scrittore, che osiamo proporLe un’ulteriore riduzione: da 200 a 150
pagine. Non si sconcerti, e non molli. Noi crediamo ciecamente in Lei! Un
cordiale saluto. Uberto Franchini”
“Gentile Dott. Franchini,
la riduzione del mio romanzo da 200 a 150 pagine mi ha fatto molto tribolare.
Confesso che ho avuto più volte la tentazione di rinunciare. Ma mi sono
ricordato della vostra tenace generosa fiducia nel mio mestiere: questo mi ha sostenuto
fino alla fine nell‘arduo compito. Oso affermare che il risultato, nonostante
tutto, rimane valido. Fatemi sapere. Cordiali saluti. Corrado Cajafa”
“Caro e paziente Prof.
Cajafa, qui in redazione contavamo su di una imminente uscita dalla crisi
economica, o almeno su di una sua attenuazione. Ciò che non è successo. Soprattutto,
occorre dirlo, per i limiti dei nostri politici. Il compito della riduzione da
200 a 150 pagine è stato svolto da Lei in maniera impeccabile. Siamo rimasti,
devo dire, sorpresi: le Sue capacità sono perfino superiori a quelle che
avevamo già avuto modo di riconoscere.
Ma stante l’attuale situazione
del contesto, nemmeno con la riduzione a 150 pagine siamo in grado di
pubblicare e promuovere il suo romanzo. E allora? Allora, non ci prenda per
pazzi o per sadici provocatori, ma noi osiamo rilanciare, ancora una volta:
operi una riduzione da 150 a 100 pagine. Qui “si parrà la Sua nobilitate”, come
direbbe Dante Alighieri. Lei ce la farà. Auguri sinceri e cordiali per quest’ultima
sfida. Uberto Franchini”
“Gentile Dott. Franchini,
quest’ultima impresa, ridurre il romanzo addirittura a 100 pagine partendo
dalle iniziali 300, mi sembra davvero ardua. Improbabile che io la possa
portare a termine da vincitore. Ma nella vita ho sempre accettato le sfide più difficili,
perfino quelle al limite dell’impossibile. E inoltre mi sembrerebbe inopportuno
e spiacevole, tirandomi indietro, tradire la vostra lusinghiera fiducia nelle
mie capacità. Fiducia che mi onora e mi spinge a impegnarmi al meglio. Metterò
in atto, con grinta e perseveranza, quello che mi proponete. Cordiali saluti.
Corrado Cajafa”
“Esimio Prof. Cajafa…
forse, dopo tanto intensa e prolungata frequentazione via mail, sarebbe il
momento di darci del tu… ti chiamerò semplicemente per nome. Allora, Corrado,
ho letto con molta attenzione, perfino maggiore di quella professionale solita,
la tua ultima riduzione di Una vita
felina. Debbo dire subito che, in questa ingrata reiterata operazione di
drastici tagli, hai dimostrato pazienza, fiducia, tenacia, lungimiranza, carattere
e mestiere.
Purtroppo, però (sì, debbo dire purtroppo) il
testo finale ha perso lo smalto originario, ciò che lo rendeva notevole: non
c’è più il profondo scavo psicologico nella mente del protagonista, si è persa
la sottile ironia, i drammi rimangono poco motivati e superficiali, il respiro
e il ritmo della storia, prima così calibrati e sapienti, si sono contratti,
vinti da un’ansia di conclusione che disturba la lettura… Mi sento naturalmente
mortificato per averti suggerito una strada che si è rivelata un vicolo cieco:
il testo finale non va, non posso pubblicarlo. Sono stato io a sbagliare. Avrei
dovuto indirizzarti subito a un grande editore, in grado di stampare e
promuovere il tuo lavoro nella stupenda redazione iniziale. Ma sono sicuro che lo
troverai tu stesso. E che avrai un grande successo, di critica e di pubblico. Ad maiora. Uberto”