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ebook di ArchigraficA

mercoledì 15 gennaio 2014

La memoria in soffitta.


Note sul museo etnoantropologico di Agerola
di Giacomo Ricci



Logo del Museo di Agerola



Nell’immaginario di ciascuno di noi,  il posto dei ricordi è la soffitta.  Nella sua straordinaria topologia dell’immaginario domestico creata da poeti e letterati, anni fa, Gaston Bachelard (La poetica dello spazio), ha disegnato la corrispondenza tra la mappa dei nostri sogni e quella dei luoghi della casa. La casa, anzi, è una specie di corpo eroico che affronta le inclemenze del tempo e della natura e protegge il suo abitante dai suoi effetti devastanti e terribili.

Un unicum dalla cantina alla soffitta, dove ogni elemento corrisponde a un nostro moto interiore,  dal cassetto dove ci sono le camicie e la biancheria a quello del tavolo da cucina pieno di tappi di sughero e forchette, coltelli, tovaglioli.

Una complessa topologia del nostro essere interiore quella che Bachelard traccia nel corpus della casa in cui trascorriamo la nostra vita.

E, in questa mappa di simboli,  l’epistemologo francese riserva un posto particolare proprio alla soffitta e a tutto il suo carico semantico-allegorico.

 Perché in soffitta ci sono le cose che non usiamo più ma che hanno a che fare con la nostra infanzia e gli anni felici che l’hanno segnata.

Cavalli a dondolo, bauli di vecchi velieri di pirati, vestiti, parrucche, manichini, specchi, cassettoni, cassapanche, tende, vecchi sofà un po’ smollati ma con le tappezzerie damascate che non sono più di moda, sedie di paglia sulle quali volendo ci si può ancora sedere, un tavolo lungo e un armadio che non si usa più. E poi macchine da cucire singer, quelle della nostra bisnonna, ritratti ovali di gentiluomini in marsina, cravatta e tuba, con occhialini a stringinaso, favoriti lunghi e baffi sontuosi,  dame immerlettate e ingioiellate e , in un angolo, la foto di un vecchio contadino con i baffi accanto a un cavallo e  un mulo, e poi una vecchia fattoria sui monti circondati da nuvole rosa. 

 Occorrente per il cucito


Più in là due o tre bambole con un orso di peluche al quale manca un occhio di vetro azzurro, una cassetta di legno intarsiato con spagnolette di cotone e aghi infilati su un cuscinetto di velluto, un tombolo per il ricamo, un fuso per filare e poi ditali, spilli, rotoli di cotone. Tutto su un tavolino tondo di legno e sopra, incorniciato in un filo di legno di noce, anche  il dagherrotipo ingiallito della nonna e delle sue sorelle, le prozie intente al lavoro di cucito. Accanto, una poltrona, invecchiata, dalla stoffa a fiori sdrucita e polverosa, ma tenera e maestosa nella sua vetusta bellezza che t’invita a sedere e pensare al tempo che passa.

E nell’altro angolo, quasi nascosti sotto la grande travatura di castagno che regge il tetto a falda,  gli attrezzi del giardino, quelli del nonno, una zappa, un rastrello di legno con i denti di salice, morbidi ed elastici, e poi gli oggetti di un bisavolo che faceva il ciabattino, il suo “bancariello” con la forma di legno di una scarpa, i martelli, la lama affilata per tagliare le suole, uno scatolo di puntine, un ago con del filo spesso e robusto, un paio di spazzole, delle tenaglie arrugginite e due piccole scarpine in cuoio marrone per bambini, eleganti, robuste. Altro che quelle che oggi vanno di moda,  plasticose, rigorosamente da ginnastica, per dare l’impressione di un popolo di atleti e sportivi, eterni giovanotti anche a ottant’anni,  che fanno mostra di sé ai piedi dei bambini di oggi, figli del consumo e della globalizzazione scellerata che non abbiamo mai scelto.  E che, a dirla tutta, non comprendiamo se non come astuzia vetero-capitalistica di chi vuole continuare a raccogliere profitti spropositati allargando mercati e abbattendo frontiere. 


 Il "bancariello" dello scarparo


Dove sono più queste soffitte nella Costa d’Amalfi? Se qualcuna sopravvive viene sgombrata a forza, in fretta, per far spazio a una mansarda in falso stile moresco-mediterraneo da fittare a turisti che fanno il loro giro del weekend.

Eppure una soffitta così  io l’ho vista proprio un paio di giorni fa. La trovate nel sottotetto dell’ex-sede del Palazzo Municipale di Agerola che oggi ospita la Biblioteca Comunale, la sala del Consiglio restaurata di recente e il Museo Civico della città. 

 
Interno del museo etnoantropologico


Il complesso prende il nome di “Casa della Corte”, in memoria dell’antica funzione che il palazzo aveva,  perché ospitava una Corte Bajulare fin dalla metà  del Quattrocento,  tempo degli Aragonesi e del re Ferrante.

Il Baglivo, ricordiamolo,  era un funzionario, solitamente  di nomina regale,  che esercitava, in nome del Sovrano,  sia il potere amministrativo che quello della giustizia comune. Dunque il riferimento locale del potere centrale e delle sue leggi.

Un spazio assai significativo per la Comunità di Agerola lungo il corso del tempo.

Appropriata sembra dunque la scelta dell’ amministrazione comunale di destinarlo a spazio dei simboli importanti della collettività e anche spazio della memoria nel senso che prima dicevo.

Alloggiato proprio nel sottotetto c’è infatti il Museo Civico. Conquista recente quella dei musei civici, destinati ad accogliere, di una collettività, non tanto (o non solo) le opere d’arte per così dire blasonate, ma anche e soprattutto, gli oggetti umili e anonimi della vita quotidiana. 

Grande vite in legno per torchio


Che testimoniano il lavoro, la dedizione alla propria terra, la costanza, il sacrificio, la crescita ma anche l’intelligenza vigile del contadino-artigiano che ha vissuto la montagna della Costiera e ha elaborato raffinate strategie di sopravvivenza e di vita in equilibrio con la natura che lo circondava.

Luca Mascolo, sindaco di Agerola,  mi ha descritto il complesso processo di restauro della fabbrica, le tappe, le scelte effettuate e come si è fatto, in maniera intelligente,  di necessità virtù, trasformando la soluzione tecnica di rinforzo della struttura portante del tetto, assai compromessa, in punto di partenza per la realizzazione di una bella sala continua dedicata a ospitare il Museo Civico dovuta alla progettazione dell’architetto Naclerio e all’attenta supervisione della Soprintendenza.
Molta cura nella scelta dei colori. E soprattutto anche nel ripristino della facciata esterna dell'edificio, nel ripristino delle soluzioni iniziali e nella scelta delle rifiniture. 

E così è nata la soffitta della memoria di Agerola. 

Bisogna dire che, però, ogni opera realizzata, oltre alle scelte politico-amministrative giuste  e le soluzione tecnologiche corrette,  deve avere un “genio della lampada” che compie il miracolo della sua ispirazione. Un genio ispiratore, un folletto benigno che pensa all’animus del luogo, che lo prefigura, lo evoca dal regno indistinto delle idee e dei desideri e gli dà corpo con la sua dedizione, la sua completa adesione spirituale. 

 Michele Di Perna


E in questo caso l’opera di raccolta degli oggetti che danno vita all’intero complesso è in massima parte dovuta alla ricerca di Michele Di Perna, contadino che ama il suo lavoro, indagatore istintivo e passionale del passato. Dall’attenzione alla memoria e i suoi “reperti” nasce il l’amore per il territorio, i suoi equilibri e la felice intuizione che sono i localismi, l’attenzione al genius loci,  a salvarci dall’ omologazione e le sue stoltezze.


Stolto è adoperare strumenti e oggetti estranei a un luogo. E non si tratta soltanto di un’adesione sentimentale (che pure ci sta e va salvaguardata come componente essenziale della memoria collettiva) ma anche è soprattutto di un’intelligenza creativa e fattuale che si sposa, con il passare del tempo e il sedimentarsi dei secoli, con l’anima del luogo, i suoi equilibri, le sue necessità, le sue ragioni. Per l’appunto, quello che i romani chiamavano genius loci, l’animo del luogo, quel nume tutelare  che ne regolava l’armonia.

Così una zappa, un materiale da costruzione, una pietra, una vena d’acqua sono elementi locali ma entrano a far parte di una mirabile sintesi ed equilibrio universale, dell’homo faber che si accorda con la terra e il cielo.



preparare il sacco per portare carichi

Martin Heidegger chiuse in una formula, quella del “quadrato”, questo equilibrio mirabile che ha segnato la vita dell’uomo saggio lungo il corso della storia.

Quattro sono, per Heidegger,  gli elementi con i quali  l’uomo-contadino, che ama la terra dove vive e muore, si accorda: la terra, il cielo, i mortali e gli immortali. La terra perché dà la vita e accoglie il nostro corpo dopo la morte, il cielo perché fornisce la pioggia e il sole che illumina tutte le cose dando loro calore, i mortali, e cioè la collettività nella quale si vive che è un assieme organico e armonico senza il quale il singolo è destinato alla sfacelo, gli immortali e cioè i ricordi, i trapassati, la loro memoria, la loro prosecuzione nell’oggi. La memoria, per l’appunto. 

Sezione archeologica


E’ per questo che i contadini come Michele, che mi ha illustrato ogni oggetto della soffitta della memoria di Agerola con un amore che sembra oggi sempre più raro,  hanno ancora la chiave della vita e del mondo.

La soffitta della memoria, il Museo Civico di Agerola, è un luogo di cose vive, così come sono, disordinate, raccolte con amore, vissute come vive.

Uno spazio prezioso in un palazzo antico che racchiude oggetti della vita quotidiana di ogni giorno, questa la soffitta della memoria di Agerola.

Molto più di un museo civico. Uno spazio per il ricordo e per la vita che continua.






sabato 4 gennaio 2014

Progettare per insegnare a progettare





di Sergio Stenti

L’università riformata è giunta ora a compimento, e mentre ancora si discute di quale sia il bilancio della penultima riforma, quella Berlinguer del 1999, già iniziano le scommesse sulle conseguenze dell’attuale riforma Gelmini: cosa cambia e per chi.
La riforma Berlinguer era nata per rispondere meglio alle nuove esigenze del mercato che richiedevano titoli intermedi oltre la tradizionale, laurea quinquennale; l’invenzione del 3+2 prevedeva una laurea triennale, completa ma generalista, e un biennio di specializzazione a orientamento professionalizzante.
Ciò sembrava incontrare le richieste del mondo del lavoro in un orizzonte di  sviluppo dell’economia; ma né il mercato né l’economia si sono evolute in questo senso e  nemmeno l’università ha fornito quelle lauree professionalizzanti che si prevedevano.
 Nel 2010 la riforma Gelmini ha invece agito sulla struttura dell’università con lo scopo di una maggiore efficienza, risparmio dei costi e razionalizzazione dell’offerta formativa.
Mentre la vecchia organizzazione in Facoltà e Senato accademico è stata ristrutturata in modo dirigistico, quasi nessuna modifica è stata proposta sul piano dei contenuti della formazione se non una scarsa premialità (10% del FFO) per la ricerca, da assegnarsi all’Ateneo e non al singolo ricercatore.
Unificata positivamente didattica e ricerca dentro i nuovi Dipartimenti, è stato assegnato al nuovo organo  interno Anvur il controllo di qualità per la sola ricerca mentre nessun tentativo è stato fatto per la qualità della didattica.
Appare evidente, dall’enfasi messa sulla ricerca, il desiderio, più ideologico che concretamente organizzato, di incentivare  una attività  collaterale come la ricerca che è la parte debole della formazione.  Ma, dimenticando  di valutare la didattica, si continua a sottovalutare  che il compito principale dell’Università  è quello di  formare laureati qualificati e non conseguire brevetti, attrarre finanziamenti  per ricerche applicate e pubblicare articoli su riviste scientifiche accreditate. 
Questa impostazione appare intrisa di molta retorica: basti pensare alla scelta di mantenere il valore legale del titolo di studio che, equiparando e rendendo identiche buone e cattive facoltà, non premia né la ricerca né il merito.
Sarebbe anche opportuno fare un po’ di chiarezza sulle specificità delle attività di didattica e di ricerca, sui loro differenti obiettivi che, è bene ricordarlo, non sono  uguali o  facilmente sovrapponibili: la didattica richiede coordinamento  funzionale e aggiornamento  per migliorare le chances  di lavoro  dei laureati;  la ricerca chiede sostegno e organizzazione per competere  con altri centri di ricerca  e attrarre finanziamenti esterni.
L’istituzione dell’Anvur è un lodevole passo in avanti per portare la valutazione della ricerca ad incidere sullo sviluppo dell’Università  sia migliorando i docenti sia migliorando gli atenei.  Potrebbe essere l’inizio di un processo di valutazione che conduca oltre il livello dell’auto-valutazione e ci avvicini ai valori concreti espressi dal mercato  internazionale della formazione.  Sarebbe necessario però superare almeno la composizione tutta accademica dell’Anvur ed aprirla a valutatori esterni.  
 Ora, in un quadro generale che vede la riduzione dei fondi, la contrazione dei docenti per un sostanziale blocco del turn over e non aggiornamento delle conoscenze, sparuti incentivi alla trasformazione e perdita di valore della laurea, ci vorrebbero riforme meno retoriche e più realiste per  migliorare  l’università e farla avanzare di qualche posto nel ranking internazionale dove il primo ateneo italiano , Bologna,  si situa al 195° posto.

Architettura come scuola
Le scuole  di architettura soffrono innanzitutto di un gigantesco affollamento di laureati che è andato oltre ogni ragionevole rapporto tra domanda e offerta e che ha cominciato a farsi sentire nel calo delle immatricolazioni scese in otto anni del 15%, e dovute a diminuzione di occupazione e riduzione di guadagni (140.000 iscritti agli Ordini, più del doppio della media europea).  Continuiamo comunque a laureare circa 6000 architetti l’anno nonostante l’alta percentuale di abbandoni scolastici (circa il 30% degli immatricolati) .
Ogni ateneo ha introdotto la formula del 3+2 in modo diverso senza rispettare l’impostazione originaria della riforma (un solo triennale di base con molte specializzazioni biennali) e spesso senza eliminare il tradizionale corso quinquennale che è frequentato solo dal 25% degli studenti italiani (il 75% frequenta il 3+2).  Pochissimi si fermano alla triennale, l’85% continua con le specialistiche per completare gli studi,  dimostrando che l’assunto della riforma Berlinguer che  il titolo triennale ( più un diploma che una laurea) serviva per coprire posti intermedi nel mondo del lavoro,  non si è verificato.   Salutari esperienze pratiche, durante la laurea, introdotte con i tirocini esterni hanno avuto grande successo, anche se il monte ore ad essi riservato ( 150/200 ore in cinque anni ) potrebbe utilmente essere aumentato. Non sono stati previsti, cosi come per altre professioni, tirocini obbligatori post laurea per l’iscrizione agli Ordini, lasciando inalterato, anzi incredibilmente complicandolo, l’inutile e vessatorio esame di stato. Sul rapporto poi tra valore legale del titolo di studio ed esame di stato ci sarebbe anche da capire a cosa serve mantenere entrambe le condizioni per la professione che, notoriamente, non verificano le conoscenze minime del mestiere. 
Infine il terzo livello di formazione, masters e dottorati, a parte alcune eccellenze, soffre di poca specializzazione e di poca partecipazione (per entrambi la percentuale di laureati frequentanti è ad una sola cifra, 7/9 %) e non sembra migliorare le possibilità occupazionali . Soprattutto i dottorati soffrono per diminuzione delle borse di studio e per un uso del titolo ridotto solo al campo accademico. Queste  specializzazioni post laurea infatti non sono  ancora riconosciute come  titoli qualificanti nel mondo del lavoro come  invece succede dovunque in Europa.

 La formazione
 I punti deboli dell’attuale formazione possono essere sintetizzati in tre parole: generalista, professionalizzante e incompatibilità.
La formazione non è chiaramente impostata su una delle due scelte, generalista o professionalizzante, non riuscendo quindi a guadagnare i meriti e ridurre gli svantaggi di entrambe.
Nella grande maggioranza prevale un orientamento generalista frutto di una tradizione culturale che in passato ci ha consentito grandi vantaggi, ma che oggi, per le (ex) facoltà professionali, non è più sufficiente.
Ma cos’è una formazione generalista?  Una formazione non specialistica, dove viene data importanza ai “fondamentali” come nella tradizione umanistica, ma che non qualifica per il lavoro e che necessita di ulteriore apprendimento: il terzo livello universitario.
Una formazione siffatta può produrre un laureato colto ma non può produrre una figura tipo “coordinatore della progettazione” che anzi richiederebbe, in un team progettuale, larghe competenze più che ampia cultura.  Salvo che non si ritenga che il lavoro progettuale inizi e finisca con l’elaborazione del "concept" demandando ad altri lo sviluppo esecutivo.
La formazione professionalizzante è invece più chiaramente orientata al mestiere e alla sua pratica, con uno spostamento della figura dell’architetto: da creatore unico a collaboratore in gruppo.  Nel rapporto cultura umanistica saperi tecnici lo sbilancio dovrebbe andare all’acquisizione di competenze per il mestiere e in questa logica si dovrebbe lasciare al terzo livello, al dottorato di ricerca, il compito di un’acquisizione critica, di alto livello, delle conoscenze.
Il progetto di architettura, lo specifico architettonico è sempre stato l’opera e non il saggio scritto; non gli articoli ma i progetti ne sono, infatti, lo agire più importante ed è evidente che il centro della sua formazione deve essere rappresentato dalla capacità di saper progettare e di farlo in team.
Infatti, è nel progetto che la ricerca  in architettura  trova il suo fondamento e il suo scopo.
Ma si può imparare a progettare con docenti che non hanno mai costruito nulla  o calcolato nessuna struttura  statica  antisismica ?
Sembra un paradosso del nostro sistema universitario il cui fine, mettere tutte le energie della docenza al servizio dell’Istituzione, si è ribaltato nel suo opposto, un invecchiamento delle conoscenze e delle competenze. 
 Nell’Università i docenti che fanno professione sono considerati insegnanti di serie B e non fanno carriera, non accedendo ai ruoli dirigenziali; le loro opere, infatti, non sono valutate come ricerca e costoro sono messi ai margini della “governance”.
Si assiste purtroppo alla svalutazione di ciò che è il focus della formazione, la qualità del progetto architettonico inteso come luogo privilegiato d’incontro collettivo tra la didattica e la ricerca applicata.
C’è una tendenza di pensiero accademico che ritiene che tutte le discipline siano quasi sullo stesso piano, uguali ed equipollenti e che tutte formano in ugual modo l’architetto.  Tale tendenza ha spodestato il progetto di architettura dalla centralità della formazione, e ha facilitato la sua sostituzione con un diverso concetto di progetto, il progetto tecnologico.
Perdendo la centralità del progetto, la formazione si è come liquefatta suddivisa in tante sub-discipline che non restituiscono quella ricerca di senso che ha sempre caratterizzato il progetto architettonico.   
Il vecchio tripode della formazione, progetto, storia e struttura che sosteneva la gerarchia degli studi fino a qualche decennio fa, è poi diventato quadripode, con l’aggiunta di tecnologia, eterea ed evanescente materia nata da una costola di tecnica delle costruzioni.
Ma,  svincolatasi  successivamente da ogni fedeltà storico-critica  relativa al mondo delle  costruzioni  e liquefattasi  nell’Università ogni gerarchia contenutistica, la tecnologia  ha intercettato la pretesa  contemporanea della “tecnica”  di scrollarsi di dosso  ogni scopo esterno a se stessa. Cosi, accogliendo tutte le istanze di ammodernamento  prodotte dal mercato  e dal  sociale e legate alla sostenibilità ambientale ed energetica, il sapere tecnologico si  propone come  autonoma progettazione tecnologica.  Da mezzo si sta trasformando in scopo secondo la classica eterogenesi dei fini.
D’altro canto una riflessione sulla divisione in tante sub discipline in cui si è frantumato il sapere architettonico oltre il tripode tradizionale, sarebbe quanto mai utile per ripensarne i contenuti.
Ciò che emerge nella formazione attuale è, infatti, una certa indifferenza alla ricerca di senso dell’architettura, ai rapporti tra contesto, costruzione, linguaggio e uso che l’ha caratterizzata fino ad ora. E tale condizione, che oscura le domande sul valore civile che essa dovrebbe e potrebbe svolgere, è facilitata anche dall’impossibilità di sperimentare ciò che si progetta:
L’incompatibilità tra insegnamento e professione, infatti, blocca ogni avanzamento culturale dei docenti e ogni miglioramento della formazione. Enti europei come l’Unesco e l’Uia hanno sentito il bisogno già nel 2000 di raccomandare alle università di selezionare docenti di architettura che abbiano uno stretto contatto con la pratica professionale ovvero una solida esperienza.
Codificata nel 1996 ma iscritta da tempo nelle nostre leggi come obbligo  per tutti i dipendenti pubblici con punizioni e sanzioni ai trasgressori, l’incompatibilità  è una vecchia  ideologia statalista che vede il privato come possibile corruttore   degli interessi collettivi che l’Università  rappresenta.    
Il paradosso dell’incompatibilità è che un’esigenza conclamata nel clima sessantottino della lotta al professionismo, contro la “riduzione culturale” come si diceva allora, si sia ribaltata nel suo opposto, bloccando ogni sviluppo e aggiornamento dei saperi accademici.
Renato Nicolini sosteneva che gli unici movimenti di riforma dell’Università erano stati due. La contestazione del 1966, sfociata poi nel ‘68, e la Tendenza nel 1980, che inventò il rapporto morfologia tipologia e l’architettura della città contro le fughe nella grande dimensione o nella tecnologia. Eppure questi movimenti hanno finito per incoraggiare una deriva anti-professionale che alla fine ha ribaltato quelle richieste culturali nel loro opposto: paralisi e declino dei saperi accademici con esaltazione dello scrivere piuttosto che del progettare e del costruire.
Per arrestare un declino di contenuti che acquista velocità ad ogni riforma governativa che vuole regolare dall’alto,  con centralismo e dirigismo e senza incentivi,  tutte le diverse discipline dentro le Università,  si dovrebbe sperimentare  un qualche  modo per rendere centrale e collettivo il progetto di architettura.
 Tra le tante ipotesi possibili, la soluzione dell’intra-moenia (come per i medici) potrebbe essere un passo su cui val la pena interrogarsi. Una progettazione interna alle ex Facoltà, regolata e calmierata, in grado di competere con gli studi privati nelle commesse pubbliche.