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ebook di ArchigraficA

domenica 31 marzo 2013

Le carte a posto





Le carte a posto

 di Claudio Cajati


Io, Michele, e mia moglie, Arianna, siamo una vecchia coppia. Io 65, lei 62. Una coppia tranquilla, più volte collaudata, inossidabile. Ci siamo sempre voluti un gran bene e rispettati. Appena ogni tanto qualche baruffa: ma, come dice il proverbio, amor senza baruffa fa la muffa.
Così credevo.
All’improvviso, l’amara sorpresa.
Vado a raccontarla, cercando di rimanere sereno.
Fra i riti patologici del matrimonio o, più in generale, della convivenza, c’è quello di conservare in casa di tutto. Per anni e anni. In cassetti, ripostigli e angoli dimenticati. Alla rinfusa, senza altro criterio che quello dettato dalla smania di conservare (“Dovesse tornare utile, chissà...”). Così si formano stratificazioni profonde e indecifrabili, bisognose di scavi archeologici.
Nel nostro caso, si tratta soprattutto di carte: io sono scrittore, Arianna prof al liceo classico. La carta, le carte, ci hanno accompagnato per decenni. Fedeli, non avrebbero voluto lasciarci.
Ma l’altro giorno ho sentito l’urgenza di ribellarmi. Mi sono messo alacremente all’opera. Al grido di “Buttare, buttare, buttare!”
Però fra le carte obsolete e inutili si può sempre annidare invece qualcosa di prezioso. Occorre quindi spulciare con calma. Frenare e mitigare l’imperativo del ‘buttare’ con un’attenta calma disamina.
Ma c’è anche di più. Che me lo proponga coscientemente o meno, sono sempre alla ricerca di spunti narrativi. La mia inventiva, alla mia età, è ormai fiacca, devo ammettere.
E sono stato fortunato. Spulciando fra carte ingiallite, qualcuna ancora sporca di caffè o perfino di un residuo di miele o marmellata, ho trovato titoli promettenti. Chissà perché – come faccio ora a ricordarmelo? – rinunciai a tradurli in testi narrativi. Oppure mi sono capitati fra le mani racconti incompiuti. Adesso saprei come condurli al termine: è venuta meno la sfiducia e l’inesperienza che determinarono un abbandono.
Ci ho messo l’intera giornata a fare pulizia. Alla fine ho buttato più del novanta per cento delle carte cavate da vari anfratti della casa.
Ero stanco ma soddisfatto. Provavo il senso esaltante di una liberazione. E avevo rimediato alcune trame niente male, degne di sviluppo.
Arianna ha apprezzato molto il mio lavoro. Un complimento generoso e un largo sorriso. La sera tardi, ma non troppo tardi, ero quasi distrutto, perbacco, mentre andavamo a coricarci, lei mi ha detto: “Io sono pigra, lo sai, e poi le mie carte sono perfino più delle tue, ho conservato le cose più assurde, non so perché. Ci pensi tu a fare pulizia? Lo sai che mi fido. Del resto hai seguito passo passo la mia avventura di insegnante, sai quasi tutto quel che c’è da sapere...”
Ho accettato volentieri. E ci siamo addormentati subito, ancora immuni da insonnie senili, meno male.
La mattina seguente, anzi era ancora notte, sono saltato dal letto come una molla. E in pochi minuti ho raccolto, sul tavolo più grande che abbiamo, tutte le carte di Arianna.
(Forse un uomo non dovrebbe mettere le mani nelle carte di una donna, di una prof, e tanto meno di una che è sua moglie... ma io l’ho fatto, con una determinazione e una disinvoltura che mi hanno sorpreso.)
Quante porcherie che sarebbe stato ragionevole cestinare subito! E invece carte di dieci, perfino venti, trenta anni prima, inutili e prive del pur minimo requisito del ricordo prezioso: stavano lì, indifese davanti alle mie mani implacabili. Cestino, cestino, cestino.
Poi sono incappato nella brutta della lettera con cui Arianna comunicava al grande scrittore Jorge Messi l’intenzione di fare la tesi di laurea su di lui. E chiedeva di incontrarlo per un’intervista.
La risposta di Messi non l’ho trovata. Ma ricordo che lui l’intervista la concesse. E che fu il pezzo forte della tesi.
Ho messo da parte la lettera: ad Arianna poteva interessare conservarla. Le avrei chiesto conferma quando fosse tornata da scuola.
E ho continuato infaticabile l‘operazione cestino.
Quella che ora mi capitava fra le mani, ben custodita in una busta celestina appena sgualcita, era un’altra lettera. Questa pure in spagnolo. Ma con una grafia differente da quella di Arianna. Una grafia rotonda, imperiosa, fluida. Insomma, non era una lettera scritta da Arianna. Ma una lettera di Messi a lei.
Anche se il mio spagnolo è zoppicante, non ho avuto bisogno del vocabolario per capire. Lo slancio, l’entusiasmo, la passione delle frasi non lasciavano dubbi. Fra loro c’era stato molto più che un’intervista.
Poi altre lettere, continuando la mia cernita, mi capitavano fra le mani, a cascata. Lettere di lei a lui, di lui a lei. Non potevo dubitare: una lunga relazione fra loro. (Io, accidenti, ero riuscito a non accorgermi di niente. Che stupido, io e la mia benedetta letteratura...)

Ciò che state leggendo non vuole essere una confidenza o uno sfogo.
È l’annuncio di un racconto. Io sono e sarò, fino in fondo, scrittore. Condanna e riscatto.
Non ho detto niente ad Arianna. Non le ho detto che ho trovato il carteggio – chissà perché non l’ha distrutto. Non le ho detto il mio stupore, il mio sconcerto, la mia mortificazione, il mio dolore. Io che credevo che mi fosse sempre stata fedele, come le sono stato io, eppure ne ho avute occasioni...
Lei non sa niente. E non deve sapere niente. Mi sono sforzato di essere con lei uguale a sempre. Premuroso, affettuoso, educato.
Così ho trattenuto in me tutta l’energia. E subito ho deciso il da farsi. Dal carteggio cavare un racconto. Ma non posso scriverlo subito. Devo fare decantare rabbia e smarrimento.
Però penso che sarà un grande racconto, un piccolo capolavoro.
Non so, e non voglio saperlo naturalmente, quanto godette Arianna a letto con Jorge Messi. Ma dubito che possa aver goduto quanto, con la mia sapienza di scrittore, saprò far godere l’Arianna del mio racconto. La farò letteralmente impazzire di godimento. E i lettori, travolti dall’eccitazione, faticheranno a tenere le mani a posto.


venerdì 29 marzo 2013

Cum Finis, Napoli e il suo destino


Francesco Escalona:

L’insalata di pomodori.
Mi domando se, quando si stilano le classifiche sulla qualità della vita nelle città e nei territori, si tiene mai in conto il tepore del sole, la presenza del mare o … il sapore delle pesche bianche o dei pomodori mangiati “all’insalata”, appena colti dalla terra lì accanto.
Qualche anno fa ad Ischia mi capitò di cenare nella masseria di un amico. Fu tutto improvvisato e Claudio, scusandosi, portò a tavola una coppa di pomodori all’insalata dicendo imbarazzato … :
“ Scusate, non avevo altro … “
La serata era calda al punto giusto, la compagnia interessante, il vino e i discorsi ondeggiavano come un’amaca in un pomeriggio d’estate dopo il mare …
Tra una battuta e l’altra, distrattamente, assaporai uno spicchio di pomodoro … 
Mi prese una sorta di ebbrezza dei sensi … un profumo soave di basilico, anch’esso appena colto, mi annunciò l’apoteosi della polpa turgida ma succosa che spremevo appena tra i miei denti, e sulla quale coglievo ancora con le mie papille sorprese, i granuli del sale che, ancora non sciolti alla perfezione, mi pizzicavano sottilmente la punta della lingua … e poi, gloriosamente, giunse il retrogusto dell’olio di oliva fresco in viaggio dalle meridiane terre di Puglia, di cui, grazie alla sapiente spremitura e al trattamento rispettoso, si avvertiva ancora tutto l’ardore e, soprattutto, la matrice millenaria da cui quel succo era stato estratto … 
“Maro'!” esclamai. 
Chiusi gli occhi. Stavo riscoprendo, novello Colombo, la nostra America, 
l’insalata di pomodori.
Morale. Qualità della vita: nuovi indicatori di qualità da suggerire sommessamente agli egregi valutatori internazionali, per determinare meglio, il reale punteggio finale della qualità della vita presente nelle città e nei territori europei. Numero giornate di sole splendente con brezza : punti … ; 
insalata di pomodori con ingredienti appena colti: punti … ; 
mare e paesaggio mediterraneo: punti …
 Questo vuole dire anche che dobbiamo difendere “con le armi” il nostro suolo e la nostra terra. 
L'insalata di pomodori
Io a Novara non ci vivrei neanche morto.


Giacomo Ricci

Sono d'accordo con te. Mio figlio è a Berlino, la tanto decantata Berlino e la trova orribile. Mi ha spedito un paio di foto di condominii modernissimi, strade larghe deserte. Lui dice Berlino, città senza storia. Allora, quando giro per il Centro Antico di Napoli io sono il più felice degli uomini. Quei vicoli stretti e bui, che farebbero spavento a una persona "normale" sono la mia gioia. I pomodori di cui tu parli, l'aria che viviamo ancora, il mare, tutto concorre a fare di Napoli la città più bella del mondo. 
Novara, a confronto,  è poca cosa, concordo. Il problema è che dobbiamo farlo capire che la nostra idea della vita è diversa, differente, fatta di storia, di terra, pomodori e tutto il resto.


Francesco Escalona

Spero di non annoiarti. Ma il nostro dialogo a distanza mi stimola molto. Continua quindi con uno scritto di circa un anno fa. Il tema che hai colto è di quelli che mi appassionano. Il nostro rapporto con Napoli. Io ora dico: con la baia di Napoli, che poi è l'entità geografica ed etnica che riconosco come mia patria. La baia di Napoli... Ma come si può pensare di andar via? Per intellettuali passionali come noi, e della nostra età, permettimi di accomunarti alla categoria, l'esilio dal "golfo" equivarrebbe allo sradicamento totale e quindi alla perdita della linfa vitale: lingua, luce, suoni, profumi, storie... Impossibile andar via. Per me, penso per noi. Tra il prendere o il lasciare, resta, ahimè, una sola opzione. Una sola dolce, amara, opzione...

Napoli: cum finis al centro del mondo




“Napoli è il centro del mondo”. Un modo di dire, un luogo comune ripetuto nel tempo dai suoi abitanti, con orgoglio ma anche con un pizzico di altezzosità.
 E così anche quando arrivano i tempi duri, la decadenza finisce per attestare per assurdo il suo contrario, ovvero, l'imponenza della sua storia millenaria e la grandezza dei periodi precedenti in cui Napoli era 
centro del mediterraneo, conquista ambita, punto di riferimento artistico - culturale, meta irrinunciabile, tappa finale del Grand Tour …
 da cui, poi, deriva una decadenza.
Non si decade da ciò che non si è stati. 
Ma forse quel luogo comune era solo uno stupido retaggio culturale di chi era nato e cresciuto orgogliosamente nella antica capitale del Regno delle due Sicilie. Nella città illuminista più grande d’Europa.

Oggi, Napoli è tornata ancora una volta ad essere terra di confine.
Cum finis. 
Lo era già stata Cuma, la città morta. Cumae finis, città madre sorta al confine del mondo conosciuto, che poi fondò Neapolis. 
Lo era stata Neapolis per Cuma: null'altro che una terra di confine.
 E Cumae e Neapolis, il Vesuvio, Pithecusa e i Campi Flegrei, erano il limite dell’arcaico ingresso dell’Ade: una delle porte all’oscuro, misterioso, fumigante Regno degli Inferi. La sede dell’Oracolo dei Morti, annunciata ai naviganti, celebrata e custodita dalle presenze mortifere
 delle Sirene, di Cerbero, di Calipso; di Artemide trimorfos e, un po’ più a nord, di Circe, la Maga.
Era rocca di confine Cumae, stretta tra i greci d'Occidente e i barbari Etruschi,
 linea di demarcazione, porta del Tartaro.
 Linea di Cum finis tra la luce e buio.
 Tra l’inverno di Ade e la primavera splendente di Demetra. Soglia chiaroscura varcata da Persefone ad ogni equinozio.
Confine, tra il buio caravaggesco e le lame di luce di pioggia d’oro, che generarono Perseo.
 
Fendenti laceranti di luce la tagliano ancora, la stanca Neapolis, ovunque,
 nei vicoli dei quartieri spagnoli,
 nei chiostri freschi del centro antico, negli antri tufacei e polverosi dei Vergini e di Posillipo, ricordandoci sempre, anche quando siamo al buio, nel buio più fitto,
che oltre quel confine,
 Cum finis,
 c’è l’azzurro.
C’è l’azzurro del mare e lo splendore della bella giornata di sole della baia di Napoli.
"Oggi Napoli, è tornata giù negli inferi.
 E' tornata ancora una volta ad essere terra di confine." qualcuno scrive.
Terra disperata, terra di limite in tante cose …
Sì, avete ragione, concordo: certo, vediamo tutti i giorni una città governata (o non governata) da poteri deboli o squallidi,
 in conflitto perenne. O che passano, semplicemente, sopra la vita, sopra l'anima della gente.
 E’ tornata una città povera che quasi non produce più.
Una città spesso violenta.
 Forse siamo sull'orlo di una crisi sociale che potrebbe sfociare in rivolta violenta.
 
Lo so, lo so …
Ma so anche che nella nostra storia c'è già stato anche questo, tante volte e che ne siamo usciti:
 Masaniello, l’oscurità dei vicerè, i canti sguaiati dei Sanfedisti, la borsa nera, la rivolta degli scugnizzi in quelle quattro giornate.

E che c'è stata l'occupazione americana e i marocchini, e i bombardamenti, 
e una guerra amara che ci ha rivoltato l'anima come un calzino.

E c’è stata La pelle e Napoli milionaria e i racconti di Eduardo e di Nicolardi, e i vicoli freddi e umidi d’inverno, e il caldo torrido di agosto. 
E il caos, la confusione, e le prepotenze dei guappi.
Ma so anche che questa città è capace, anche oggi che è povera e sbandata,
 di ospitare in pace più di cento etnie e che la nostra cultura è ancora viva e conosciuta in tutto il mondo e …
La musica napoletana, il San Carlo,
 la pizza profumata e il sole la mattina.
E che siamo un sito Unesco, patrimonio dell’umanità, forse il più grande.
 E che il centro antico è vivo, e non è poco.
 E che dove sono perfetti, puliti e lucidati, rischiano di finire implasticati o svuotati,
 come scorze e carcasse vuote nel deserto.
No. 
Non ho una visione incantata di questa terra.
 E' questa terra che è incantata. Ricchissima, sorprendente. Nel bene e nel male.
E’ che qui,
il bello comprende anche il brutto.
 E il giusto, lo sbagliato.
 E’ che qui, come diceva un piccolo uomo: “l'essenziale è invisibile agli occhi".
Lottare, lottare, lottare, contro a ‘sti fetienti’, certo. Non bisogna mai smettere di lottare:
per provare a migliorarla, a cambiarla. Per continuare a viverci e non andare via. 
MAI. 
Lo facciamo tutti i giorni.
 Del resto lo sappiamo, siamo gente di confine. Cum finis.
Ma poi, alla fine, non c'è altro da fare che amarla.
E quando entri nella Biblioteca Nazionale, o vai a San Gregorio Armeno o a San Martino, o ai Vergini
, pe’ ghi' a truvà’ e’ capuzzelle, magari aroppo na bella jurnata ‘e primmavera …
comme a' na ‘nnammurata - ‘a cchiù disgraziata - te fa ‘na risata sguaiata,
 e si fa amare:
poi, jesce a luna ‘n copp’ ‘o Vesuvio ... e brilla ‘o mare ‘e Marechiaro ...
e si fa amare.

Per quello che è.
"Te voglio bene assaje", cantava fino a ieri Lucio, il napoletano.
Le sue note riecheggiano ancora nella notte.
 E allora, ti ricordi, checcè ne dicano, checcè ne scrivano, che qui sei al centro del mondo … ma anche al confine.
Cum finis mundi.

Prendere o lasciare.


Giacomo Ricci

Molta retorica nei nostri pensieri. Molta fame, poca concretezza, abbandono, paura, incoscienza. Non lo so. So solo che questa città mi sta ancora nel cuore, nonostante tutto. 
Ma riesco anche ad essere cinico quel tanto che basta per vedere il grande rischio di cadere dalla banale retorica di ogni giorno nel ridicolo. 
Una città che dovrebbe avere cittadini coraggiosi e implacabili. In grado di sbattere fuori i politici corrotti e il malaffare, le truppe di delinquenti che da sempre invadono il territorio e l'amletica leggera di noi "intellettuali". Ci sono, da qualche parte cittadini coraggiosi? Se non li vediamo allora rimane solo la retorica. Quella di sempre. Quella vinta e rassegnata. 
E allora è veramente la fine.


Francesco Escalona

Quello che hai detto, nel mio scritto è nella frase:

"Lottare, lottare, lottare, contro a ‘sti fetienti", certo. Non bisogna mai smettere di lottare: 
per provare a migliorarla, a cambiarla. Per continuare a viverci e non andare via. MAI. Lo facciamo tutti i giorni. Del resto lo sappiamo, siamo gente di confine. Cum finis." 

Questo brano quando l'ho scritto però cercava di andare "oltre". Di affrontare un tema un pò più esistenziale. E' di un anno fa. Una eternità. E forse oggi è già fuori dal tempo. Ieri sì, ma oggi non più. Forse non è già più il tempo per fare uscire queste cose dal cassetto e dalla bocca. Ma non posso negarmi che le penso. E qui si apre un altro capitolo: quello politico. Come uscire da questa situazione? Come aggregarsi intorno ad un agire politico coerente? Come orientarsi in un mondo che cambia ogni poche ore? Tutto cambia così vorticosamente ed indipendentemente dalle nostre battaglie perchè i flussi del cambiamento arrivano da Taiwan, o dalla Cina, o dal Brasile piuttosto che dall'India. 
Pensa  a come vedevamo il mondo solo un mese fa. Prima delle elezioni. Una opportunità a portata di mano: fuori PDL, Berlusconi e Mafia dalla politica. Un governo con SEL forte e condizionante come la lega in quello precedente. Oggi il PDL è al 33 %. E come vediamo svolgersi davanti agli occhi, questa realtà incomprensibile oggi, e ieri, e l'altro ieri. Sempre diversa. Come un virus che muta sempre. E come razionalmente, disperatamente cerchiamo di capire 'sta crisi, leggendo, interrogandoci vicendevolmente. 
Dov'è l'aggregazione a cui attaccarsi, attorno a cui serrarsi, il pensiero condivisibile, chiaro, il sol dell'avvenire? Partiamo. ma in che direzione andiamo? Qual è la meta? 
Lavoro per SEL, nella mia sezione di Bacoli. Bravi ragazzi. Appassionati. ma già a Napoli, .... Dove sono "quei cittadini coraggiosi e implacabili. In grado di sbattere fuori i politici corrotti e il malaffare, le truppe di delinquenti che da sempre invadono il territorio ... " Dove sono? Non li vedo. Non li vedo in SEL (ci sono dentro) non li vedo intorno a de Magistris, a Grillo: massa di pecoroni, sbandati e isterici, ignoranti di politica.
Resto perciò ancorato ad un pensiero lungo, profondo, storico, di lunga gittata, che ho provato a scrivere, che appare retorico. Per tracciare una visione, una strada, per andare avanti di qualche passo. Per non cedere alla disperazione. 
Addà passà 'a nuttata. 
Che poi alla fine, anche se ora non serve, è la verità. Ma non è rassegnazione, ti assicuro. Non sarei qui a scrivere questo. E' il costruirsi uno scoglio a cui aggrapparsi. Tutto passerà. Ma Napoli, resterà più o meno sempre simile a se stessa. La sua bellezza, oggi è conforto.


Giacomo Ricci

La tua incazzata disperazione è la mia. Io sono più vecchio e la sensazione che provo è quella di aver fallito tutto. Ma proprio tutto. Alla mia età si tirano le somme. E non tornano. Sia sul piano personale che su quello più generale, politico. Il PD è un aborto, un orrore, una stupidità fatta a sistema. Tutti gli altri, Grillini in testa sono inqualificabili. Resta SEL che però è in netta minoranza. Nessuno si fila più i comunisti o quello che ne resta. Io sono ancora comunista e ho sempre visto in queste crisi del capitalismo in decadenza quello che diceva Marx di cui non si parla più. E' una fase storica. Deve fare il suo corso e noi non ci possiamo nulla. 

Napoli è bellissima. Lo so e sono d'accordo con te. 
Ma è sconfitta dall'annessione, dall'Unità d'Italia. 
E' la capitale di uno stato sconfitto che non esiste più. E anche in questo consiste la sua bellezza. Una bellezza amara, tragica, immobile. 
Un popolo immobile e vinto. Che se ne fotte dei governanti. Che se ne fotte di De Magistris e degli altri. I De Magistris passano. 
Questo popolo rimane. Sconfitto. Avvilito e furbo. 
E' un popolo sotterraneo ormai. Altro che solare. 
Il mare, il sole, la pizza  sono simboli vuoti. Non significano più nulla. Anche se sono alla radice della bellezza di Napoli. 
Sono vuoti, come simboli, come linguaggio. Non parlano più. 
Per tornare a contare ci vorrebbe una specie di miracolo. E noi non siamo attrezzati per i miracoli. Non sappiamo fare neanche le cose più banali di ogni giorno. 
Capisco e condivido la tua incazzatura. E' anche la mia, come ti dicevo. 
Ma rimane tale. 
Non possiamo fare nulla. 
Ho tentato di scriverlo nel capitolo finale di Lazzari
La sconfitta e il senso senza senso della nostra condizione di napoletani. 
Lo riscrivo qui. Così mi spiego meglio.

Tornavo a casa.
Tardi. Voci per i vicoli s’inseguivano come pallida eco di persone scomparse.
Rosetta era scappata al paese. Tra cani, gatti, alberi. A rigovernare cose che aveva per troppo tempo rimandato, dati gli avvenimenti. Era tra le sue piante, i suoi fiori, nell’orto, nella fidata natura del suo giardino, tra le amate bestie. A guardare il mare che si vedeva da casa sua. Dall’alto come un’infinita distesa di blu profondo.
«L’azzurro fa bene, allo spirito e alla salute» mi diceva sempre.
Da casa sua il mare era protagonista assoluto. Riempiva tutto il campo visivo. La casa stava in alto, sul picco di una roccia che cadeva a piombo verso il basso. Da là sopra si dominava l’intero orizzonte. E il mare appariva verticale, una distesa enorme. Come non l’avevo mai vista in vita mia, una forte emozione. 

Per i vicoli la puzza della spazzatura si era un po’ attenuata. Disinfettavano con cloroformio e altre schifezze varie. Trascinando via la munnezza dal quartiere -ma dove l’avrebbero portata stavolta? - tentavano di cancellare le tracce della rivolta popolare. E già, la rivolta era come la munnezza. Cose disdicevoli, da togliere dalla vista dei buoni cittadini. L’odore acre del disinfettante, mescolato ai miasmi dei rifiuti in decomposizione fluiva nei miei pensieri di disfatta. L’effetto, su di me, era nauseante, devastante.
Umor nero il mio. La mia era una sconfitta incondizionata perché non capivo la ragione, la sostanza degli avvenimenti. C’erano cose che mi sfuggivano. Storie incomplete. Uomini mai messi del tutto a fuoco che sparivano all’improvviso dalla mia vista. Ire dimenticate, fuochi rapidi ad accendersi e spegnersi. Aneliti dissolti senza lasciare traccia. Animi dilaniati che si erano di colpo acquietati. Scenari smontati troppo in fretta, speranze naufragate, conciliazioni assurde e inaspettate.
Tutto era tornato pacifico come prima. Per me un paradosso insopportabile. Come se nulla fosse stato. Da qualche parte doveva pur esserci il capo di quella matassa informe.
Tutto, alla fine, rientra, si ricompone.
Ormai m’ero fatta l’idea che a Napoli questa fosse la norma. Come se nulla fosse. Una città splendida ridotta a un’immensa buca di spazzatura. Spazzatura vera e come metafora. E tutti tolleravano tutto.
In un momento sembrava che la terra dovesse inghiottire i prepotenti e la loro arroganza, che il popolo potesse cancellare tutto, conquistando la sua indipendenza, e subito dopo tutto si dimenticava.
Il destino? Un disegno superiore già tracciato, contro il quale non potevi nulla. Era la terribile Nemesis, priva di qualsiasi scrupolo. Tutti erano vittime del suo capriccio, inutile ribellarsi. L’antica rassegnazione del popolo napoletano, ereditata dagli antichi greci, mi penetrava sotto la pelle. Mi narcotizzava. Che ci volevi fare? Mi ripetevo senza convinzione. Incazzato nero.
E Aitano? Sembrava sparito. Anche lui inghiottito nel nulla.
Un popolo, una plebe che ogni tanto s’infuoca. Si ribella e sembra che voglia mangiarsi il mondo.
Episodi di ribellione come strani punti di una storia di sottomissione, nodi di rabbia che esplode e che poi svaniscono nella merda del quotidiano, avvilendoti ancora più di prima. Donne che cacciano i tedeschi e la loro protervia, la loro violenza cieca, rozza e bastarda. Ragazzotti scalzi che mettono in fuga gli eserciti spagnoli, spingarde, cavalli e archibugi. Altri ragazzotti con le scarpe rotte che lottano contro i carri armati. Come ce li aveva raccontati Nanni Loy.
Il popolo è sempre stato lo stesso. Debole e confuso. Disperato e impotente. Vigliacco e cialtrone. Avvilito, rassegnato. Incazzato e violento. Ma poi si è sempre piegato. Come Cristo al suo destino. Abbracciando la sua croce.
A ognuno la sua croce.
Nel Seicento come oggi, in questo momento. Le teste non cadono com’era facile cadessero allora a Piazza Mercato. Ma la logica è la stessa. Chi può approfitta e diventa spietato, tradisce la sua gente, la rinnega. Scimmiotta quelli che l’hanno tenuto fino a quel momento in scacco. Così i deboli diventano prepotenti e gli umiliati si trasformano in torturatori. Poi c’è la specie più infame, quelli che fanno le veci dello stato e ne ricavano soldi. Gli arrendatori, gli speculatori, gli sbirri di tutte le epoche. I soldati di ventura, quelli che distribuiscono la morte a pagamento. Quelli che prendono il pizzo. Appoiano a liubarda, appoggiano l’alabarda, cioè sfruttano tutto, come la soldataglia spagnola, data in affidamento a una famiglia. Diventavano padroni di ogni cosa, letto, cibo, soldi, mogli, figlie e bambini che destinavano a fare le puttane, allo schifo della strada e si piazzavano in casa da piccoli tiranni parassiti, riducendo i maschi di casa a schiavi, a pulire loro il culo. Turpi soldati, feccia degli uomini.
La plebe ogni tanto esplode per la rabbia. Ma poi, come dice Malaparte, si chiude, ripiega nella solita rassegnazione. Sopporta tutto. Accetta il destino che scende dall’alto. La mala sorte s’infila in ogni connessura della realtà come un morbo letale e inevitabile. E tutti ne soffrono, sembra ne debbano morire, ma alla fine, non si sa come, sopravvivono, in qualche modo.
Napoli ha accettato il suo destino, centocinquant’anni fa, quando è stata declassata, non più capitale di un regno, ma simbolo della vergogna e dello sfacelo del sud d’Italia. Capitale di una terra di frontiera, di un deserto. A capitale ra’ munnezza.
Un popolo in guerra, in prima linea. Come se niente fosse. Nel Settecento grande città d’Europa, seconda solo a Londra e Parigi, oggi è la sua pattumiera, proprio alla lettera perché da tutte le parti qui si vengono a versare merda e prodotti tossici. La plebe ha accettato di non avere più un re. Ha permesso che la memoria dei suoi re, ritenuti da tutti maledetti, inetti, arroganti, barbari, fosse disprezzata. Che tutto fosse annullato. Che la grandezza del Settecento napoletano svanisse come un fuoco fatuo, una nebbia, un sogno.
I Napoletani hanno sopportato e sopportano, come inevitabili, gli insulti della parte più stupida di questo condominio piccolo borghese di merda al quale l’Italia s’è ridotta. Sopportano la strafottenza della peggiore classe politica che ci sia stata negli ultimi due secoli. Una barzelletta, peggio, una truffa, una congrega di uomini da niente. Subiscono l’arroganza della delinquenza più proterva e bestiale. Lasciano che le loro sorti dipendano interamente dal capriccio, dall’ignoranza e dalla convenienza dei piccoli re delinquenti che proliferano come vermi su un cadavere in decomposizione, i piccoli boss, i miserabili che si credono grandi padreterni. 

I napoletani sono cavie. Fenomeni da baraccone. Da mettere in mostra come freaks. Storpi, nani ripugnanti, con due teste e un cazzo floscio al posto del naso.
Roba da depravazione. Da fare il solletico e accendere le voglie di tutti i devianti del mondo. Fuck you.
Come quella donna in tuta verde pisello. La tuta e il colore ne esasperano la pinguedine. Col grasso che le scivola sulla vita da tutte le parti, un sorriso brutto e sdentato. Canta Dove sta Zazà,stonata, fuori tempo e Turturro la mostra, per quello che è. Senza alcun pudore. Proprio perché è così. In una nuova estetica del piatto orrore quotidiano del vicolo più infame.
E, incredibile a dirsi, quel fenomeno da baraccone diventa addirittura bella, fa tenerezza. Grandezza dell’arte e miseria della realtà più bassa. Sullo sfondo un cumulo di spazzatura. Sui muri, sporchi di secoli, graffiti sgrammaticati, lettere perdute di un’ignoranza che non ha più significato. Che non dovrebbe più aver ragione di esistere.
Una Napoli così com’è. Privata dell’irritante, menzognera e consunta iconografia classica. Quella dei miei ricordi da piccolo. Ridotta allo scheletro. Niente mandolini e putipù. La tarantella in costume non c’è. Non ne sopravvive nemmeno la memoria. Quello che dovrebbe somigliare al ricordo è, in realtà, un de profundis recitato a mezza voce, senza troppa convinzione, pensando ad altro.
Ma tutti ballano lo stesso. Al di là della morte. Al di là del bene e del male.
Ballano come fanno la rivoluzione. Fanno la rivoluzione come se si trattasse di un ballo. Un giro e basta. Poi tutto come prima.
Questo io non lo capivo.
Ostinati. Cocciuti. Come se non riuscissero veramente a capire quello che stava loro succedendo. Quello che gli altri architettavano contro di loro.
Si lasciano osservare. Si mettono in mostra. Come le scimmie.
Ballano e cantano nei mercati, tra case sporche e misere. Tra stucchi ormai consunti e volute barocche mescolate a panni laceri, pietre logorate dal tempo e dalla sporcizia. Pietre di una passata grandezza e nobiltà, pietre di fuoco spento, ricoperte di grasso e petrolio. Ogni tanto, tra una finestra sbilenca, un balcone troppo pieno di panni, fili che corrono da una parte all’altra, pennate di plastica, lamiere, maree di antenne televisive, parabole, tubi, pluviali e groppi, matasse ritorte di cavi della luce, intravedi graffiti geniali, sbiaditi, slavati, nascosti tra le crepe dell’intonaco.
Donne che cantano, ballano e ridono. Si spingono tra loro e se ne fottono di chi le osserva. Ostentano gioia. Nella piatta banalità insulsa di ogni giorno.
Nella totale indifferenza di tutti. Con il mondo intero che osserva, pieno di meraviglia, questo zoo. Che lo apprezza per quello che è. Un serraglio. Come si guardano le bestie in gabbia che possono essere pericolose ma che sono ridotte all’impotenza e impazziscono nello spazio ristretto. L’impressione di stare in un giardino zoologico è forte e persistente.
Cantano sotto la statua del Nilo. Nel cuore di Napoli. Una voce bellissima, calda, di un garzone, improvvisato soul singer, che ti avvolge. Dove c’era una volta il groma, il centro della città greco-romana ora c’è una folla di turisti che corrono incarrettati verso Forcella e San Gregorio e cantano anche loro assieme al giovane.
Cantano, tutti.
Ragazzi dalle voci straordinarie, melodiose, cupe, armoniose e dolcissime.
Trascinano gli altri a cantare in coro.
Mi veniva da piangere per la rabbia. I miei passi risuonavano nella notte del vicolo stretto come squarci di tempo fuggito via troppo in fretta.
Quella rabbia che monta sorda, cupa, compressa quando vedi che tutto cade, che tutto rovina e che su questo disastro tutti stanno a guardare.
Aspettano. Cosa? Che tutto si compia? O sanno che non c’è più nulla da fare?
Mi chiedevo, ma come fanno a cantare? Ancora si può cantare?
Mi venne in mente la favola raccontata da Mario. Tornare alla terra, lui diceva. Quale terra? Quella devastata, infettata dal lordume del mondo, avvelenata dai rifiuti nocivi che da ogni parte qui sono convenuti?
E loro, nonostante tutto, cantavano e ballavano.
Mario, nonostante tutto, credeva che nella terra ci fosse la salvezza. Se lo dici oggi, anche un ragazzino ti ride in faccia.
«A terra? Turnammo a faticà a terra? Giuvino’ ma nun ce facite ridere!».
Un sorriso con denti bianchissimi e una fossetta che si scava nella guancia un po’ paffuta. Le palpebre stringono leggermente gli occhi neri, neri e lucidi. Ti guarda per vedere se veramente ci credi alla stronzata che hai detto o lo stai pigliando per il culo.
«Cca, into a stu’ mumento, ‘e renare s’hanna fa ‘e pressa. Na botta sola e fuje. E se n’hanna fa pure assaje. Cchiù assaje ca putimmo» aggiunge, pigliandoti per fesso.
«Forse hai ragione tu. Ciao guaglio’. Statte bbuono» gli dici poco convinto.
«Se, se. Statte bbuono pure tu». 

Su tutto la musica.
La sentivo nell’aria, strisciare. Geniale sottolinearne la provenienza arabo-africana. Ritmi forsennati e corpi che si scatenano sullo sfondo della scala più bella del mondo. Quella del palazzo dello Spagnolo. Sanfelice era quello che qui chiamano uno sfaccimmo. Architetto che arravugliava lo spazio, lo arrevutava come voleva lui. Turn it, Twist it. Un miracolo di bellezza, il luogo, la scena di un teatro interno, tutto per il nobile che le scende e la carrozza che sotto, nel cortile, lo aspetta.
Canti e balli. Tutti gli esclusi di tutte le terre e di tutte le storie cantano e ballano prima di morire.
Ragazze come invasate. Corpi elastici e vibranti come corde di un invisibile strumento. Ballano come indemoniate. Splendide, ti avvolgono e coinvolgono. Ti metteresti anche tu a ballare. Dove stai, con chi stai, non importa.
E che te ne fotte. Il ritmo ti prende.
Pensata da uno degli architetti più geniali di tutti i tempi, la scala più bella del mondo. Ha tanti occhi e una bocca. Come una maschera che si apre sul vuoto. Una scenografia allucinata di un tempo smarrito, di un’altra epoca, tramontata per sempre.
Un paradiso perduto.
Come la Napoli dipinta da don Titta Lusieri, vista da Capodimonte, sotto i raggi dorati d’un sole antico. Un fasto perduto, un sogno mai sognato. Che affoga nella merda.
Lutamma! Così i napoletani chiamano gli escrementi del mondo, della gente, la feccia diremmo noi. Così dobbiamo chiamare chi ha ridotto a merda quella bellezza.
Lutamma, granda lota! Merda.
Se ci dev’essere al mondo una rappresentazione della colossale stupidità degli uomini questo avviene, ogni giorno, a Napoli. Il disprezzo, il vuoto, la noncuranza.
Napoli è il luogo in cui si sperimenta, da vicino, la stupida, vuota, arrogante ignavia del genere umano.
E sulla distesa sterminata di rifiuti e di merda galleggia la ribellione di piccoli delinquenti stolti, bruti, massa informe e sciocca.
Fuochisti pronti a recitare il ruolo degli sfaccimmi.
Nella più colossale strafottenza. Uccidono senza pensarci.
Un mondo che se ne va tranquillamente verso il disastro. Un miracolo buttato con indifferenza nel cesso.
Questa è l’umanità. Questa è Napoli ora. 

Come avrei mai chiuso il cerchio delle mie riflessioni verso una conclusione accettabile?
La testa a volte non ci arriva.
E non basta nemmeno il cinismo a tirarti fuori. Rimani intrappolato. Si futtuto guaglio’. Fuck it.
Il cinismo è un gioco che non ci possiamo più permettere. Uno stare alla finestra che ti fa simile al criminale, al fuochista impazzito che uccide per gioco. Che spara ai Ferrajuolo, due vecchi e li fredda. Senza pietà.
Facile il cinismo. Da stupidi. Mi sentivo in trappola. Non c’era via uscita se non scappare.
Fuggire. Via, via, più in fretta possibile. E poi? Il male restava e avanzava.
Aitano. Dov’era? E Menico?
Una storia dolorosa, informe e sozza, lorda mi cadeva addosso come un mucchio di stracci infetti sfilati dalle membra corrotte degli appestati.
La peste. Aveva forse ancora un significato. C’era ancora come nel ‘56. La trista, nera signora deforme col corpo illividito dai malefici bubboni. Sozza e spietata.
La peste non era mai andata via. Se n’era stata in agguato per più di quattrocento anni, rintanata in un nero, lurido buco, pronta a ghermire.
Aveva ragione Malaparte. “Non corrompeva il corpo, ma l’anima”. Ma non era faccenda morale come lui aveva creduto, un’intima, lacerante decomposizione dell’antica, preziosa sostanza degli uomini. Era una componente stessa della vita. Stava attaccata ai muri dei palazzi, agli stipiti delle porte, ai rigonfi piperni barocchi dei sontuosi portali dei palazzi di Toledo. Alle scale e ai basoli del pavimento. All’aria che respiravi. Quando uno è malato e la malattia si trascina, che fa?
Si rassegna. E, per eludere l’angoscia della fine prossima, canta con il fiato che gli rimane, canta con ostinazione.
E gli altri? Stanno a guardare. Aspettano. Qualcuno insulta. Qualcuno prova pena. Qualche altro trova lo spettacolo noioso e va via. Allora sei veramente morto. 

Che dire di tutto quello che avevo visto in quel paio d’anni, in quell’inferno barocco e contorto che mi era passato ogni giorno sotto gli occhi?
Anche ogni tentativo di ribellione si perdeva nel vuoto, in una misera recita senza senso. Non si sapeva da dove cominciare, dove finire. Tutto era sconnesso. Le cose s’inseguivano senza alcuna ragione.
Questo è il caos? Ogni cosa si muove per i fatti suoi. Infiniti vortici impazziti che vanno a spasso a devastare le loro piccolissime porzioni di spazio. 

Riflettevo. Tutto si era compiuto. Tutto era rimasto sospeso. A mezz’aria. Ogni cosa riassorbita senza una giustificazione. Senza che gli avvenimenti, come si aspetta ognuno che abbia ancora un filo di lucidità nel suo cervello, nella loro drammaticità, avessero un qualche seguito, un fine, una ragione, una conclusione.
Così terminano le storie a Napoli. Tutto si riassorbe in una totale, piatta rassegnazione.
Tutto rientra al di sotto della scorza della normale, banale disperazione quotidiana. Chi soffriva, torna a soffrire. Chi rideva, ride ancora come uno stolto. E chi rubava, continua a farlo, imperterrito.
Un destino?
Forse. Certamente una maledizione che stagna, grava su questa città che ora si sommerge sotto un oceano infinito di rifiuti. E tutto scorre. Chi cantava continua a farlo. Una specie di “preghiera” ha detto John Turturro.
Una storia senza morale, senza lezioncine per nessuno.
C’era da aspettarselo.
Io però non ero convinto. Da qualche parte, sotto quell’umanità negata, covava un fuoco. Così mi sembrava.
Night guaglio’.



Francesco Escalona

E’ veramente molto, molto bello questo capitolo di Lazzari, nella sua allucinata decadenza melanconica. 
Hai ragione. Non potremo fare più nulla per cambiare le cose. 
Perchè siamo una minoranza dispersa. 
Perchè non abbiamo più tutto il tempo necessario. 
Perchè non tocca più a noi fare la rivoluzione. Tempo scaduto sancito dal mal di schiena. 

Ma, per me, dobbiamo fare tutto il possibile per lasciarci vivo lo spazio del sogno. 
Perchè è questo il messaggio che possiamo, dobbiamo lasciare, noi, vissuti a cavallo di due ere diverse. 
Solo noi. Nessuno prima e nessuno dopo. 

Che poi quello del sogno, è il mio spazio vitale e, a mio parere, l'unica strada che rimane aperta perchè tornino i tempi azzurri. 
Ma non è questo, quello in cui spero. Non mi è dato sperare così tanto. 
Ma l'aver fatto tutto il possibile, mi da il diritto di aprire la porta del sogno. 

Ed è solo quella porta mi fa ancora vedere, nelle pieghe, quello che in "Lazzari" intravedi solo nell'ultima frase. Una possibilità. 

Di questo abbiamo bisogno per campare. Di avere sempre "almeno una possibilità". Mi sforzo così, di ricomporre frammenti. Continuamente... Ossessivamente. 
Divento una sorta di google umano. Come per quel gioco della settimana enigmistica, passo le mie giornate a comporre una immagine soddisfacente i frammenti di bellezza raccolti quà e la. 
Frammenti che da soli non fanno una Storia, una narrazione, ma che, ricomposti, mi disegnano "una possibilità", una speranza. Vivo nello spazio di quella speranza, in quel disegno contornato da numeri e puntini. Ed ogni giorno, sono impegnato a ricomporre pezzi dei confini assediati, oggetto di assalto della realtà. Dalla concretezza. Dal cinismo disperato. 
Certo. 
Perché, non esiste più quella Napoli romantica di sogno.
Ma, è mai esisitita? O anche quella è il frutto di un manipolo di cruciverbisti ante litteram che ricomponevano la Gouaches colorata ogni giorno e la riproponevano acquerellata? E' mai esistita la Napoli romantica delle canzoni di Di Giacomo? Di Libero Bovio? O, anche loro, su una materia sempre uguale, passavano le giornate a ricomporre le tessere di mosaico ritrovate? 
Cosa c'era in quelle case disegnate sotto quel cielo così blu? Forse solo la Napoli di Matilde Serao, della selleria del Colera, di una Napoli non bagnata dal mare. Mentre E.A.Mario componeva i frammenti in melodie romantiche.

Ora vado. ho ancora un pò di tesserine da mettere in quadro. 
Anche oggi mi mancano dei pezzi. Cercherò di ricostruirli come piace a me. 
Metterò molto azzurro ed un pò di Giallo… color tufo. Naturalmente.