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ebook di ArchigraficA

venerdì 16 gennaio 2015

Tecnologia e Cultura


Charlie Chaplin



di Giacomo Ricci



Rifletto sulla cultura e il fatto che i nostri valori, e cioè le cose che per quelli della mia generazione hanno un fondamentale interesse, siano perlopiù sconosciuti alle generazioni più giovani.
E se glielo fai notare, non capiscono di cosa tu stia parlando.
Per esempio Chaplin. Lo ignorano e, a vederlo, non lo capiscono. Ma che? Il cinema può essere in bianco e nero? E muto!? Roba preistorica.
Questi, in sintesi, i loro pensieri.
Ci sono le eccezioni. Per esempio con mio figlio, l’altro giorno abbiamo aperto una discussione – eravamo sostanzialmente d’accordo, quindi si trattava di un elogio – su Peter Sellers di Hollywood party. E concordavamo che si trattasse di un capolavoro.
Ma, in generale, stiamo tornando indietro. O meglio, è la tecnologia a scagliarci indietro in epoche preistoriche del linguaggio, facendo credere, però, di stare avanti.
Una situazione paradossale d’ignoranza generalizzata.
Ma c’è un trucco.  Quello di non farla comprendere come tale. E allora viene il sospetto che si tratti di un’azione subdola di dominio sulle nuove generazioni. Si tratta di imporre, senza che nessuno lo avverta come tale, una condizione generalizzata d’indifferenza culturale. Le nuove generazioni non hanno consapevolezza di aver perduto qualcosa d’importante.
Giochiamo a fare previsioni.  Che cosa accadrà nel prossimo futuro?
Nulla. Ma a questa condizione d’intorpidimento generalizzato si aggiunge una forte crisi economica che scuote, fin dalle fondamenta, lo status quo.
Insomma c’è il rischio che il progetto d’ intorpidimento fallisca.
Quali le prospettive? Che cosa accadrà nel prossimo futuro? Come si ricrea un equilibrio in una situazione che si sta capovolgendo?
Io azzardo una stupidaggine. Un progetto positivo.
Che l’Italia del Sud si distacchi da quella del Nord. Basta con questa falsa unità che è solo colonizzazione. Che il Sud torni a una sua moneta e a un suo stato nazionale. Che si sanino le ancestrali ingiustizie del Sud. Basandosi sull’arte, il paesaggio, le grandi città, l’accoglienza intelligente, l’agricoltura biologica, il rispetto della natura e dell’ambiente. E che tutto questo mondo straordinario ricreato diventi merce da vendere con oculata intelligenza a visitatori che non ne possono più dell’industrializzazione, dell’alienazione del lavoro, dell’inquinamento e dei sottoprodotti inquinanti come realtà da digerire per forza, con malattie e degrado ambientale.
Ogni capolavoro, ogni gemma e cammeo della nostra collezione diventi oggetto prezioso da incorniciare e offrire allo sguardo dell’attento visitatore.
Che la nostra dieta mediterranea diventi nuovo Made in Italy autentico da consumare e da vendere. Che le nostre spiagge tornino pulite e i nostri boschi rigogliosi.
Ci sono gli esempi.
E l’energia? Chiederà qualcuno. Il solare, l’idroelettrico, l’eolico, le biomasse. E che non si sprechi energia per auto a combustione. Ma si usino collegamenti elettrici, a batteria, a acqua, a aria compressa. Tutte sperimentazioni che funzionano.
E’ questa una via obbligata. Alternative non ce ne sono se non perseverare in un regime del capitalismo competitivo per accumulare. Ma perché? Per qual fine? Accumulare ricchezze per poi? Per poi perderle nei passaggi ereditari,  nipoti, figli, compari e comari  che non se ne fottono un cazzo.
Un ritorno indietro intelligente, modesto, aperto. Basato su un'agricoltura intelligente, di prodotti affidabili e certificati, liberi da schifezze, conservanti, coloranti, ogm e altre porcherie. Una tecnologia avanzata per la salute ma inesistente per beni di consumo come mega automobili, treni superveloci, aeroplani che inquinano e così via.

Sembrano i buoni propositi di un cretino che non si confronta con la storia e il progresso. O, forse, che ha capito che mai parola più nefanda fu coniata che non fosse quella di “progresso”. Una maschera per nascondere la vera essenza del capitalismo, il “profitto”, a tutti i costi, spietato, universale, arrogante, il vero imperativo categorico del “moderno” e del suo significato.

lunedì 12 gennaio 2015

Ciononostante




di Claudio Cajati 

La mia vita? Bersagliata sin dall’infanzia.
Quando sono nato ero così brutto, a unanime parere dei miei genitori, di parenti e amici, che subito fu deciso di stendere un velo di organza nera sulla culla. E la cosa, per quanto terribile, fu accettata da tutti.
Quando venne il periodo di giocare al ‘dottore’ con le bambine, solo apparentemente pudiche, in effetti sfacciate e disinvolte, loro accettavano di farlo con tutti i ragazzini del rione, tranne che con me. E se mi azzardavo a chiedere il perché, mi lanciavano senza parole uno sguardo di commiserazione.
Alla scuola media ero di gran lunga il primo della classe. Questo scatenava la rabbiosa invidia dei compagni mediocri, che non erano pochi: prima mi prendevano in giro per la mia bruttezza, poi mi minacciavano, infine, all’uscita dalla scuola, mi tendevano in gruppo agguati e arrivavano a pestarmi a sangue.
Al liceo m’innamorai di Eloisa, una ragazza bellissima, che mi sembrava anche dolce e comprensiva. Dopo una penosa lunghissima titubanza, mi decisi a rivelarle il mio sentimento. Lei non perse un istante per rispondere: mi guardò stupita, poi sprezzante, e mi disse soltanto, con la sua voce acuta e penetrante: “E tu, brutto anatroccolo, pretenderesti di fidanzarti con un cigno come me?”
Venne l’età in cui sentii il desiderio di accasarmi. Ma tutte le ragazze mi respingevano. Credo fosse sempre per la mia bruttezza, e nonostante facessi di tutto per mostrare quanto ero brillante e arguto, quanto potevo risultare simpatico, quanto ero buono affidabile leale. Infine la spuntai: accettò di fidanzarsi con me Genoveffa, una brava ragazza offesa a una gamba a causa della poliomielite.
All’Università mi laureai in Scienze dell’alimentazione. Avrei voluto fare la carriera accademica, ne avevo il talento, la passione e i titoli. Ma a tutti i concorsi, per quanto originali e dotte fossero le mie prove, regolarmente mi bocciavano. E lo facevano con una sorta di profondo fastidio. Presto mi fecero capire che era meglio se rinunciavo. Quasi una benevola minaccia.
Ero spesso in giro alla ricerca di un lavoro. Un giorno, tornando a casa, trovai mia moglie (Genoveffa l’avevo sposata) a letto con un altro. Ero rabbioso ma non gli feci niente. Anzi fu lui, altissimo e robusto anche se zoppo, a picchiare me. Quando volli chiarirmi a quattr’occhi con Genoveffa, lei mi sparò in faccia: “Io ti ho sposato per compassione, io non ti ho mai amato.” Qualche giorno dopo scappò di casa con quell’energumeno. Io rimasi a fare da padre e madre a nostro figlio Romano.
Svanita la prospettiva della carriera accademica, avevo ripiegato sul commercio, però legato alla mia formazione universitaria. Insieme a un amico e collega di studi aprii un minimarket di prodotti bio. Le vendite andavano a gonfie vele. Ma, nonostante il prezzo elevato dei prodotti, la cassa languiva. Ci misi un po’ di tempo però, alla fine dell’investigazione, scoprii che la cassiera rubava, e lo faceva in combutta con il mio socio. Resistetti il più a lungo possibile, ma alla fine fui costretto a chiudere.
Dopo la chiusura del minimarket bio, mi sono arrangiato con vari lavori legati al mondo dell’alimentazione. Ho provato a fare il nutrizionista, ma dopo qualche tempo la clientela si è assottigliata fin quasi a sparire: la gente ormai usa disinvoltamente il computer, anche per cose delicate come l’alimentazione. Io sono un esperto, affidabile, ma sono una figura patetica del passato.
Insomma mi sono ridotto economicamente proprio male. Così, per quanto fosse umiliante, ho chiesto aiuto a mio figlio Romano. Lui è benestante, fa il professore ordinario alla Facoltà di Ingegneria. Ebbene si è rifiutato di aiutarmi – mi ha appena invitato qualche volta a pranzo la domenica – accampando la scusa delle sue spaventose spese familiari, la casa, la moglie, i figli…
Non fumo più da decenni, e da allora sono stato anche molto attento a evitare il fumo passivo. Eppure l’altro giorno da un check up di routine è risultato che ho un tumore ai polmoni. Si è fatta la biopsia: il tumore è maligno e, per di più, in uno stadio avanzato. Cedendo alla mia insistenza per sapere, mi hanno diagnosticato dai due ai tre mesi di vita, al massimo.
Ciononostante, in tutta la mia vita il male, che non mi ha risparmiato, è andato a vuoto. Come se io fossi protetto da una cera magica su cui ogni offesa della vita scivolava via. Poteva sembrare che nessuno mi volesse bene, ma io ho avuto un’amica fedele, un’amica che non mi ha mai tradito e abbandonato: la Gioia. Quelli che conoscono cosa è stata la mia vita, non si capacitano che io possa essere sereno e positivo. Ma cosa importa? So io questa forza calda e tenace che mi pervade e mi avvolge a dispetto dei colpi del mondo, destinati a essere parati e respinti. Tutto il male che ho ricevuto, sin dalla nascita, non mi ha potuto scalfire: come non si può scalfire un diamante con pietre meno dure.

Io resto splendidamente intatto, stretto abbracciato all’amica Gioia. E così accoglierò, impavido a braccia aperte, anche la morte.

giovedì 8 gennaio 2015

Risposta alla lettera

di Maurizio Zenga

Caro Giacomo,

avevo 23 anni quando usciva "terra mia" di Pino Daniele, era il 1977 e all'Università ci chiamavano "indiani metropolitani". Io e Pino ( Romanazzi, l'altro Pino a cui mi lega un affetto antico ) dipingevamo il pavimento della Facoltà di Architettura con l'arcobaleno dopo averne fatto un progetto esecutivo che ancora conservo in garage, arrotolato e protetto da un tubo di plastica. Lo stesso che usavo in quegli anni.
Un anno dopo, prima di terminare l'Università, avrei lasciato Napoli per darmi all'esilio di Treviso dove l'incontro estivo con la donna che avrei poi sposato mi aveva portato, non del tutto casualmente visto che la mia città cominciava a togliermi il respiro.
Una delle cose che ho portato con me e che conservo ancora gelosamente è il suono della mia città, i rumori, le voci, la musica, il vento... ( magistralmente cantato dal giovane rapper napoletano Clementino ). Pino mi ha fatto compagnia e mi ha spesso difeso dalle nostalgie e dalla malinconia, mi ha dato la forza di restare lontano per tanti anni e di rimanere allo stesso tempo vicino alle mie radici, mi ha ricordato di cosa siamo fatti noi, popolo di Napoli, dentro. Ogni volta che l'ho ascoltato mi sono sentito forte di questa appartenenza, antica, radicata, pesante e ogni volta mi ha dato le motivazioni per restare lontano da Napoli senza sentirne troppo la mancanza.
Dirai che è strano che una musica possa farti sentire bene anche se lontano. In effetti è strano ma è così, anche perchè Pino era molto critico nei riguardi di una certa "napoletanità" da cartolina e nei confronti dei molti difetti che comunque  caratterizzano una buona parte del popolo di Napoli. Sapevo che lui era restio a ritornare a Napoli perchè non ci stava bene, così come non ci sto bene io se ci resto più di qualche giorno e per questo ne condividevo l'atteggiamento di amore e odio al tempo stesso. Tipico di chi ama e ama appassionatamente.
Io ho amato la sua musica e la amo profondamente, sempre allo stesso modo, perchè sposa il carattere popolare, antico e allo stesso tempo unico e originale della Napoli di ieri e di oggi, è una musica colta e raffinata ma anche di facile ascolto per chi vuole fruirne superficialmente. Inoltre, come molti hanno detto, ha dato una visione nuova alla tradizione napoletana classica indirizzandola verso altri orizzonti creativi ed espressivi. Pino l'ho amato da subito e continuo ad amarlo per quello che mi ha dato concretamente in tutti questi anni, ascoltandolo e suonandolo da solo o in compagnia con la mia chitarra. Ho assistito ai suoi concerti decine di volte ( l'ultima fortunatamente a Verona nel mese di settembre...) e conservo gelosamente tutti i biglietti in modo quasi maniacale. Gli ho regalato un mio quadro che gli consegnai direttamente a Formia mentre stava registrando "Ferry Boat" e un'altra volta sono andato a casa sua con amici comuni e questo mi ha dato la sensazione che fossimo da allora un po' amici anche io e lui...
La sua morte è stata per me una durissima rinuncia ad un piccolo pezzo di me che avevo in comune con lui. Una sofferenza che dura ancora oggi mentre ti scrivo e mentre non smetto di guardare le immagini del suo funerale a cui avrei voluto essere presente. Credo che ognuno dei presenti nella grande Piazza del Plebiscito avrebbe voluto portare la sua bara sulle spalle per un gesto semplice e spontaneo di riconoscenza. Io lo avrei fatto perchè gli volevo bene e gli devo molto.
Proprio qualche sera fa, parlando con un mio amico di Pino Daniele e della sua musica ( era ancora vivo ) mi diceva di apprezzarlo sì ma quello della prima ora perchè ultimamente era poco creativo ecc. ecc. cose già sentite mille volte. Non gli ho risposto perchè avremmo  polemizzato inutilmente e non era il caso ma avrei voluto dirgli: "scusa ma, secondo te, può un artista essere creativo e rivoluzionario per quarant'anni allo stesso modo? Non basta quello che ha scritto per anni e tutti i concerti che ha fatto in giro per il mondo..? Ma sai a quanta gente avrà dato la felicità, almeno per qualche istante? A cosa serve dire che ora Pino Daniele non è più quello di prima, che la sua musica non è più interessante, che è superata da altro  ecc...? Ma lo sai che potrebbe bastare una sola delle sue decine di canzoni memorabili per essere iscritto per sempre nell'Olimpo dei Grandi? ecc. ecc." Invece ho lasciato perdere e bene ho fatto perchè la stessa persona che mi ha fatto quel discorso oggi ne piange la scomparsa, credo come tutti noi. Non ha senso la critica sull'evoluzione o l'involuzione della sua musica, o peggio ancora sul carattere scorbutico ( una favola messa in circolo da qualche perditempo ) io so solo che cantando "Quando chiove"  in macchina percorrendo le centinaia di chilometri di autostrada, a volte, sono stato felice.
Poi, improvvisamente,  irrompono questi dannati che sparano a bruciapelo ad un uomo indifeso riverso sul marciapiedi in nome di una religione e di un dio sconosciuti ( quale Dio predica l'odio? Quale ?! ) ma non sono umani, sono bestie feroci. Cosa sanno questi demoni disumani della felicità della musica e delle parole che infondono amore? Vorrei aver vissuto fino in fondo l'epica forza della Piazza del Plebiscito illuminata, mistica, quasi surreale nella sua bellezza ma la violenza ha avuto il sopravvento su tutto...TV e giornali si sono riempiti di odio e Pino se n'è andato, accompagnato solo dal "suo" popolo. Un contrasto spaventoso tra  odio, violenza, amore e bellezza che si sono mescolati nei servizi televisivi e negli articoli di giornale fino a sovrapporsi e a confondersi nella nebbia dell'informazione da cui  ne sono uscito stordito, confuso, avvilito.
Prego per Pino ma ora anche per i miei, i nostri  colleghi disegnatori, vittime di una ferocia insensata, e chiedo pace per le loro anime. Non so quando riuscirò a riprendere la mia matita in mano e se troverò la forza di ridere ancora di qualcosa ( in guerra è difficile farlo ) ma spero che continueremo comunque a dirci ancora una volta quando saliremo in macchina insieme:  " Giacomì..appicci'o stereo, miett' nu' poc'a Pino"..."yes I know my way"...
Ti abbraccio forte,

Maurizio

Lettera a un amico

Masaniello

di Giacomo Ricci


Un mio caro amico, Maurizio Zenga, mi ha comunicato il suo profondo malessere di fronte alla morte di Pino Daniele, la polemica speciosa di alcuni pennivendoli nostrani e la furia selvaggia del terrorismo. 

La ragione oltre che generale, è nel suo caso evidente. Maurizio è un musicista napoletano che ha amato moltissimo Pino Daniele ed è un vignettista satirico. Il suo mondo è stato messo violentemente in discussione. 
Io ho capito poco di quello che ci succede, ma ho tentato di spiegarmi alcune cose e le ho scritte in una lettera di getto. 
La trascrivo perchè potrebbe essere utile a qualcuno. E qualcuno potrebbe anche chiarire alcuni punti oscuri del mio ragionare. Mi farebbe cosa gradita. Per questo la pubblico su archigrafica. 



Caro Maurizio,

nella chat di FB non sono riuscito a risponderti come avrei voluto. Sarà il mezzo, troppo costretto, che ti impedisce di andare a capo, che ti restringe in uno spazio limitato di schermo, sarà stata l’emozione che a poco alla volta ha preso anche me. Non sono riuscito a farlo.
Perché le domande che tu ti ponevi, sono un po’ quelle cui anch’io – ma credo tutti noi – tentavo di rispondere.
Il fatto è che non c’è risposta. Almeno non ce n’è una immediata, facile. Non c’è risposta per farsi capaci che Pino Daniele è morto. Non c’è risposta al fatto che tre balordi, in nome di una cazza di ideologia di merda che li fa peggio delle peggiori bestie che l’uomo abbia mai potuto immaginare, abbiano fatto strage di persone che erano armate solo della matita e dell’intelligenza.
Ma il gioco del mondo è spesso balordo, incomprensibile.
E’ tutto balordo, la fame, la miseria dei migranti, il terrorismo, qualcuno che, di tanto in tanto,  gioca a fare il primo ministro, il capitalismo che tenta di impossessarsi anche della proprietà della natura, del grano, delle sementi OGM, che noi non si capisca un cazzo di che cosa sia la vita che ci è piovuta addosso, non sappiamo che farcene e impazziamo di colpo tutto l’animo nostro.
Non ci sono parole. E messa così, la cosa è veramente incomprensibile.
Io non ero un fan sfegatato di Pino Daniele. Ma questo non fa storia perché quando lui era agli inizi, intorno alla metà degli anni Settanta, io odiavo Napoli. Odiavo la retorica, le canzonette, il folklore stereotipo, la folla, la plebe che  non sopportavo  per la sua ignoranza. Ero illuminato dal sol dell'avvenire, pretendevo la presa di coscienza. Chi non capiva e non aderiva alla lotta di classe apparteneva al Lumpenproletariat, sottoproletari, inaffidabili, balordi. Un’etichetta di appartenenza metteva a posto tutte le domande. L’ideologia mi aiutava a interpretare il mondo. Non capivo niente di niente. E’ ovvio.
Poi sono cresciuto. Anzi sono invecchiato, dentro prima di tutto, nell’anima. Poi anche nel corpo. E ho avuto un modo diverso di vedere le cose. Ho cominciato ad amare, in maniera incondizionata, viscerale, irrazionale la mia città. Apparentemente senza una ragione. Nel bene, ma soprattutto nel male. Ho cominciato a capirne le complesse motivazioni. Mi sono fatto una ragione per  la strafottenza, l’arroganza, per tutto quello che, insomma, caratterizza il napoletano plebeo. Anche alla camorra, pur non giustificandola, ci mancherebbe, ho trovato una ragione. Ho tentato di spiegarmene il perché.  Complesso entrare qui nel merito, per filo e per segno, spiegarsi  tutto. Ma mi sono state chiare tante cose. Mi sono fermato a riflettere.
E la domanda che mi rimane è una sola: che cosa vuol dire la morte? Che vuol dire il nostro sbatterci di fronte all’inevitabile? E’ inevitabile che moriremo, bene, male, consapevoli, inconsapevoli. Noi tutti moriremo. Morirà tutto. La vita, il pianeta, l’universo, i ricordi. Di noi, genere umano, della vita nel suo complesso su questa Terra non rimarrà più nulla. Figurati i soldi, le ricchezze! Stronzate.  Tutto sarà ingoiato in un enorme buco nero. Alla fine anche il nostro sole morirà e diventerà un gorgo immane, inghiottendo tutto quello che lo circonda, compresa la Terra, il sistema solare e tutto il resto.  Figurati che rimarrà di Marchionne, la Fiat, Renzi, la politica, l'euro, l'IVA, il profitto, gli interessi, la finanza, i furbetti e soprattutto dei nostri ricordi, dei sentimenti. Puff. Tutto svanito. E allora?
La risposta? Se uno non riesce a farsene una ragione religiosa vive male. Ecco. Ma per religione bisogna intendersi. Non quella barzelletta ipocrita che è sempre stata l’organizzazione mondana della chiesa.  Semmai qualcosa ribelle e salvifica come il francescanesimo, il rifiuto illuminante e straordinario di tutti i beni terreni che animò il nostro unico Francesco d’Assisi.
Per questo mi sembra che la risposta debba essere cercata nella mite convivenza di ognuno con tutti gli altri. La risposta sarebbe allora una sola: rispettare gli altri, sempre, in ogni caso, sentirne la vita e averne cura. Rispecchiarsi l'uno nell’altro.
E qui viene la tua domanda. Perché anche tu sei arrivato a questa conclusione. E quando senti Terra mia non puoi non commuoverti. E’ ovvio. Anche io, che credevo di essere tosto e corazzato di fronte a qualsiasi retorica, sentendo alcune canzoni di Pino Daniele, ora che è morto,  non ho potuto non commuovermi.
Perché tutta quella che sembrava retorica, la retorica di un cantante con la sua strana voce sottile, con quel suo seguire la musica con un semplice filo di voce quasi sempre in falsetto, la sua chitarra, diventa di colpo cosa sensata, con un significato che s’è interrotto.
Io ho scoperto Pino Daniele tardi. Credo non più tardi di una decina di anni fa. Si ne conoscevo le canzoni più importanti. Ma non ci uscivo pazzo. Comprai, non so perché, un cofanetto di tre CD e me lo piazzai in macchina. Andando avanti  e indietro da Pescara per il mio lavoro universitario, Pino assieme ai Blues Brothers e qualche canzone di John Lennon, mi faceva compagnia nelle quattro ore ad andare e quattro a venire che facevo da solo. 
Per le montagne. 
La sua voce mi accompagnava, mi faceva sentire meno solo, in specie quando scendeva il sole per le valli e le montagne e mi trovavo ad attraversare la piana delle Cinque miglia, interminabile. Così cominciai a riflettere su quelle parole, su quella musica all’inizio un po’ ostica, sulle contaminazioni che proponeva. E poi ho cominciato a cantarci appresso anche io. Prima sotto voce e poi, man mano, aumentando la voce, fino a cantare a squarciagola con lui. E’ diventato un amico. Ha riempito un qualche vuoto dell’anima mia, mi ha fatto gioire e immalinconire, allo stesso tempo.
Ecco. Pino Daniele era un amico anche se non come l’intendiamo di solito. Uno che ti fa compagnia. Come Troisi e il suo garbo. E a volte anche Benigni, quando non si cimenta con i comandamenti. Benigni de La tigre e la neve, insomma. 
E con le battute, i sorrisi, le canzoni forniscono una specie di risposta a quel quesito che prima ti dicevo. Noi siamo impauriti di fronte alla morte, alla vita e le sue incognite. Non sappiamo come comportarci. Non sappiamo che pensare.  Ma ci sono degli amici che, con il loro fare, le loro parole, e loro riflessioni, ci fanno compagnia, ci fanno sentire meno soli.
E credo che questo abbiano sentito i centocinquantamila a Piazza del Plebiscito. 
Una cosa mai vista. Una cosa unica. 
Nessuna città ha tributato un così grande affetto a un suo figlio. E non so che cosa sia stato più grande se il figlio o la città, che n’è riuscita trionfante, incomparabile, bellissima, unica al mondo. Non credo mai sia successo spontaneamente quello che è accaduto nel flashmob di due sere fa.
Mi ha commosso. Lo confesso e me ne fotto se qualcuno ci farà dell’ironia. Cazzi suoi.
Mai una città è convenuta a salutare un suo figlio lontano in questo modo. Anche se magari questo figlio sembra che si sia allontanato e non ne vuole sapere di tornare. 
Cadere nella retorica è facilissimo. Basta fare un passo falso e ci siamo. Ma, lo dico e me ne strafotto di caderci,  è come la madre che aspetta il figlio che s’è allontanato, e poi ritorna, dopo anni. Per lei lo spazio e il tempo non ci sono. Quando si tratta di quella sua creatura è sempre come quand’era piccolo. Napoli ha accolto Pino nel momento più difficile della vita di un uomo, quando questa si conclude, con un solo abbraccio. Lo ha abbracciato e apprezzato come sempre.
Unico. Le folle in maniera oceanica si sono raccolte, nella storia, per paura  nei confronti  di un tiranno, un aguzzino. Qui invece è successa in  maniera spontanea una cosa mai vista.
E mai vista era quella folla di persone che nel buio intonava le sue canzoni. Quelle più sinceramente sue, che avevano rappresentato l’anima forte e debole allo stesso tempo, sperduta, con gli occhi pieni di dolore, bassa, popolare di ognuno che si sente perseguitato. Quella che io considero il suo vero inno “Io so pazzo”, quel suo “Nun ce scassate o’ cazzo” che ognuno dei napoletani, quando si vede trattato male, perseguitato da uno Stato lontano, messo alla gogna immeritatamente perché considerato, razzisticamente inferiore, grida anche a denti stretti: “Nun ce scassate ‘o cazzo”. 
Nun ce scassate o cazzo.
Una frase che, a scriverla così, isolata dal contesto appare  volgare, aggressiva. Che dà fastidio.
Ma che Pino ha fatto in modo che tutti accettassero. Grande.
L'ha messa in una canzone, alla fine, dirompente, aggressiva, strafottente. E tutti, ma proprio tutti l'accettano, la cantano, l'ascoltano. Ha reso la rabbia di un singolo, sottoproletario, perseguitato, che si ribella, che lo Stato non può condannare perché lui ha il diritto di parlare ed esprimere il suo dissenso, e l'ha fatta accettare, digerire, l'ha resa normale agli occhi di tutti. 
La signora, il prete, il ragazzo, il professore universitario, il medico, il barone, il presidente del consiglio. Tutti, nella canzone, sono costretti ad accettare il dissenso, l'aggressività popolana quando ha le palle piene e vuole parlare. 
Straordinario. Ecco, questo per me è Pino Daniele. Questo è Pino per i centocinquantamila. 
Prole che tutta l’Italia, alla fine,  accetta. Perchè stanno  alla fine di una canzone protestartaria e a suo modo violenta, di Pino Daniele.
Che oggi è potente come lo sono le altre  «Napoli è carta sporca e ognun aspetta a sciorta». In tre parole tutto il fatalismo di antica memoria greca che ogni napoletano conseva dentro l'animo suo, è costretto ad accettare e esprime. Che fa il pari con quell'altra straordinaria espressione della NCCP che qui voglio ricordare: «Napule è comme 'a nu franfelliccoo, ognuno, vene, allicca e se ne va».
Che sintetizza secoli e secoli di dominazioni subite. 
Ecco tratti di genialità pura. Genialità tutta popolana, tutta napoletana. 
Pochissime parole che indicano i lati più tragici, più dolenti e autentici del popolo napoletano che si sente abbandonato da tutti. E l’abbandono e la disperazione sono stata una condizione permanente. Non dimentichiamo il Viceregno spagnolo duranto duecent’anni e l’annessione al nord che dura da oltre 150 anni.
Ma specialmente oggi, in questo Stato unitario truffatore e ingordo, imbroglione e malfattore. Perché una classe politica che non abbandona i suoi privilegi, rappresentanti dello stato che si fanno corrompere per il proprio tornaconto sono proprio quelli che Pino chiama in causa «E lo Stato oggi non mi deve condannare, perché io so pazzo, e oggi voglio parlare».
Parliamo. Parliamo con la musica tutti insieme in piazza. La più grande, pacifica, immensa rivoluzione che l'Italia si ricordi. E ne porteremo ricordo per tanto tempo a venire. 
Masaniello. Quale figura della storia non è stata più bistrattata di Masaniello? Benedetto Croce ha scritto un libro sui Lazzari e per primo, seguito a ruota da tutti gli storici beceri e codardi intellettualoidi fino ad oggi, ha sostenuto che Masaniello era un poveretto e che quei quattro ragazzotti armati di cannucce – i lazzaroni, per l’appunto –  non avevano alcuno spessore per fare una rivoluzione. Masaniello era poca cosa, la sua pazzia era scoppiata, poi,  perché incapace di reggere il confronto con la storia. 
Grande la stima che ho di Croce come studioso di cose napoletane. Ma questa, perdonatemi non posso digerirla. Qua lo studioso abbruzzese ha preso una sciuliata di mazzo a terra. Ma tu senti che puttanata! 
Il confronto con la storia farebbe impazzire il pescivendolo rivoluzionario napoletano. Così, di punto in bianco. Non lo terrorizza nella conduzione delle esecusioni capitali, nel suo giudicare la gente e gli oppressori. Non lo terrorizza nel confronto diretto con il Vicerè e il Cardinale. E poi lo fotte, all'improvviso, subito dopo, di dice, la cena a Posillipo su invito del vicerè. Mostrando segni inequivocabli da avvelenamento da alcaloidi che sono presenti in veleni ben conosciuti all'epoca, che venivano somministrati nel vino o nell'acqua. E pare che subto dopo aver bevuto un bicchiere 'acqua il poveretto abbia cominciato a smaniare e dare i numeri, n preda a un vero e proprio delirio allucinato. Un’invenzione che farebbe ridere, quella di Croce, se non si trattasse di un  tragico equivoco sminuente. 
Ancora oggi gli storici "universitari", i "cattedratici nostrani, impediscono, a chi fa ricerca in questo settore, di dire la verità. Non posso fare nomi, ma so di ricercatori seri ai quali è stato “suggerito” di non approfondire l’argomento avvelenamento di Masaniello perché la figuraccia dell’intero settore di ricerca sarebbe altrimenti veramente insostenibile. Qual è la verità? 
Che Masaniello fu avvelenato con una mistura a base di Belladonna e altre schifezze che sono dei veri e propri allucinogeni già ben noti da tempo, come scrive Della Porta nel suo Trattato sulla Scienza Naturale.
Pino Daniele ha toccato le corde nascoste del popolo napoletano. La sua emarginazione, la sua voglia di ribellarsi in solitudine, da solo, la sua voglia di mandare affanculo tutto e tutti.
Per questo Napoli è odiata. Per un potenziale non essere d'accordo, una resistenza forte, una non volontà di sottomissione. Per questo hanno fatto di tutto per allontanare dal popolo napoletano i suoi simboli, i suoi miti.
E per questo è straordinario quello che è successo. Alla faccia di tutti i pennivendoli di regime che dobbiamo sopportare ogni giorno nei media.
Quel cantante, con quella sua voce a volte un po’ querula, in falsetto, spinta al massimo della scala verso l’alto, ci ha fatto compagnia e ha fatto compagnia a tutti quelli che stavano in quella piazza. Cioè a una città intera.
E la cosa commovente che in tutto questo non c’era retorica. La nostra città, in questo, non è grande. E’ unica al mondo.
Allora i fili, in qualche modo si riannodano. Cioè si ritrova il mio amare i vicoli bui, le voci che chiamano i figli, le persone anziane che se ne stanno sedute fuori dai bassi a contemplare la vita che scorre su quei basoli di pietra lavica antica, i ragazzi che ridono. Ma ci sta anche l’indisponenza, l’arroganza di qualcuno. Fa parte del gioco. Essere guappo è una risposta del poverocristo all’arroganza dei potenti.
Una delle canzoni che più ho amato di Pino è quella che comincia con “Te veco quanno scinne e scale”. Perché è una scena che si ripete sempre nei palazzi dei Quartieri, è una scena che ognuno di noi ha vissuto, ogni ragazzo adolescente ha vissuto vedendo una ragazza semplice e fresca, che si affaccia alla vita che scende le scale.
Perché Pino Daniele  ha sentito, dentro di sé, l’anima profonda e popolare di questa città. 
Ti ho detto che ho iniziato ad amarla con il tempo. Ne ho amato soprattutto la lettura che ne hanno dato alcuni scrittori come Malaparte. Cialtrone, imbroglione, furbo, ha però capito, da persona intelligente, l’animo popolare di Napoli e l’ha descritto in maniera straordinaria ne La pelle.
Come l'ha descritta senza precedenti Nanni Loy ne Le quattro giornate di Napoli.
Bisogna capire anche la plebe napoletana. Quella plebaglia di origine seicentesca che fa paura e che è la ragione per cui tutti ci disprezzano. Sanno che c’è un’anima ribelle nel profondo, inaffidabile, almeno secondo il loro concetto di ordine, che ancora ribolle, che ancora non se ne sta al posto suo.
Quell’anima lazzara e potente che fa paura a tutti perché dal suo corpo, può nascere l’amore per Pino Daniele, ma anche l’esaltazione di Lauro, seguire il re Borbone, spiazzando e sterminando i quattro borghesi e aristocratici e la loro rivoluzione del 99.
E questo argomento è ancora un vero e proprio tabù. Con gli intellettuali napoletani non puoi dire che il popolo era per il Re perché il re era uno di loro. E che gli intellettuali del ’99 in realtà, più che una rivoluzione, stavano effettuando un cambio di dominazione passando il potere nelle mani dei Francesi, come realmente accadde. Leggersi, a questo proposito,  il passaggio delle proprietà che venne effettuato da Murat che consegnò terre, poderi, conventi e altro a tutti gli scagnozzi amici suoi è estremamente istruttivo in questo senso.
Il fatto che tutti questi nodi del popolo napoletano sono completamente irrisolti. Sono messi da parte. Come Croce sminuisce Masaniello e la portata della sua ribellione, così, dopo la cosiddetta unità d’Italia, vengono disprezzati i patrioti, i combattenti e le lotte che fecero contro l’arroganza dei piemontesi, col chiamarli briganti.
Il popolo napoletano in sé non è crudele, reazionario, ribelle, assassino. Ma in certe occasioni può esserlo, come ad esempio nel caso della morte dell’eletto Starace. Lo fecero a pezzi.
E’ una furia.
E’ questo che fa paura e fa essere gli altri razzisti nei confronti di Napoli. Anche se sempre più spesso mi sembrano delle vere e proprie  pruderie da condominio, di uno dell’ultimo piano in una riunione che chiama lazzari quelli che abitano nei bassi a piano terra.
Sono contraddizioni apparentemente complesse che però si capiscono subito. E Pino era uno che aveva intuito tutto per essere il tipico esponente popolano di questo tipo. Con il genio della musica. Con il ritmo nel sangue.
Veniamo alle vere bestie. L’isis, il califfato sono il vero pericolo. Sono una furia cieca e irrazionale che uccide chi gli si oppone. Bisogna difenderci.
Capisco che colpire chi fa una vignetta è come se ti avessero colpito direttamente al cuore. Ma la bestialità dell’uomo arriva anche a questo.
So che ho le idee confuse. E chi è che non le ha in momenti come questi? Perché di fronte alla morte di una persona di famiglia (e Pino, nonostante il Pino di adesso non mi stesse tanto simpatico, lo era) e di fronte alla furia selvaggia che distrugge quello che non capisce o gli si oppone noi rimaniamo senza parole.
Dobbiamo farcene una ragione e continuare a produrre. Sperare che quest’anima bellissima della città di Napoli sia accettata e riconosciuta non come qualcosa che fa paura, ma come un bene prezioso e di civiltà. Le vere bestie che fanno paura sono altrove e sono pronte a colpirci nei valori più importanti che la nostra civiltà è riuscita a costruire.
Un abbraccio

Giacomo