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ebook di ArchigraficA

domenica 2 agosto 2015

Un ponte nel mezzo



Una storia dimenticata, quasi una favola quella raccontata da Mario Pagliaro.
Il ponte della Valle di Durazzano, un libro su un monumento "dimenticato".


per scaricare click sul link:

di Giacomo Ricci


«Venezia, simile a Tiro per perfezione di bellezza, ma inferiore per durata di dominio, giace ancora dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza…»
John Ruskin
Favola, la definisce il suo autore. Effettivamente, nella storia del ponte di Durazzano, gli elementi ci sono tutti. Il luogo, l’opera grande, il tempo e la sua damnatio memoriae, il grande artista (ma anche esperto ingegnere), l’antagonista potente e le sue oscure ragioni e, soprattutto, come in ogni favola che si rispetti, l’incipit classico che, come si ricorderà, suona pressappoco in questo modo: «C’era una volta un re che viveva in un magnifico paese…».
 Certo di favola si tratta ma anche di storia, quella che qualcuno magari si azzarderebbe a scrivere con la «S» maiuscola, visto che si tratta del lavoro dimenticato di un grande architetto per conto di un grande re, per una grande opera, e, infine, di un grande antagonista.
 E diciamo subito i nomi: Luigi Vanvitelli l’artista, Carlo III di Borbone il re, la reggia di Caserta il luogo e Bernardo Tanucci l’antagonista.
 Il ponte di cui ci parla Mario Pagliaro, autore del saggio che vi accingete a leggere, é quello di Durazzano, una delle tre grandi opere d’ingegneria che l’architetto progettò e realizzò, per dare corpo a un sogno, trasportare l’acqua dalle sorgenti del Fizzo, alle falde del Monte Taburno, attraversando valli e montagne, fino ad alimentare lo spettacolo magnifico di una reggia e del suo parco. E più che magnificare il signore che la volle, il re buono, come sempre si é chiamato dalle nostre parti, queste acque fresche e meravigliose che uscivano dalla fontana a monte del grande parco, finalmente sancivano la nascita di un potente stato del Sud, quel Regno delle due Sicilie, non più colonia, com’era stato per secoli di dominazione straniera, ma nazione autonoma e sovrana, splendida e straordinaria. Quella terra che Goethe ci invidiò e descrisse con calore e compiacenza.
 Splendida perché lo fu, magnifica per il significato che assunse nella penisola italiana degli inizi del Settecento.

E’ utile ricordare queste circostanze perché la damnatio memoriae di cui ho detto é stata ordita ad arte. Ma di questo dirò tra poco.
 La reggia di Caserta rimane, ancora oggi, a dispetto di tutto, la straordinaria testimonianza di un regno indipendente del Sud d’Italia.
 Quello Stato delle due Sicilie che fu uno dei più importanti dell’Europa del suo tempo e che, al contrario, ci é stato ricordato, fin dai primi giorni di scuola, come orrore, nazione arretrata e brutale, tanto da assimilare la parola «Borbone» (finanche nell’ufficialità dei dizionari di lingua italiana) a termini come «arretratezza», «barbarie», «ignoranza», «assolutismo».
 Oggi, per fortuna, di quest’operazione di mistificazione si sta venendo a capo e si fa spazio la consapevolezza che il Regno delle due Sicilie non fu diverso dagli altri stati nazionali europei come Inghilterra, Spagna e Francia. Napoli, sua capitale fu alla pari, per grandezza, popolazione e splendore, di altre come Parigi e Londra.
 E scusate se é poco.
 Poi ci sono state le guerre d’«indipendenza» e l’«unità» d’Italia. E tutto, come purtroppo sperimentiamo ogni giorno, ha preso una piega diversa. E ora sappiamo come l’Italia del Sud non abbia guadagnato lo status di nazione, ma sia stata ridotta, nuovamente a colonia interna che ha perduto una guerra.
 E si sa che, quando si perde, si deve pagare. In termini economici, di popolazione sottomessa e umiliata e soprattutto in termini di memoria. Chi perde é sempre distrutto soprattutto sotto il profilo culturale. La storia, insomma, come abbiamo imparato, la scrivono i vincitori.
 Ed ecco che la lotta viene condotta anche contro i simboli del passato potere. Così la reggia di Caserta, nata per fare concorrenza a Versailles, l’acquedotto che Vanvitelli costruì, tra i più importanti, in diretta concorrenza architettonico-progettuale con i romani, i più grandi ingegneri che la storia d’Occidente ricordi, é stato condannato all’incuria, all’abbandono, alla sua declassificazione da simbolo denso di significato a rudere di un passato da dimenticare.
 E’ in questa luce che si deve guardare a un giornalista come Giorgio Bocca che, in un’intervista televisiva, rilasciata poco prima di morire, parlando di Carlo III, non ebbe dubbi nel definirlo un «vero megalomane» (sue testuali parole) e che invece di spendere tanti soldi in un’opera di automagnificazione, avrebbe fatto meglio a costruire scuole, uffici postali, asili nido.
 Evidente la demagogia e anche la banalità provocatoria di affermazioni come queste. Ma ciò che a noi interessa é il metodo, quella della damnatio memoriae, per l’appunto. Distruggi il simbolo, mettilo in ridicolo, e avrai distrutto il significato che porta.
 Sennonché si tratta di luoghi e simboli, a dispetto di una certa «democrazia» basata sullo sviluppo del capitale del Nord ai danni del Sud, duri a morire. E colgo l’occasione per enfatizzare come quel capitale, costruito con l’apporto fondamentale dell’emigrazione interna di intere generazioni private del loro significato originario, una volta scoperta la mondializzazione, se ne sia fuggito altrove dall’Italia, fottendosene della nazione e del danaro che le ha munto negli anni passati. Altro che nazione, altro che unità. Il capitale persegue solo il suo fine, che é l’accumulazione e il profitto, a dispetto di qualsiasi altra ideologia.
 Ma i monumenti, quando sono tali per carica simbolica, artistica, culturale e politica che contengono, sono duri a morire. Nascono proprio per ricordare e ammonire e dunque sfidano il tempo e le opinioni transeunti dei giornalisti confusi, come Bocca.
 Si tratta di monumenti, come ci ricorda Pagliaro, che resistono agli attacchi del tempo, anche al massacro al quale la camorra ha sottoposto le terre del Casertano, trasformandole in inferno qui in terra. E anche qui ci sarebbe da riflettere per la localizzazione del potere mafioso e la sua stretta funzionalità alla nascita e alla prosperità (si fa per dire) della nazione Italia unita.
 I monumenti sono nati per lottare. E in questo generale processo di riconquista del significato i lavori come quello di Mario Pagliaro finiscono per affiancarli, sottolineandone la funzione e il senso, acquistando un ruolo di primaria importanza.
 Il saggio-fabula di Pagliaro ha un doppio merito.
 Quello della riappropriazione che il Sud sta compiendo della propria storia. Ma anche quello dell’analisi (dimenticata) del valore estetico di opere nate per puri scopi tecnici. E a quest’aspetto, Pagliaro, a ragione, tiene molto.

«Nell’atteggiamento che traspare nella storia del Carolino – scrive – si può rilevare come la popolarità, la mitizzazione, la garanzia della carica simbolica, siano state una conseguenza perseguita e diretta dal Regio Architetto attraverso il consapevole e continuo ricercare la creazione di momenti celebrativi. Episodi utili a permettere che la straordinarietà dell’opera non restasse “sepolta nelle viscere della terra”, bensì potesse rendersi evidente e con essa, i meriti del suo ideatore e la potenza dei suoi committenti »
 Ecco colto ed evidenziato, in termini semplici ed essenziali, il valore dell’opera d’ingegneria nel suo complesso. Il suo voler dare non soltanto soluzione a un problema pratico (superare un dislivello naturale per assicurare la continuità della pendenza dall’origine alla fine del percorso) ma anche ricordare il senso dell’opera, chi l’ha voluta e chi l’ha eseguita.
 Che poi, in sintesi, é sempre stato il vero scopo dell’architettura (e, più in generale, dell’arte), in tutta la sua lunga storia, fin dalle origini più remote. Ricordare gli uomini e dare corpo alla loro volontà di eternizzarsi. E, ricordando se stessi, dare visibilità all’intero popolo e alla civiltà che li ha generati.

I monumenti ci parlano di un popolo e della grandezza delle sue idee. Delle sue aspirazioni e dei suoi sogni.

Ecco dunque il senso della bellissima favola che Pagliaro ci racconta con la bravura di un saggista accorto e la perizia di uno smaliziato narratore, intervallando la storia con quella dei suoi protagonisti e dei luoghi interessati.
 Così anche il Ponte di Mezzo, di Durazzano, torna a vivere nella cornice del passato splendore. E il suo essere riconquistato in parte dalla natura che lo ricopre con le sue essenze e le sue erbe, si addolcisce di poetica malinconia.
 Quella che solo John Ruskin seppe leggere per primo nei monumenti del passato e nella loro lentissima marcia verso l’oblio. I lavori come quello di Pagliaro ci aiutano a tenerne memoria. A dispetto di tutte le guerre.