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giovedì 24 novembre 2011

Hermann Muthesius e le sue ville - un saggio di Piergiacomo Bucciarelli

di Giacomo Ricci


Ci sono figure della storia contemporanea dell’architettura che, nonostante il ruolo e il significato acquisito per l’importanza della loro opera progettuale e teorica, sono accantonate dalla critica e dalla storiografia più accreditata. Così, in maniera apparentemente inspiegabile,   alcuni interpreti di rilievo vengono dimenticati e messi da parte.
Poi, il lavoro critico di qualche studioso ne rintraccia, nel tempo,  il senso e li riporta alla luce, mostrandone il reale valore.
Destino, questo, che accomuna molti protagonisti  di quel momento storico dell’architettura contemporanea particolarmente importante che va sotto il nome di Movimento Moderno.
E’ molto probabile che questa operazione di “rimozione” accada proprio perché si tratta di figure, per così dire, “scomode”. Vengono oscurati  esponenti  di spicco dell’avanguardia e dei movimenti più originali e innovatori che non rientrano all’interno degli schemi interpretativi storiografici consolidati e funzionali  all’interpretazione corrente di questo complesso fenomeno dell’architettura a cavallo tra Ottocento e Novecento,  il “moderno” per l’appunto.
Sorte che segna, ad esempio, il cammino di Bruno Taut, figura di indubbio prestigio tra i componenti dell’avanguardia berlinese dei primi anni del Novecento che, poi, è stato “dimenticato” per ricomparire nel suo giusto peso e significato soltanto verso gli anni ’80 del Novecento, almeno se ci si limita al  panorama accademico italiano.
Come ci ricorda Piergiacomo Bucciarelli, autore di un recente lavoro di rilettura delle vicende e del significato di una delle figure emblematiche dell’architettura europea del primo Novecento (Piergiacomo  Bucciarelli, Le ville berlinesi di Hermann Muthesius, Gangemi editore, Roma, 2011) è frequente, negli storici più noti dell’architettura moderna,  trascurare tutto ciò che possa «mettere in dubbio la linearità del processo di formazione del modernismo e l’originalità dell’apporto dei “pionieri” quali interpreti illuminati  dello “spirito del tempo”».
Un’interpretazione, questa,  che ipotizza la “crescita” del Movimento Moderno, come fenomeno privo di contraddizioni, ripensamenti e conflitti. Quella della formazione dell’architettura moderna europea sarebbe, così,  una storia lineare, graduale, metodica, fatta di aggiunte successive nel tempo, di "contributi" progressivi e privi di qualsiasi tensione conflittuale. Modello che farebbe sorridere per la sua ingenuità se non fosse che ci sembra artatamente fraudolento, meditata  e furbesca operazione di occultamento di verità e processi assai scomodi da definire e, per così dire, "digerire". 
Hermann Muthesius, ci ricorda Bucciarelli,  è una di queste figure “dimenticate”. Un nodo critico scomodo, se quello che ho or ora detto ha qualche fondamento di verità. 
La storiografia italiana, ad esempio, si è occupata di Muthesius soltanto in maniera marginale e occasionale. Almeno fino agli anni Ottanta. 
Per la verità c’è stato chi, molto tempo fa, ha studiato  e, in qualche maniera, restituito a Muthesius il suo significato e l’importanza del ruolo svolto nei complicati e turbolenti  processi di formazione dell’ideologia dell’architettura moderna. Sto pensando, per esempio, a due nostri critici, due architetti  che si sono occupati di architettura tedesca e soprattutto  dell’espressionismo tedesco a cavallo del primo conflitto mondiale. 
Franco Borsi e Giovanni Klaus Koenig hanno steso, a quattro mani, un  meraviglioso reportage dal mondo dell’espressionismo architettonico tedesco fiorito nel periodo che va dal 1914 al 1920 circa. Si tratta di  un saggio-regesto che ha oggi il valore di un vero e proprio monumento critico-letterario – ora introvabile – che fu pubblicato nel 1968-69 dal titolo L’architettura dell’Espressionismo. Si tratta di un testo pioneristico e, mi si passi il termine, “rivoluzionario”, soprattutto per il significativo ruolo di catalizzatore dell'attenzione critica e di rivolta nei confronti del piatto conformismo della critica architettonica di quegli anni. Il mondo dell'interpretazione storiografica di quegli anni era  in qualche maniera egemonizzato  dalla voce di Siegfrid Giedion (nel suo Space, Time and Architecture) che,  nel suo tratteggiare le radici del Razionalismo architettonico, operava censure e omissioni a più non posso. A Giedion si univa l'azione critica del nostro, peraltro benemerito, Bruno Zevi che, per tutta una serie di comprensibili ragioni,  stravedeva per Wright e la sua teoria dell’architettura organica ma, odiando con tutte le forze qualsiasi forma di totalitarismo  e  scorgendolo, in nuce, in alcuni angoli dell'architettura tedesca,  trascurava interi settori di formazione dell’architettura moderna.
A torto o a ragione, il risultato di queste visioni critiche era che un’area piuttosto ampia della produttività dell’architettura tedesca degli anni immediatamente seguenti al primo conflitto mondiale veniva praticamente azzerata, passava totalmente sotto silenzio nella sua Storia dell’architettura moderna, uno dei testi formativi di intere generazioni di architetti italiani.
Ma, con il loro lavoro critico,  con la riscoperta delle ragioni dell'avanguardia espressionista, Borsi e Koenig riportarono, sul finire degli anni Sessanta,  l’accento su alcuni episodi molto importanti nella formazione dell’ideologia dell’architettura europea contemporanea. Ad esempio, sempre in quegli anni e degli stessi due autori, è da ricordare un’altra pubblicazione – semiclandestina mi verrebbe di dire – che, prima di qualsiasi altra opera critica,  puntava l’attenzione su di un episodio, direi cruciale, del dibattito e della riflessione sull’architettura contemporanea. Quel piccolo opuscoletto, a cura di Borsi e Koenig, pubblicato da Uniedit nel 1977 dal titolo Il “Deutscher Werkbund” 1914: Cultura, Design e Società, nel quale è riportato integralmente il testo del dibattito – sarebbe più giusto definirlo “conflitto” – avvenuto a Colonia che vide contrapposte le tesi di Hermann Muthesius, presidente del Deutscher Werkbund, e Henry van de Velde, intorno al  ruolo dell’architettura, dell’architetto e se fosse necessario avere all’interno del processo produttivo dell’architettura una forte presenza artistica o meno.
Se poi si tiene presente la monografia pubblicata da Electa qualche anno dopo  (1981) dal titolo Muthesius, apparsa in occasione dell’omonima  mostra organizzata da Silvano Custoza e Maurizio Vogliazzo a Milano, contenente una serie di interventi molto qualificati su Muthesius, si capisce come la figura dell’architetto tedesco  non fosse del tutto sconosciuta alla nostra cultura architettonica.
Ma il fatto è che non le si è dato il dovuto rilievo. Questo, in estrema sintesi,  ci ricorda il saggio di Bucciarelli. Un rilievo che fosse corrispondente alla portata delle idee e dei progetti dell’architetto tedesco, nato nella Turingia nel 1861.
Quello che ora Bucciarelli ci propone è un saggio approfondito e puntuale su Hermann Muthesius, sulle sue idee e aspirazioni, l’importante ruolo di trade union che ebbe tra la cultura inglese di fine Ottocento e quella tedesca degli inizi del  Novecento e, soprattutto, la capacità che egli ebbe di adattare  l’idea di casa ai tempi e  alle tecniche moderne,  senza svilire il valore della tradizione e delle invarianti antropologiche che all’architettura domestica davano significato e sostanza. La capacità, insomma, di legare  le esigenze della vita moderna e della sua produttività alla solidità delle tradizioni e delle particolarità geografico-antropologiche.
Aver soggiornato per ben sette anni in Inghilterra, portò Muthesius alla stesura del famosissimo manuale sull’edilizia domestica britannica,  Das Englische Haus, un testo ricchissimo di osservazioni sulla prassi costruttiva, i materiali, le valenze stilistico-formali della Country House inglese e il suo significato. Ma soprattutto, lo portò verso la teorizzazione della Landhaus,   un vero e proprio “progetto storico-culturale” che era sia il prodotto di una riflessione moderna sulla casa e il suo progetto, sia «il giusto coronamento di consuetudini architettoniche oggettivamente legate alla nazione tedesca, l’espressione dei costumi di una borghesia che si rifletteva nelle sue ville eleganti e progettate in modo pratico».
Perché, al di là del ruolo svolto nel Werkbund e delle sue teorizzazioni generali – ad esempio il concetto di Typisierung sul quale tra un attimo torneremo – Muthesius è soprattutto l’elegante fabbro, l'artefice raffinato  che realizza splendide residenze suburbane per la borghesia, che induce gli esponenti di questa classe a  questa scelta di vita, fatta per metà di spirito metropolitano ma, per metà di fuga dalla città, di un vivere secondo la tradizione e la coerenza a modelli antropologici consolidati nella storia locale.
Direttamente discendente dalla Country House, la Landhaus non si impianta nella campagna, ma nel sobborgo, ai margini della grande città. Merito di Muthesius è stato, ci dice Bucciarelli, non soltanto quello di convincere la buona borghesia a scegliere questo modello di vita, ma anche a rinunciare alla casa come simbolo del proprio benessere, del proprio status privilegiato, a bandire, dal suo stile di vita, ogni pretesa estetica, ogni riferimento alla bellezza aulica e artistica classica. E questo atteggiamento  fa di Muthesius un precursore della modernità più razionale ed efficiente. Lo accomuna ad altri grandi e illustri personaggi come Adolph Loos.
«I progetti di Muthesius rispondevano al programma di un funzionalista ante-litteram: assicurare il comfort e l’intimità»  ed egli  fu tra i primi «a scorgere nei prototipi britannici i capisaldi del funzionalismo degli anni venti – sole, aria e luce – e a importarli nel suo paese».
Dicevo poco fa del concetto di Typisierung. Quello della “tipizzazione” fu uno dei temi forti del Congresso di Colonia del 1914,  intorno al quale si scatenò un vero e proprio  conflitto culturale tra Muthesius, che presentò dieci tesi per dimostrarne la validità  e il suo significato legato alla moderna produzione industriale  e il suo oppositore Van de Velde che, al contrario, sosteneva  che l’architettura non potesse essere disgiunta dallo spirito dell’arte e altresì propugnava  la supremazia dell’artigianato sulla produzione industriale.  Un dibattito vivo e vitale, nient’affatto tramontato,  che anche oggi fornisce lo spunto per  considerazioni attuali e importanti. Oggi potremmo schierarci per l'una o l'altra parte (io, per esempio,  propenderei per la tesi di Van de Velde). L'importante, in ogni caso, non è da che parte stare ma il fatto che ci sia dibattito e vivacità culturale. Cose che, oggi, sembrano venire meno, schiacciate sotto l'urgenza del dato economico. 
La continuità e l’attualità  di temi trattati più di cent’anni fa  ci mostra come l’opera di architetti come Muthesius, ingiustamente ignorata, meriti di essere approfondita con maggiore attenzione e possa farci comprendere molti dei conflitti che ancora oggi caratterizzano la produzione architettonica contemporanea.
Saggio importante, questo di Bucciarelli, che contribuisce  a farci rintracciare la radice di alcune contraddizioni del moderno in architettura e induce una  maggiore comprensione della storia e   del mestiere di architetto.
Tutti quelli che vogliono avere un panorama completo e criticamente articolato del Movimento Moderno e delle sue origini concettuali troveranno questo saggio opportuno e utile.  
Da leggere.


Piergiacomo Bucciarelli, Le ville berlinesi di Hermann Muthesius, Gangemi editorer, Roma, 2011 (109 pp.)


gangemi editore


mercoledì 16 novembre 2011

Santo Piazzese e il "cazzeggio"

 di Giacomo Ricci


Circa una settimana fa, Cristina Censi mi consigliò di leggere I delitti della via Medina Sidonia di Santo Piazzese. Un libro vecchio, del '96, pubblicato da Sellerio, di cui non sapevo nulla. L'ho fatto e ne sono stato contento. Un libro leggero, un giallo sui generis, un autore che non conosco e che, come racconta Holden, quando hai letto un  suo libro vorresti leggere tutte le cose sue e vorresti "che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira". 
Sì, la voglia è proprio di farci due chiacchiere, sull'Università, sulle prospettive, chiedere che sta leggendo, che pensa dell'ultimo libro di Camilleri e che cosa ha in mente ancora di scrivere. 
Una sensazione difficile da provare, questa, di sentirsi amico di uno sconosciuto. Ne cerchi la foto sul web, leggi chi ne parla e, magari, un'intervista da vedere in youtube.  Allora ho scritto subito a Cristina per ringraziarla della scoperta, del suggerimento. E ho pensato che le cose che ho scritto possano essere utili a qualcuno sul blog. Ecco dunque la lettera.

" Cara Cristina,
ho letto I delitti della via Medina Sidonia. Direi che il tema principale del libro, per la verità assai gradevole nel tono generale, è il “cazzeggio”.  E mi spiego, perché è cosa importante.
C’è una frase di Eduardo De Filippo ne Le voci di dentro, che è una commedia cupa ma che a me piace infinitamente, nella quale Eduardo parla del “papariamiento”.
Papariarsi, comportarsi cioè  come una papera, nel camminare soprattutto. Papariarsi è camminare per casa quando non si ha nulla da fare e si perde tempo a spostare un mobile, a cambiare posto a un quadro. Papariarsi, ciabattare qua e là, a piedi leggermente divaricati, guardandosi in giro, senza che l'ansia di uscire ci prenda.  "Quanto è bella questa nostra lingua”, dice Eduardo,  perché con un solo  vocabolo dà conto di un’atmosfera, di uno stato d’animo.
Cazzeggiare vuol dire più o meno la stessa cosa, anche se indica un comportamento  di scrittura,  perdere tempo (o prender tempo, è lo stesso), divagare, passeggiare, andare alla deriva, approfittare di una situazione per fare scorrere le idee liberamente, associandole quasi fosse una seduta dallo psicanalista, per vedere, come dice Jannacci, “l’effetto che fa”. Illustrissimo predecessore, antesignano di questa tendenza è il mio adorato Robert Walser che ne La passeggiata traccia l’apoteosi di questo modo di sentire la vita. Sintesi della sua filosofia: sono perdente, nessuno mi si fila, non valgo nulla … e chi se ne fotte? Chi è meglio di me? Filosofia che, oggi, con mercati, valore, banche, borsa, fallimenti, debiti, speculazioni  e complicazioni varie, è assolutamente da tenere in profonda considerazione.
Alla fine il mio vero valore è la vita. E chi me la leva? I soldi? Ma andatevene a quel paese voi e i soldi! Come diceva un tale (nel libro di Piazzese),  quando muori sull’auto che ti trasferisce all'altro mondo non puoi montare il portabagagli e portarti appresso la rrobba. Quella la lasci tutta qua.  La morte, ‘a livella di cui parla asciutto, essenziale,   geniale come sempre, l’illustre principe Totò,  non fa eccezioni con nessuno. Non l'ha fatto con i faraoni che si erano preparato quel ben di dio per la loro villeggiatura oltre la morte, figurarsi con un borghese del terzo millennio. 
E Piazzese fa questo con consumata abilità, perde tempo, riempie le pagine bianche di segni, di parole che ci informano sui suoi gusti musicali, e le addensa  di citazioni letterarie (in specie Il giovane Holden, libro per il quale nutre un’ammirazione sconfinata). Un cazzeggio, un citarsi addosso, un arravogliarsi, un perdersi che credo sia nella migliore tradizione salottiero-letteraria del Sud, di un Sud sano e strafottente, che indugia al sole, alla bella giornata, alla ricerca di un senso leggero delle cose, che sia un tantino un po’ più su delle cose, che voli come un’arietta leggera e spiritosa.
Marotta, Gli alunni del sole, Ferdinando Sorice in testa, portiere e filosofo.
Perché poi è ironico, sfottente, prende in giro sé e gli altri.
Il delitto è assolutamente secondario.
Parla di morti ammazzati per parlare d’altro, anzi per non parlare affatto ma rimandare ad altro, a un mondo parallelo. Mostra l’inettitudine e la nefandezza della classe dei professori universitari, una tensione morale – e proprio il caso di dire – che, come sai, mi trova completamente d’accordo.
Insomma ho deciso che mi leggo anche gli altri due che ha scritto, che fanno parte della Trilogia su Palermo pubblicata sempre da Sellerio. Anche perché, nel terzo libro, pur con gli stessi personaggi e con ampi riferimenti al primo, ho capito che ribalta il punto di vista e lo stile diventa giallistico al massimo, asciutto, sincopato, scarno. Abbandona il racconto in prima persona e assume la funzione del narratore universale, quello impersonale, oggettivando, rimescolando l'atmosfera in una più sofferta visione del mondo. Ma devo ancora leggere. Le mie sono anticipazioni-sensazioni che ho filtrato attraverso la sbirciata delle prime pagine. 
Insomma Piazzese appare  scrittore con gli attributi a posto. Mi è venuta voglia di conoscerlo, come dice il giovane Holden.
Non so come fare ma ci proverò.
Grazie insomma della tua segnalazione.
A presto".

E poi, alla fine, il giallo c'è e si conclude - c'era da dubitarne? - nella migliore atmosfera classica, di cui era  maestro  Simenon, dove anche gli assassini sono uomini con le loro debolezze, la loro miseria e, diciamolo pure, anche a loro dignità, perché scelgono di abbandonare  la scena al momento giusto, consapevoli di aver perduto la partita.  
E l'io narrante si carica di una profonda umanità. 
Chissà forse riesco a conoscere Piazzese e, magari - lasciatemi fantasticare - a strappargli un'intervista per il blog. 
Comunque leggetelo. Ne vale la pena. 


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