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ebook di ArchigraficA

mercoledì 29 maggio 2013

Il miracolo dell’acqua


Karel Blechen, La Valle dei Mulini


La Valle dei Mulini di Almalfi

di Giacomo Ricci


Volete seguirmi in un viaggio straordinario?
E quando dico “straordinario” faccio sul serio.
Vi voglio parlare della Valle dei Mulini di Amalfi.
Non l’avete mai sentita nominare? Ne avete notizia ma non sapete dov’è?
E allora è il momento di saperlo.
Vi sto parlando di un tuffo nel passato. Proprio come se avessimo a disposizione la macchina del tempo.
Stiamo per montarci sopra  e dirigerci indietro. Nell’alto medioevo.
L’Amalfi medievale, quella che anche giù, lungo la costa, il turismo organizzato spesso cerca di rievocare nei suoi lontani fasti, nella Valle dei Mulini  sopravvive con sorprendente chiarezza di forme e di sapore.
E’ tutto lì, sotto i nostri occhi, ancora a nostra disposizione.
Un museo ambientale, diffuso, aperto, del tutto involontario. Slegato dall’organizzazione degli uomini. Che per caso sopravvive. Per fatti suoi. Che anzi se c’è ancora è proprio perché gli uomini non ci hanno ancora messo gli occhi sopra. Perché è difficile e faticoso arrivarci, non ci sono strade e bisogna percorrere sentieri impervi in salita e a piedi.
E perché qualche vecchio commissario della forestale che ama il suo lavoro fa di tutto perché questi posti rimangano lontani, sconosciuti alla larga massa. E se ci vuoi andare, fin dentro, c’è bisogno che ti accompagnino. Ti sorveglino.
A nessuno piace essere sorvegliato a vista.  Ma in questo caso quelli della forestale fanno bene. C’è un pezzo di natura, creature viventi che devono essere protette da noi umani. Perché siamo pericolosi.
Specie se accecati dalla voglia di guadagno, dal profitto.
La Valle dei Mulini è adagiata lungo una delle tante, grandi fratture che attraversano i banchi rocciosi della costa dal mare fin nell’interno.  Quelli che da queste parti si chiamano “valloni”.
Il vallone  del quale parliamo ha la città di Amalfi alla sua fine, affacciata sul mare. Poi, salendo verso l’interno,  si passa per la Valle dei Mulini e, più su, verso le montagne più alte, c’è la Valle delle Ferriere.
E’ in quest’ultima parte che è vietato andare. Bisogna avvertire la forestale, prendere un appuntamento ed essere accompagnati da una guida.
Mai provvedimento fu più utile.
Non possiamo stare mai del tutto sicuri.
Dobbiamo fare presto, prima che qualcuno ci pensi e l’orribile sciagura del “recupero” dell’ambiente e la sua ristrutturazione turistica avvenga. Se facciamo a tempo possiamo ancora assistere a questo spettacolo di persona.  Prima del disastro prossimo venturo. Che di sicuro verrà.
E vedrete l’immagine di una civiltà che usava l’energia che aveva sotto mano. Che  sapeva approfittare della natura e di quello che questa aveva da offrirgli.
Oggi possiamo dire che gli uomini nel passato modificavano bene l’ambiente. Naturalmente non lo facevano per buona grazia. Ma perché non avevano altre possibilità. E usavano tecnologie assolutamente meno devastanti delle nostre.
Niente plastica, petrolio, gas, energia atomica. Niente energia elettrica, lampadine, frigo, lavatrici, lavastoviglie. Niente detersivi al fosforo che inquinano in maniera perenne le acque, diossina o idrocarburi. E soprattutto niente cemento. Lasciatemelo dire, da architetto.
Impastavano pietre con  calce, sabbia, in alcuni casi lapillo, frammenti di laterizi e … sapienza. Queste le tecniche, questi i materiali delle costruzioni sparse della Valle dei Mulini che oggi sopravvivono come ruderi.
E poi, solo l’acqua e il sole. Il bosco e la roccia.
Qui nella valle dei mulini è celebrata, quando il viandante ha orecchie capaci di ascoltare, un’incredibile sinfonia. Fatta del rumore dell’acqua del fiume Canneto che scorre verso il basso, infiltrandosi in cale, cadute, anfratti, spaccature, formando polle, specchi d’acqua, cascate, rivoli che s’infilano nella terra e sbucano all’improvviso sotto i piedi, tra le rocce, nell’erba, nei grandi cespugli e tra gli alberi dall’altissimo fusto. Del canto degli uccelli e dei sibili del vento che s’infila tra i rami e gli anfratti nelle rocce, slitta e sale lungo le rupi e poi rotola verso il basso.
E poiché siamo molto lontani dalle strade e dai residui dei motori a scoppio, tutto profuma. D’erba fresca, muschio, di sottobosco, di selvatico.
E, ai lati, alberi altissimi. Tanto fitti da farci intravvedere solo a tratti il cielo azzurrissimo e le pareti rocciose che se ne scendono a picco da Pogerola e Scala, immergendosi nel verde intenso del bosco. Un ambiente che non avremmo mai pensato potesse esistere nella costiera amalfitana, così autentico e selvaggio.
La sensazione è quella di essere lontani. In un mondo perduto, fuori dal tempo.
In pieno agosto, quando la temperatura in riva al mare supera i quaranta gradi, qui, immersi nel verde fitto  attraversato dall’acqua fresca e veloce, un brivido ci scorre lungo la schiena e il respiro si fa profondo, cattura ogni profumo,  ogni umore che ci circonda.
L’alito piacevolmente freddo degli alberi ci scorre sulla pelle e il profumo delle erbe e delle siepi ci riempie i polmoni, quasi stordendoci.
Al punto  che, con  il tempo, si fa lontano  anche lo spazio.
A questo punto a me vien voglia di sedermi. E lo faccio. A un passo dal fiume che scorre verso il basso. Verso la città. Infilandosi in passaggi nascosti, passando sotto ponti di legno, tra gli alberi.
Il rumore dell’acqua e le sue particelle che se ne vanno in sospensione nell’aria attraversate dalla luce che filtra tra i rami e si scompone nei suoi colori è un miracolo.
Il miracolo dell’acqua, uno dei principi ben conosciuti dagli architetti giardinieri del passato che su questo elemento e il suo movimento hanno costruito le più belle architetture di tutta la storia dell’uomo. Non si costruisce un giardino d’incanto senz’acqua.
Ma il vero miracolo della Valle dei Mulini non ve l’ho ancora descritto. Un momento di pazienza che ci arriviamo.
Mi sono fatto prendere la mano. Ho corso troppo. L’ansia dell’acqua e della sua contemplazione m’hanno rapito. Ma all’acqua ci dobbiamo arrivare, a poco alla volta. Arrampicandoci sopra la montagna di Scala per un lungo sentiero. Prima di sederci ai lati del fiume dobbiamo fare  un lungo percorso.
Torniamo indietro. Vi descriverò,  come posso, ogni suo elemento.

Si può arrivare nella Valle dei Mulini partendo dal basso. Da Amalfi, cioè. Dalla spiaggia. Si attraversa la porta della Marina, si passa per il largo del Duomo e, dopo uno sguardo meravigliato ai mosaici dorati di Domenico Morelli in alto nel timpano, si prosegue per via Marini, sempre dritto. E si sale, inerpicandosi per il vallone.
Ma è una strada che non consiglio. E’ percorso adatto a conoscere Amalfi, ma non la sua valle che è molto più in alto, ai piedi delle montagne. E’ più suggestivo e meno faticoso arrivarci dall’alto e scendere.
la Valle dei Mulini e il percorso da Pontone

Si va a Pontone, frazione di Scala, e si sale verso la Valle delle Ferriere, prendendo di “spalle”, per così dire, Amalfi e la sua Valle dei Mulini.
Il punto di partenza è la piazzetta San Giovanni di Pontone, di fronte alla  piccola chiesa dedicata allo stesso santo.
Si tratta di un luogo particolare.  Devo qui raccontare la sua storia singolare.
A Pontone, fin dall’alto medioevo, si lavorava la lana.
Il materiale grezzo proveniva dalle Puglie e, caricato sulle galee della repubblica, giungeva al porto di Amalfi. Da qui la lana, era trasportata, in voluminose balle a dorso di mulo, per sentieri appesi e scale fino a Pontone.
La lana era poi radunata nella piazzetta San Giovanni. Per essere lavata.   Perché il piccolo slargo è costruito in maniera da trasformarsi in vasca nella quale lavare la lana.  Qui era versata l’acqua, durante tutta la notte.
L’acqua vi giungeva convogliata da una rete di canali che scendevano dalle montagne di Scala. I canali erano un’opera di intelligente ingegneria destinata non soltanto a dirottare l’acqua delle sorgenti verso la piazza ma anche a distribuirla con sapienza nei terreni agricoli del circondario per irrigarli.
E comprendiamo come la saggezza e l’astuzia degli uomini siano state in grado di sfruttare le difficoltà del terreno scabroso, impervio e inospitale della Costiera, come occasioni,  potenzialità creative, con idee, in qualche modo, geniali.
L’idea di fondo, che trasforma questa natura faticosa in una potente alleata dell’uomo, gira, da queste parti, sempre intorno all’acqua e al modo di utilizzarne l’energia. Un impiego intensivo, intelligente e brillante.
L’acqua cade dall’alto e corre veloce:  in fisica si dice che possiede un’energia potenziale e una cinetica, due modi per restituire la vitalità naturale che acquisisce nel  suo lungo percorso.
Dunque l’acqua proveniente dalla montagna colmava la piazza che si trasformava in una piscina usata per mettere a bagno la lana grezza.
Per la durata di un giorno  la lana era rimestata e lavata con erbe saponarie e con urina animale. Veniva poi travasata in vasche di acqua calda mentre l’acqua sporca della piazza-piscina era scaricata via  attraverso un lungo canale che scorreva sulle pareti laterali della  chiesa e poi, attraversando la campagna e le rocce, giù, fino a raggiungere il Canneto.
A chi si trovi per la prima volta nella piazza San Giovanni e osservi la facciata della chiesa non sfugge un curioso particolare architettonico. 


Pontone - Chiesa e campanile di San Giovanni


Una semicolonna è infilata nella parete principale a poca distanza dall’ingresso. Ciò che colpisce è il fatto che la colonna è messa in maniera, per così dire, “innaturale”, perché fuoriesce in orizzontale dal muro, proprio come una mensola alla quale appenderci qualcosa.
E non si può fare a meno di chiedersi il perché.
L’ultima volta che mi trovai da quelle parti incontrai Francesco.
«Chi è?», chiederete.
E’ un mio amico, impegnato nella politica di Scala, suo Comune di nascita. Ma è, soprattutto, un appassionato cultore della storia del suo paese.
Ogni volta che c’incontriamo ci facciamo molte feste. Mi offrì il caffè nel piccolo bar sulle scale che portano verso la Valle delle Ferriere.
Da lì vidi ancora la curiosa colonna “orizzontale”.
Mi guardò negli occhi e indovinò i miei pensieri.
La prese da lontano, come se volesse creare un po’ di suspense nella storia che stava per raccontarmi.
«Professo’, ti stai chiedendo che ci fa quella colonna curiosa, essa sola in mezzo a quella facciata della chiesa?».
Annuii.
Sorrise.
«Serve da riparo» disse, con la faccia furba, di chi era certo che non avrei capito.
«La colonna? Meglio una pergola per ripararsi dall’acqua» dissi, facendo la parte dello scemo. Così lui ci provava più gusto a raccontarmi la storia. Che, intuivo, doveva essere in qualche modo intrigante.
«E quando mai l’acqua in costiera è stata un problema? I nostri nonni hanno campato grazie all’acqua. L’acqua è sempre una benedizione per i contadini. In specie per i nostri che campavano nello stretto. Il terreno dei terrazzi è sempre poco e povero. L’acqua in grande quantità lo benedice» disse con un largo sorriso.
«E già» convenni.
«L’acqua è benedetta da queste parti. E’ energia. E’ vita. Tutto si muoveva, fin dal medioevo, grazie all’acqua. La vedi questa piazza? Qua a botta di piscio di vacche e capre e acqua si lavava la lana».
«Mbè questo lo so. Me l’hai già raccontato davanti a un buon bicchiere di vino».
Qualche tempo prima, in una piacevole serata estiva e in una tavolata di amici in un terreno dalle parti dei ruderi di Sant’Eustacchio, mi aveva raccontato tutta la storia della lana e dei lanaiuoli  medievali di Scala.
«Della colonna non mi hai mai detto nulla» aggiunsi.
«E’ una sola  per risparmiare spazio e soldi».
Dovetti fare la faccia di chi non ha capito.
«Come vedi la chiesa non ha un porticato. La costruirono i maestri della Corporazione della Lana al posto di un vero porticato. Che avrebbe sottratto spazio alla piazza e alle sue funzioni  e che sarebbe costato certamente molto di più. Tanti secoli fa, la corporazione era un’istituzione per gli Scalesi. Tutto era governato dai maestri lanieri. Tutta la vita civile».
«Mi stai dicendo che, a differenza di tutto il sud d’Italia, infeudato e violento, qui, all’ombra della Repubblica di Amalfi c’era un comune basato sul lavoro che non aveva niente da invidiare alle libere città d’Europa e ai comuni del centro d’Italia?».
«Professo’, comm’è bello ave’ a cche ffa con le persone intelligenti. Hai capito tutto. La Corporazione difendeva Scala, i cittadini, le donne, provvedeva a prestare qualcosa di soldi a chi si trovasse in difficoltà e alla dote delle ragazze da marito e anche a chi chiedeva asilo politico. Chella meza culonna serviva proprio a questo».
Rimase un attimo in silenzio come gli esperti narratoti dei tempi antichi. Mi teneva sulla corda.
«E allora?» feci io, ormai incuriosito.
«Chi era perseguitato, da chiunque, da nu rre, dalla legge di un ommo putente, si metteva sotto ‘a culonna. Che aveva la funzione di un portico, che copre da sempre un territorio protetto. Accussì il perseguitato di turno era al sicuro. Non lo potevano toccare. Era entrato sotto la protezione della Lana. Si affidava alla Corporazione dei lanaiuoli di Scala. E loro gli assicuravano giustizia. Con il loro tribunale, nella loro terra, dentro la chiesa che era il nostro luogo pubblico, il nostro tribunale, la nostra casa di scalesi, veniva giudicato in maniera imparziale. E se lo meritava godeva della protezione di tutta la popolazione. Alla faccia dei potenti della terra. Hai capito mo, professo’,  perché chella culonna per noi è importante? E’ il simbolo del nostro popolo, della nostra memoria, della nostra libertà».
Quella mezza colonna delimitava uno spazio al di sotto, nel quale era valido il diritto di asilo.
Chiunque, perseguitato a qualsiasi titolo dalla legge o da un potente o, al colmo della sventura,  dalla legge di un potente, si fosse posto sotto questa colonna non poteva essere arrestato  se non dopo  un regolare processo governato da giudici imparziali i quali sarebbero stati  nominati dagli stessi responsabili dell’Arte della Lana.
Appresi che all’ordine della lana si deve anche la fondazione di un “Pio Monte dell’Arte della Lana” che aveva lo scopo di proteggere, sotto il profilo economico, gli aderenti  alla corporazione, in caso di malattia, morte e di costituzione  della dote per le figlie.

«Allora sei diretto alle cartiere?» mi chiese Francesco.
«Sì. E’ la prima volta che ci vado».
«Che bellezza! Sei in procinto di fare una grande scoperta. E provare una grande emozione» disse orgoglioso. Con l’ansia di chi ha in cassaforte dei gioielli e li ha  conservati solo per mostrarli  a un caro amico. Un collezionista di quadri e di bellezze che gode nel vederle e farle vedere.
Mi presentò un suo amico che in quel momento s’era affacciato alla porta del bar.
«Il signore che vedi è un commissario della forestale. Siamo diretti per un’ispezione alla Valle delle Ferriere. Faremo un pezzo di strada assieme. Poi al bivio, noi proseguiremo verso l’alto e tu ripiegherai in basso, verso il vecchio edificio della Ferriera e da lì, scenderai verso Amalfi».
Il nostro percorso partì dunque dalla chiesa del Battista per dirigersi lungo il sentiero che portava fuori dalle case di  Pontone, e s’avviava verso  la ferriera  di Amalfi.
Proseguendo in questa direzione ci incamminammo lungo una mulattiera che prosegue  lentamente e dopo un iniziale tratto in salita, lungo il quale incontrammo vecchi casali e fitti pergolati di uva, il viottolo sterrato scendeva verso il basso, costeggiando la Valle dei Mulini.
Lungo il tragitto scoprii campanule, erbe aromatiche, piante speciali, antichissime felci, e i bombi, insetti intenti a raccogliere polline.
Quelli che erano lì sotto i nostri occhi, immersi in uno spettacolare fascio di lavanda odorosissima, appartenevano alla famiglia del  bombus pascuorum.

Bombus pascuorum

Scorsi negli occhi della vecchia guardia forestale un che di commozione mentre mi mostrava come quell’incredibile insetto dal corpo rotondo e massiccio, color giallo dell’oro, saltava da un petalo all’altro e raccoglieva polline nelle piccole sacche che aveva legate alle zampine posteriori.
Mi parlarono di questa specie  come un miracolo del bosco e della campagna, diffusissimo in costiera,  un imenottero impollinatore senza il quale la natura entrerebbe subito in crisi e di come fossero preziosi per moltissime coltivazioni.
Erano commossi Francesco e il suo amico della forestale a vederli in azione, passare di fiore in fiore.
Si soffermavano su ogni cosa. E mi raccontavano. Mostravano felici le ricchezze del territorio.
La valle dei mulini ora, a quel punto del nostro cammino, la si vedeva dall’alto, stretta tra i due fianchi rocciosi calcarei.
Sentivamo chiaro e distinto il rumore dell’acqua del fiume che correva veloce verso il basso, verso Amalfi e il mare.  Ogni tanto, tra gli alberi, spuntava un edificio, un rudere, un tetto divelto, una copertura a falde. Erano le cartiere, quelle che tra un po’ avrei visto da vicino, quello che ne resta.

Ruderi di cartiera

Proseguimmo. Più innanzi, dopo aver doppiato un ponte e un piccolo casotto  con un finestrino  in pietra lavica, risalente al primo impianto dell’ acquedotto amalfitano di epoca fascista,  giungemmo al bivio.  Qui ci lasciammo.
Proseguii da solo. E, dopo un po’, mi apparve la vecchia ferriera di Amalfi.
Ciò che vidi non fu l’edificio ma un insieme di rovine completamente immerse nel bosco.
E qui assistetti al  miracolo dell’acqua.
Di scorcio vidi il corso del fiume che scendeva dall’alto e si allargava in un’ampia polla d’acqua trasparente, tra altissimi alberi e, sullo sfondo, le montagne e la valle alta delle ferriere.
Qui ragazzi in gruppo sedevano, scherzavano, guardavano, godevano di quell’ambiente che sembrava tratto da un antico racconto.
I ruderi della ferriera erano attraversati dall’acqua e dal verde.
Il Canneto s’infilava dappertutto, scorreva sulle antiche coperture della fabbrica, al di dentro, al di sotto, sbucava da più parti e cadeva, rumoroso, all’interno di locali oscuri come grotte, in mille rivoli che si ricongiungevano, più in basso, nell’alveo del fiume.


Anche il vecchio ponte di caduta, che in origine serviva per mettere in moto mantici e magli, era ancora attraversato dall’acqua che si gettava, alla fine, di sotto. Un ponte che, secondo la tradizione costruttiva delle antiche maestranze della costa, mostra gli archi di sostegno privati dei rinfianchi, in un’essenziale e sofisticata semplicità strutturale, inconsueta ma non priva di una sua sobria bellezza .

Il Canneto

E gli alberi attraversavano stanze, locali e finestre, completamente ricoperti da muschi e cespugli. Solo l’immaginazione faceva comprendere che si trattava di vecchie opere fatte dalla mano dell’uomo. La natura che si impadronisce di nuovo dello spazio, piega tutto al suo dominio, invade, s’arrampica, s’infila, ricopre.
Camminavo lentamente. Osservavo. Provavo meraviglia.
Mi sentii fuori dal mondo. Quasi stordito dal profumo del bosco  e dal rumore della grande massa fluida che precipitava di sotto, verso la valle.
Ebbi la sensazione di essere in uno dei tanti acquerelli dipinti dai visitatori dell’Ottocento. Karel Blechen, Carelli, Gigante. Vedevo dal vero quello che loro avevano ritratto nei loro dipinti famosi.
E, di colpo, la mente sgombra d’ogni pensiero, mi sentii felice.
Capii Thoreau e la sua vita nei boschi.
Il desiderio irrefrenabile di scappare via.

Karel Blechen, La Valle dei Mulini 
Sullo sfondo la ferriera

Mi fu chiaro che si può anche fuggire dal nostro mondo, dalla collettività degli uomini. Che a volte non se ne può più. Che abbiamo costruito una trappola e l’abbiamo chiamata civiltà.
Ma, in questi casi,  non valgono le parole. C’è solo un sentire antico. Una voglia di fuga.
Fuori. Via, via.
Sgombrare la mente, l’anima fugge via. Insegue non so quali pensieri e arcaiche sensazioni che ancora sopravvivono dentro di noi.
Nel fondo. Sepolte. Voglie segrete e dimentiche.
E mi sentii vicino al mio amico irlandese Leo che, ogni tanto, se ne va a vivere in una grotta sulle montagne di Agerola.
Solo. Lontano da tutti.
Con i suoi acquerelli, i suoi pensieri e il desiderio di starsene in disparte, lontano.
E capii anche Mauro Corona e la sua maledetta voglia di starsene al di fuori. A scrivere di cose antiche e semplici. Di montagne, foreste, animali e uomini che vanno da soli lungo i sentieri di boschi antichi.

Thomas Ender, I ruderi della Ferriera di Amalfi


La Ferriera di Amalfi ha smesso di funzionare verso la metà del Settecento.
Costruita agli inizi del Trecento,  godeva del particolare privilegio di non essere soggetta al monopolio statale del ferro ed era inoltre servita dall’efficiente porto di Amalfi. In ogni caso, poi, gli amalfitani erano abilissimi naviganti, capaci di sfuggire a ogni forma di controllo marino. L’inaccessibilità del luogo in cui sorgeva l’impianto, sperduto in fondo al vallone di Amalfi, gli antichi privilegi e l’astuzia della marineria amalfitana ne decretarono il successo per circa quattro secoli e oltre.

Valle dei Mulini, incisione di Redmond

Scesi più in basso e incontrai le altre costruzioni.  Per prima una centrale idroelettrica a pianta rettangolare, adagiata lungo il  percorso del Canneto,  con il tetto completamente sfondato. La posizione era quella più giusta per permettere alle sue dinamo di pescare nel fiume, entrare in rotazione e generare così energia.
All’interno vidi i resti di componenti elettrici e,  all’esterno,  un vecchio traliccio metallico.
Il prospetto verso valle mostrava due livelli fuori terra e recava un’insegna nella quale mi fu possibile leggere ancora l’iscrizione “Centrale elettrica”.
Intorno al corpo di fabbrica l’acqua del Canneto si divideva in numerosi condotti e rigagnoli. 
Nella sala inferiore era ancora visibile il grande rotore di una vecchia dinamo.
E mi chiesi perché un sistema non inquinante di produzione dell’energia elettrica in quella posizione fosse stato abbandonato e non, al contrario, potenziato. L’acqua continua, ancor oggi,  a scorrere verso il basso con tutto il suo immutato vigore.
Non voglio fare calcoli complicati. Ma impiantare una serie di centraline di quel tipo non provvederebbe, se non ad assicurare tutto il consumo energetico di Amalfi, almeno a un  sostanziale contributo? E questa non sarebbe una fonte che se ne sta lì ancora disponibile, ancora utilizzabile senza colpo ferire? Ma sul senso delle azioni dell’uomo c’è poco da chiedersi. La risposta è sempre la stessa.
La nostra epoca è in buona sostanza animata da una prepotente e sciagurata brama di convenienza. Quella immediata, sotto gli occhi, di pronto consumo. Senza riflettere sulle convenienze più grandi e di maggior respiro.

A. Solari, Valle dei Mulini

Ma ora che le cose del pianeta stanno prendendo una brutta piega di scarsità di risorse e di colossale caduta non sarebbe giusto ripensare a installazioni di rotori di dinamo in cascata che nessun danno apporterebbero all’ambiente? Non si potrebbe, di nuovo, approfittare del fiume Canneto e dell’energia pulita che  il suo scorrere rigoglioso verso valle ci potrebbe offrire?
Scendendo oltre,  si incontrano le cartiere.
Quasi tutte ormai ruderi irrecuperabili.
In origine, nel medioevo,  qui erano impiantate gualchiere e mulini. Poi, con la scoperta della carta e il primato degli Amalfitani e della gente di Fabriano nella fabbricazione di questo prezioso materiale, tutti i vecchi opifici furono trasformati in cartiere e s’iniziò la produzione della carta di Amalfi.
Di come funzioni una cartiera parlerò altrove.
Troppo interessante e complesso il discorso per costringerlo in questo mio raccontare che insegue un altro fine.  
Gli edifici che vidi e che sopravvivono lungo il canneto assumono, oggi, un significato forte di altra natura. Contribuiscono alla definizione di un intorno paesaggistico e culturale di ampio respiro che ha molto da insegnare.

Gonsalvo Carelli, Le Cartiere della Valle dei Mulini

Proprio così com’è. Basato sul forte contrasto: le cartiere come ruderi, residui di un passato glorioso, di una passata grandezza, definitivamente tramontata  e il paesaggio, la natura che sopravvive e sopravanza, prepotente e ostinata.
Una compiuta realizzazione di un principio romantico, inseguito per decenni dalla maggior parte degli artisti europei. Quello del “paesaggio con rovine”, il senso del passato che è irrimediabilmente perduto. Di cui sopravvivono soltanto i resti.
Qui tutto è accaduto per caso. Come nella vita. Come per un curioso capriccio del destino.
E perciò è segnato da una particolare bellezza, da una forza senza precedenti.
In questo modo la Valle dei Mulini fa onore alla memoria e alle teorie di artisti come William Turner, Dante Gabriele Rossetti, William Morris e pensatori come John Ruskin. E soprattutto risponde a una loro improbabile fantasia che insegue  un’intera epoca storica e tenta la ricostruzione del suo sapore. Il medioevo artigianale, epoca trasognata e improbabile, vissuta soltanto nelle loro accese fantasie di romantici, realizzata in uno stile completamente inventato, quel neogotico che segnò un’intera stagione creativa dell’Inghilterra che muoveva i suoi primi passi nell’era della modernità,  quello stile, dicevo, è qui, nella valle dei mulini,  un fatto storico.

John Ruskin

Irripetibile capriccio del destino che ricompone, dai frammenti della storia di una tramontata Repubblica e delle sue successive vicissitudini, un’intera regione geografica, un ambiente proprio con lo stesso spirito di un acquerello di Turner, o di una rovina trasognata dai tanti architetti paesaggisti-giardinieri che si mossero sulle suggestioni di quei grandi artisti-intellettuali che presagivano, nella modernità, l’apertura di un’intera stagione di orrori diretti contro la natura e poi contro la stessa umanità.
La Valle dei Mulini è dunque, oggi, un’opera d’arte involontaria – e perciò infinitamente più bella e suggestiva  di quella dovuta alla fantasia di un singolo creatore – frutto del capriccio del destino e della mancata attenzione della mentalità affaristica dell’epoca contemporanea.
Di certo, John Ruskin sarebbe stato tra i più convinti sostenitori della particolare bellezza della Valle se fosse transitato da queste parti.
Ma quest’incontro non avvenne. Egli fece a tempo, in un solo pomeriggio, a vedere la parte bassa di Amalfi, la linea costiera che rappresentò in un famosissimo acquerello, vanto di tutti gli amalfitani, continuamente citato e rappresentato.
Una vista della città di scorcio, dalla prospettiva della Torre di San Francesco. Un acquerello rapido, una fugace e forte impressione delle forme del profilo urbano, appena accennato, sotto un cielo trascolorato, diafano, perduto in azzurro sulle montagne al di sopra del campanile.

John Ruskin, Vista di Amalfi

Sarebbe impazzito il poeta inglese amante di Venezia e della sua storia se fosse sceso lungo il Canneto e avesse visto i ruderi delle cartiere così come ci appaiono oggi.
Ma all’epoca sua le cartiere sarebbero state ancora tutte in funzione.
La sua teoria del restauro che vuole gli edifici come gli esseri viventi, dotati di un ciclo di vita a termine, qui trova una singolare conferma. La bellezza non è eterna ma anch’essa transitoria, effimera, proprio come l’esistenza degli uomini, destinata a una fine.
Gli edifici, afferma Ruskin,  si devono lasciar morire anche se, come ai viventi, bisogna prodigare loro tutte le cure per assisterli e aiutarli a vivere il più a lungo possibile.
Una singolare coincidenza con quanto succede nella Valle dei Mulini che sembra, perciò, un vero e proprio inno alla filosofia romantica, delicata e in qualche modo disperata, del grande intellettuale inglese autore de The stones of Venice, che ammirò, molto più degli italiani, la nostra terra e le sue straordinarie bellezze.

Continuai a scendere lungo il corso d’acqua. Man mano che proseguivo vedevo i vecchi edifici l’uno dopo l’altro.
Le cartiere mi apparvero  come  vecchi corpi morti,  fantasmi di un’epoca tramontata.
Per prima quella che fu di Filippo Milano, una costruzione ancora in buono stato, coperta da un tetto a doppia falda e un terrazzino sul quale si intravvedeva un pergolato d’uva.
Era chiusa. Seppi, poi, che all’interno c’erano ancora tutti gli antichi strumenti del ciclo di produzione della carta ma in stato di abbandono. Residui e resti ricoperti di polvere.
Più innanzi vidi ciò che rimaneva di due cartiere tra loro vicine, Nolli e Treglia, abbandonate negli anni Sessanta. Erano state depredate di ogni cosa, in tutti questi anni, dai mobili e le suppellettili di ogni tipo ai macchinari. Persino gli infissi erano stati divelti dai muri.
Scesi oltre e fui colpito dalla suggestione di due costruzioni singolari, anch’esse semidistrutte, appartenenti alla cartiera Lucibello. Due ardite strutture a ponte, che, attraversando il fiume, ne congiungevano le sponde.


Le originarie capriate di copertura in legno erano  crollate e il tempo aveva fatto il resto. Qui si è lavorato fino agli  anni  Quaranta.
Più innanzi un’altra costruzione, la fabbrica di confetti di proprietà della famiglia Pansa. La sua forma planimetrica molto allungata  ha permesso la sua riutilizzazione per produrre carta. Le sue condizioni, nonostante lo stato di abbandono, non mi apparvero disperate.
Alla fine c’era, quasi nel tessuto urbano di Amalfi,  la cartiera  De Luca, di proprietà, nei tempi passati,  della famiglia Confalone, in buone condizioni di conservazione
E poi, lungo la strada che porta alla marina,   il Museo della Carta,  che è ancora oggi   nell’edificio della cartiera di Nicola Milano,  l’ultima funzionante,  in ordine  di tempo.
V’è poi,  naturalmente,  la cartiera Ferdinando Amatruda, l’unica in tutta Amalfi ancora in piena attività. La sua forma attuale conserva  notevoli somiglianze con l’immagine raffigurata in dipinti ed acquerelli ottocenteschi.
Alla fine tornai alla vita di Amalfi, chiassosa e allegra, nei suoi vicoli, scale, calli e sottopassi scuri e freschi.
Tutta quella natura e la storia passata mi erano entrate con prepotenza  sotto la pelle.
Ma anche il senso della vita e del suo scorrere.

Il Canneto

E pensai che luoghi come la Valle dei Mulini  sono da preservare così-come-sono, senza nulla toccare, neanche un filo d’erba. Stanno lì per uno scopo, anche se spesso facciamo finta di non accorgercene. Per insegnare agli uomini, ai giovani, agli studiosi l’ostinazione delle generazioni del passato, il loro carattere eroico come sostiene Ruskin, la forza e l’umiltà che avevano nei confronti della natura.
In una parola sono la nostra memoria, il nostro senso, la nostra continuità.
Uscii dalla Valle ancor più convinto della mia idea. E con la sensazione che, da qualche parte, ci fosse un ordine, un costrutto. Mi sfuggiva ma c’era.
Il senso della sua presenza c’era tutto. Anche se ci ostiniamo, a volte, a girare la testa da un’altra parte.
C’è un mondo, un ordine, piante, animali, aria, acqua, essenze che meritano il nostro rispetto. Di vivere così come scelgono. Senza subire la nostra arrogante volontà di guadagno.
Come ha scritto Kipling la natura si vendica e si riappropria di quello che le è stato sottratto con forza e determinazione.
E mi dissi che ero stato fortunato, molto fortunato a fare quella lunga passeggiata e di essere stato testimone di una parte della vita di quel luogo e di quella storia passata.
Tirai un respiro profondo.
Di colpo la tristezza delle cose tramontate mi passò. Mi sentii bene.
Come fossi parte di qualcosa. Anche se sapevo che non avrei mai capito a fondo di cosa.
La mente sconfina nella filosofia a volte. E allora c’è un rimedio. Infallibile.
E corsi a prendermi un caffè, un buon caffè nel bar Panza, proprio sotto il Duomo.
Del Duomo parleremo, forse. Ma più in là.
Per ora dedichiamoci con attenzione al nostro caffè ristoratore.







martedì 21 maggio 2013

Una benedizione





di Claudio Cajati

Tu sei arrivato nella mia vita come una benedizione. Quando oramai mi ero stufata dei giovani. Ne avevo avuti parecchi di compagni di vent’anni o poco più.
Un disastro, tutti quanti. Infantili, teatrali, presuntuosi, sbruffoni, esagitati, invadenti, inetti e sempre esagerati. E soprattutto, a letto? Non ti dico.
Non ce n’era uno che non credesse di essere un grande amatore. E se invece magari non ci credeva, recitava la parte di quello che se ne mostra sicuro e pensa di convincere la partner, anche se i fatti clamorosamente lo smentiscono.
Questi giovincelli da strapazzo rischiavano veramente di farmi un danno psicologico, oltre a non riuscire a soddisfarmi. Erano arrivati a esasperarmi fino al punto che provavo per loro disprezzo. E questo disprezzo si poteva estendere facilmente a tutti i maschi, anche a tutti quelli che non avevo conosciuto.
Nelle chiacchierate gustose con le amiche del cuore i miei maldestri amanti era oggetto, fra risatine e silenzi pensosi, di spietato sarcasmo e sconsolata delusione.
Rischiavo di generalizzare e decidere di farla finita con tutti i maschi. Mi sarei soddisfatta da sola, o avrei provato addirittura il sesso con le donne?
Non mettevo in conto di poter andare a letto con un uomo maturo. Uno che poteva essere mio padre quanto a età. Quest’idea mi ripugnava. Sono stata educata con dei principi, io.
Invece, quando ti sei fatto avanti tu – alla cassa del supermercato con quanta grazia mi hai ceduto il posto nella fila – nel tuo sorriso ho letto qualcosa in più della signorilità, quella che si usava un tempo e che per te è sempre attuale. Nel tuo sorriso ho letto il desiderio di un maschio sano, timido eppure deliziosamente sfrontato.
Quando ti sei offerto di aiutarmi a sistemare la voluminosa spesa nel bagagliaio, con quanta naturalezza l’hai fatto. Ho sentito che dovevo accettare.
Che importava se non eri bello come qualcuno di quei giovincelli insipidi con cui me l’ero fatta fino ad allora? Il tuo fascino era che ti mostravi subito, al primo sguardo, un vero uomo.
Ho sentito che dovevo accettare la tua cavalleria. E che così stavo accettando qualcosa di più. Qualcosa di più che anch’io volevo.
Tu hai detto che eri venuto senza auto (forse era un’astuta bugia, chissà). Così, se ti potevo dare un passaggio con la mia auto fino a casa tua... ma io avevo già intuito cosa mi avresti detto davanti al portone: di aiutarti a portare la tua spesa sopra, come se tu non fossi l’uomo maturo ancora vigoroso che chiaramente eri.
E poi, entrati in casa, per disobbligarti ed essere ospitale, mi avresti offerto un drink, piuttosto alcolico.
Il seguito, che tutti e due oramai desideravamo, era scontato. Non c’era bisogno di parole. Determinazione seduttiva, la tua, la più ambita da una donna: quella senza volgarità, senza incontrollate goffaggini, senza alcuna arrogante avance.
Tu che hai avuto tante donne nella tua vita – e non riesco a esserne gelosa – non hai quella fame erotica esagitata e scomposta dietro i gesti maldestri dei ragazzotti che ho dovuto fronteggiare.
Per te sono come uno strumento musicale che tu sai suonare con mani sapienti, misurate, rispettose, intriganti.
Perfino il membro più terribile e volgare sai manovrarlo con delicata gustosa fantasia. Me lo strofini sulle labbra, ed è una carezza gentile. Fingi di volermelo infilare nelle narici e ve lo appoggi come un animaletto curioso, graziosamente impertinente. Me lo passi sulle palpebre pudicamente chiuse, ed è quasi un massaggio ben accetto. Poi me lo strofini con abile lentezza nelle orecchie, e mi fai un solletico eccitante che al tempo stesso mi muove al riso.
Tu conosci i tempi opportuni, le pause della giusta durata al momento giusto. Non è la continuità dell’assalto sessuale quel che veramente vuole una donna: una pausa sapiente, perfino prolungata ad arte, può creare l’attesa spasmodica, imprevista e imprevedibile, di una nuova imminente invenzione.
Tu hai fantasia, gusto, esperienza. Anche nei fatti più ovvi, le penetrazioni – in cui tanto spesso i maschi si rivelano maldestri, volgari, egocentrici – tu raggiungi un equilibrio virtuosistico. Sai essere delicato e gentile ma al tempo stesso virile e irruente. Sai prendere tu l’iniziativa di possedermi eppure lasciarmi la sensazione che sono stata io, al colmo di un’eccitazione addirittura dolorosa, a chiederti, come una liberazione, di entrarmi dentro.
Non ti butti mai a capofitto su di me come su una docile preda al servizio delle tue voglie. Se mi guardi negli occhi o percorri centimetro dopo centimetro la mia pelle con le tue labbra tiepide, la tua lingua calda, mi dai l’idea che conosci e rispetti il mio corpo come conosci e rispetti il tuo. E che fai sesso con me per darmi piacere perfino più che per ricavarne tu stesso.
Possibile che esista un uomo così? Ebbene esiste: sei tu.
A volte mi chiedo se tu mi ami anche. Nel senso che l’amore va oltre il solo accordo sessuale. Non saprei rispondere. Ma forse sì.
E io? Io ti amo? Di più: io ti adoro. Perché non semplicemente ti desidero. Non semplicemente godo per la tua abilità a farmi godere. Non semplicemente ti sono affezionata e in tante cose mi prendo cura di te. Io non posso nemmeno immaginare di vivere senza di te. Mi sento male al solo pensiero che ti possa capitare qualcosa di brutto. O che addirittura io possa perderti.
Se posso, e penso che posso, voglio farti felice. Tu me l’hai fatta conoscere la felicità. Non più un concetto astratto, non più una parola abusata.
E allora a volte quasi mi verrebbe da gridarti, mentre mi sollevi leggera fino all’acme: “Ma così mi fai impazzire”.
La pazza felicità però non ammette parole. La pazza felicità è muta.