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ebook di ArchigraficA

domenica 2 agosto 2015

Un ponte nel mezzo



Una storia dimenticata, quasi una favola quella raccontata da Mario Pagliaro.
Il ponte della Valle di Durazzano, un libro su un monumento "dimenticato".


per scaricare click sul link:

di Giacomo Ricci


«Venezia, simile a Tiro per perfezione di bellezza, ma inferiore per durata di dominio, giace ancora dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza…»
John Ruskin
Favola, la definisce il suo autore. Effettivamente, nella storia del ponte di Durazzano, gli elementi ci sono tutti. Il luogo, l’opera grande, il tempo e la sua damnatio memoriae, il grande artista (ma anche esperto ingegnere), l’antagonista potente e le sue oscure ragioni e, soprattutto, come in ogni favola che si rispetti, l’incipit classico che, come si ricorderà, suona pressappoco in questo modo: «C’era una volta un re che viveva in un magnifico paese…».
 Certo di favola si tratta ma anche di storia, quella che qualcuno magari si azzarderebbe a scrivere con la «S» maiuscola, visto che si tratta del lavoro dimenticato di un grande architetto per conto di un grande re, per una grande opera, e, infine, di un grande antagonista.
 E diciamo subito i nomi: Luigi Vanvitelli l’artista, Carlo III di Borbone il re, la reggia di Caserta il luogo e Bernardo Tanucci l’antagonista.
 Il ponte di cui ci parla Mario Pagliaro, autore del saggio che vi accingete a leggere, é quello di Durazzano, una delle tre grandi opere d’ingegneria che l’architetto progettò e realizzò, per dare corpo a un sogno, trasportare l’acqua dalle sorgenti del Fizzo, alle falde del Monte Taburno, attraversando valli e montagne, fino ad alimentare lo spettacolo magnifico di una reggia e del suo parco. E più che magnificare il signore che la volle, il re buono, come sempre si é chiamato dalle nostre parti, queste acque fresche e meravigliose che uscivano dalla fontana a monte del grande parco, finalmente sancivano la nascita di un potente stato del Sud, quel Regno delle due Sicilie, non più colonia, com’era stato per secoli di dominazione straniera, ma nazione autonoma e sovrana, splendida e straordinaria. Quella terra che Goethe ci invidiò e descrisse con calore e compiacenza.
 Splendida perché lo fu, magnifica per il significato che assunse nella penisola italiana degli inizi del Settecento.

E’ utile ricordare queste circostanze perché la damnatio memoriae di cui ho detto é stata ordita ad arte. Ma di questo dirò tra poco.
 La reggia di Caserta rimane, ancora oggi, a dispetto di tutto, la straordinaria testimonianza di un regno indipendente del Sud d’Italia.
 Quello Stato delle due Sicilie che fu uno dei più importanti dell’Europa del suo tempo e che, al contrario, ci é stato ricordato, fin dai primi giorni di scuola, come orrore, nazione arretrata e brutale, tanto da assimilare la parola «Borbone» (finanche nell’ufficialità dei dizionari di lingua italiana) a termini come «arretratezza», «barbarie», «ignoranza», «assolutismo».
 Oggi, per fortuna, di quest’operazione di mistificazione si sta venendo a capo e si fa spazio la consapevolezza che il Regno delle due Sicilie non fu diverso dagli altri stati nazionali europei come Inghilterra, Spagna e Francia. Napoli, sua capitale fu alla pari, per grandezza, popolazione e splendore, di altre come Parigi e Londra.
 E scusate se é poco.
 Poi ci sono state le guerre d’«indipendenza» e l’«unità» d’Italia. E tutto, come purtroppo sperimentiamo ogni giorno, ha preso una piega diversa. E ora sappiamo come l’Italia del Sud non abbia guadagnato lo status di nazione, ma sia stata ridotta, nuovamente a colonia interna che ha perduto una guerra.
 E si sa che, quando si perde, si deve pagare. In termini economici, di popolazione sottomessa e umiliata e soprattutto in termini di memoria. Chi perde é sempre distrutto soprattutto sotto il profilo culturale. La storia, insomma, come abbiamo imparato, la scrivono i vincitori.
 Ed ecco che la lotta viene condotta anche contro i simboli del passato potere. Così la reggia di Caserta, nata per fare concorrenza a Versailles, l’acquedotto che Vanvitelli costruì, tra i più importanti, in diretta concorrenza architettonico-progettuale con i romani, i più grandi ingegneri che la storia d’Occidente ricordi, é stato condannato all’incuria, all’abbandono, alla sua declassificazione da simbolo denso di significato a rudere di un passato da dimenticare.
 E’ in questa luce che si deve guardare a un giornalista come Giorgio Bocca che, in un’intervista televisiva, rilasciata poco prima di morire, parlando di Carlo III, non ebbe dubbi nel definirlo un «vero megalomane» (sue testuali parole) e che invece di spendere tanti soldi in un’opera di automagnificazione, avrebbe fatto meglio a costruire scuole, uffici postali, asili nido.
 Evidente la demagogia e anche la banalità provocatoria di affermazioni come queste. Ma ciò che a noi interessa é il metodo, quella della damnatio memoriae, per l’appunto. Distruggi il simbolo, mettilo in ridicolo, e avrai distrutto il significato che porta.
 Sennonché si tratta di luoghi e simboli, a dispetto di una certa «democrazia» basata sullo sviluppo del capitale del Nord ai danni del Sud, duri a morire. E colgo l’occasione per enfatizzare come quel capitale, costruito con l’apporto fondamentale dell’emigrazione interna di intere generazioni private del loro significato originario, una volta scoperta la mondializzazione, se ne sia fuggito altrove dall’Italia, fottendosene della nazione e del danaro che le ha munto negli anni passati. Altro che nazione, altro che unità. Il capitale persegue solo il suo fine, che é l’accumulazione e il profitto, a dispetto di qualsiasi altra ideologia.
 Ma i monumenti, quando sono tali per carica simbolica, artistica, culturale e politica che contengono, sono duri a morire. Nascono proprio per ricordare e ammonire e dunque sfidano il tempo e le opinioni transeunti dei giornalisti confusi, come Bocca.
 Si tratta di monumenti, come ci ricorda Pagliaro, che resistono agli attacchi del tempo, anche al massacro al quale la camorra ha sottoposto le terre del Casertano, trasformandole in inferno qui in terra. E anche qui ci sarebbe da riflettere per la localizzazione del potere mafioso e la sua stretta funzionalità alla nascita e alla prosperità (si fa per dire) della nazione Italia unita.
 I monumenti sono nati per lottare. E in questo generale processo di riconquista del significato i lavori come quello di Mario Pagliaro finiscono per affiancarli, sottolineandone la funzione e il senso, acquistando un ruolo di primaria importanza.
 Il saggio-fabula di Pagliaro ha un doppio merito.
 Quello della riappropriazione che il Sud sta compiendo della propria storia. Ma anche quello dell’analisi (dimenticata) del valore estetico di opere nate per puri scopi tecnici. E a quest’aspetto, Pagliaro, a ragione, tiene molto.

«Nell’atteggiamento che traspare nella storia del Carolino – scrive – si può rilevare come la popolarità, la mitizzazione, la garanzia della carica simbolica, siano state una conseguenza perseguita e diretta dal Regio Architetto attraverso il consapevole e continuo ricercare la creazione di momenti celebrativi. Episodi utili a permettere che la straordinarietà dell’opera non restasse “sepolta nelle viscere della terra”, bensì potesse rendersi evidente e con essa, i meriti del suo ideatore e la potenza dei suoi committenti »
 Ecco colto ed evidenziato, in termini semplici ed essenziali, il valore dell’opera d’ingegneria nel suo complesso. Il suo voler dare non soltanto soluzione a un problema pratico (superare un dislivello naturale per assicurare la continuità della pendenza dall’origine alla fine del percorso) ma anche ricordare il senso dell’opera, chi l’ha voluta e chi l’ha eseguita.
 Che poi, in sintesi, é sempre stato il vero scopo dell’architettura (e, più in generale, dell’arte), in tutta la sua lunga storia, fin dalle origini più remote. Ricordare gli uomini e dare corpo alla loro volontà di eternizzarsi. E, ricordando se stessi, dare visibilità all’intero popolo e alla civiltà che li ha generati.

I monumenti ci parlano di un popolo e della grandezza delle sue idee. Delle sue aspirazioni e dei suoi sogni.

Ecco dunque il senso della bellissima favola che Pagliaro ci racconta con la bravura di un saggista accorto e la perizia di uno smaliziato narratore, intervallando la storia con quella dei suoi protagonisti e dei luoghi interessati.
 Così anche il Ponte di Mezzo, di Durazzano, torna a vivere nella cornice del passato splendore. E il suo essere riconquistato in parte dalla natura che lo ricopre con le sue essenze e le sue erbe, si addolcisce di poetica malinconia.
 Quella che solo John Ruskin seppe leggere per primo nei monumenti del passato e nella loro lentissima marcia verso l’oblio. I lavori come quello di Pagliaro ci aiutano a tenerne memoria. A dispetto di tutte le guerre.

mercoledì 25 marzo 2015

Kobane calling

Copertina di Kobane Calling

qui andate a Giovanna Daffini che canta Bella Ciao



di Giacomo Ricci

Kobane calling di Zerocalcare alla fine mi ha commosso. Come mi commuoveva il canto di Giovanna Daffini, che nessuno delle generazioni più giovani si può ricordare, quando celebrava la resistenza, la passione politica, la lotta, il coraggio, accompagnandosi con la chitarra e seguita dal violino del marito Carpo.
Il racconto, disegnato con quel suo solito stile minimalista-postpunk, ti prende al cuore  e ti fa capire  oggi come persistano e si articolino l’impegno politico e la lotta per le idee.
Perché è un fumetto, ma sarebbe meglio dire un racconto, un’opera letteraria compiuta, per linguaggio e impegno, che riapre la passione politica, quando questa parola, qui da noi, è diventata sinonimo di strafottenza, faccia tosta, nefandezza, fellonia, opportunismo, ingordigia, voglia di accaparrare tutto l’accaparrabile. Perpetrando, forse, il furto più ignobile che si possa compiere contro i giovani, derubandoli di ogni forma di speranza, di ogni utopia praticabile che porti verso un futuro equo, ragionevole, sereno.
I segni di Michele Rech riaprono le ragioni profonde della passione politica, un bene del quale le giovani generazioni sembravano definitivamente spossessate.
Quella stessa passione che portava, noi del Sessantotto, da giovanissimi insieme a tanti altri, a cantare a squarciagola l’Internazionale:
«Su cantiam l’ideale
Nostra fede sarà
L’internazionale,
Futura umanità…»
Quell’inno che voleva unire popoli lontani per etnia, storia, tradizione, ma che diventavano una cosa sola, una compagine internazionale, per l’appunto, quando  scendevano in campo  contro ogni forma di oppressione e di barbarie.
La barbarie che uccide, decapita, stupra, flagella, mette in croce nel nome di un’assurdità che si chiama religione, ma che tale non è.
Giovanna Daffini cantava la libertà di un popolo contro l’oppressione nazifascista.  Michele Rech, alias Zerocalcare, canta, con il suo linguaggio di ragazzo della porta accanto, disinvolto, semplice, con segni grafici elementari e univoci, la libertà di un popolo, di un’idea che ci fa fratelli al di là del tempo, delle generazioni, della cultura e della geografia. Siamo noi di allora e loro di oggi a cantare assieme la “resistenza”.
Un’immagine emblematica chiude Kobane Calling, un primissimo piano di due occhi seri, accesi, determinati e una frase: «…Da qui non si passerà».
E questo ci fa capire che quei sentimenti non sono tramontati come ci vogliono far credere con le loro polpette di merda tv.
Zerocalcare, lo abbiamo imparato leggendo gli altri libri di cui è protagonista,  è personaggio che lotta nell’assurdità del quotidiano contemporaneo e tenta di infilare pezzi di significato nel vuoto che circonda le nuove generazioni, cioè di tutti coloro che sono stati scartati, fin dall’inizio, messi da parte, colpiti dal vero male della società moderna. Che è, come in pieno Ottocento, ricordiamocelo semmai ce lo fossimo dimenticati, l’accumulazione e l’ingordigia senza fine dei “capitalisti” contemporanei disposti a distruggere la vita, fagocitare in un sol morso tutto il pianeta, rendere in schiavitù i loro simili.
La lotta di Zerocalcare è piena di dubbi, riflessioni, vuoti, sbandamenti, ricordi, affetti, luoghi comuni, tutte cose, cioè, che entrano di diritto nel percorso di  formazione di un ragazzo quando cresce troppo in fretta, quando si pone domande su quello che gli accade attorno e cerca risposte comprensibili. E spesso non ne trova.
E questo ci accomuna.
E allora cantiamo ancora le parole de L’internazionale con Giovanna Daffini, a squarciagola. In modo che tutti possano sentire. In ogni angolo della terra.


Giovanna Daffini



sabato 21 marzo 2015

Perchè bisogna avere un taccuino



di Giacomo Ricci


Vi spiego perchè, secondo me,  è necessario, prima di ogni cosa, avere un blocchetto, un quadernetto e una penna (matita, fa lo stesso) in tasca. In ogni momento della vostra giornata. Sempre. 
Il taccuino vi deve entusiasmare per la sua forma, per il colore, la consistenza, per l'odore della sua carta, per il gusto di averlo tra le mani e in tasca. e poi la penna. Fate in modo che non sia una  penna ma la vostra penna, quella che vi accompagna, con la quale disegnate, appuntate, scrivete, mandate affanculo il mondo e tutti quelli che ci stanno sopra. Non sempre, naturalmente. Quando va fatto e ci sta.
Sempre in tasca la penna-matita. Attaccata al collo con uno spago. La vostra penna anche se si tratta di una sfera fetente o di un mozzone di matita. E' la vostra. Quelle che segna i vostri pensieri e le vostre sensazioni sulla carta. Nell'era digitale abbiamo bisogno ancora della carta e della matita. Il più grande Hard Disk possibile è la nostra fantasia. 

Perchè? In pochi punti vi sintetizzo il mio Punto di Vista (PdV).

A)     L’Originalità  nella costruzione di una storia non esiste.
B)     A volte quelle che sembrano delle stupidaggini  del momento, poi, a guardarle bene, rivelano la loro forza nascosta. Ogni idea sbuca non si sa da dove, fa la sua apparizione come un qualcosa di indesiderato, in momenti che uno non se l’aspetta. Poi va via e non ve ne ricordate più.  Ricordare Freud e la sua teoria degli atti mancati e delle affiorazione dal mare dell’inconscio? E' troppo chiamare in causa Freud? Forse. Ma serve.  Per questo motivo ogni idea  ha la sua forza che aspetta  sol di essere messa a fuoco. Io ci ho messo tantissimo a capirlo. Quasi tutta la vita. Oggi, i miei quaderni di appunti sono una costante che mi aiuta a trarre senso dalle mie azioni, dalle mie disperazioni (temporanee), dalle mie idee, da quelle che si potrebbero chiamare folgorazioni, solo se si mostrassero come tali. In realtà appaiono sempre in sordina, dimesse e poco appariscenti. Eppure…Eppure funzionano. Sempre che si sia attenti a capirle. A comprendere quello che ci vogliono dire. 
C)     Inutile il tentativo di farsi venire un’idea originale.  Tutta bella pronta, funzionante, confezionata con un nastro regalo. Non funziona così. Non verrà mai. Si mostra a spezzoni, a mozzichi. E poi se appare tutta assieme forse è perchè vi ricordate di qualcosa che avete gà visto e sentito. Qualcuno  l’ha già avuta, ha già fatto tutto quello che poteva per svilupparla e l’hanno fatto molto meglio di come voi potreste fare. E allora? Allora tanto vale copiare. Ma bisogna copiare in maniera “creativa” aggiungendoci qualcosa di nostro, modificando anche se solo un poco. Non sono io a dirlo ma Antonio Serra, sceneggiatore della Bonelli e, andando più in alto, nientedimeno che Glenn Gould, uno dei più famosi pianisti mai esistiti, un genio, compositore musicale, musicologo e teorico della musica. Abbiate fiduca. Hanno ragione loro. Ci hanno già pensato. E' il loro mestiere. E hanno capito bene dove stanno i nodi della questione.

D)    A volte, in stati di sconforto (come mi capita spesso) mi viene di dire che, forse, non ne vale proprio la pena di farsi venire idee perché, tanto, questa realtà che ci circonda non sa che farsene. Il nostro fallimento è già preordinato dal destino. 
        Ho naturalmente torto marcio. Perché se così fosse nessuno si farebbe venire un'idea, non esisterebbe Zerocalcare, non sarebbe esistito Hugo Pratt e ci saremmo privati di Corto Maltese. Riavvolgete il nastro e leggete gli spunti che avete segnato sul vostro taccuino. Lì c’è tutto. E se non c’è ancora ci sarà.

Bisogna avere pazienza. La nostra formazione è lenta, anche se le premesse sono tutte già dentro di noi. Un taccuino permette loro di fare capolino e non dimenticarcene. 

domenica 15 marzo 2015

Ornamento e Delitto

 Molti allievi di architettura non lo conoscono abbastanza. Lo ripropongo qui per utile conoscenza. Sperando che se lo leggano.


Adolph Loos


ORNAMENTO E DELITTO


Di Aldolph Loos (1908)




L'embrione umano attraversa nel corpo materno tutte le fasi di sviluppo del regno animale. Quando l'uomo nasce, le sue impressioni sensoriali sono uguali a quelle di un cucciolo. La sua infanzia passa attraverso tutte le trasformazioni che seguono la storia dell'umanità. A due anni egli vede le cose come un Papua, a quattro come un antico Germano, a sei come Socrate, a otto come Voltaire. Quando ha otto anni, acquista coscienza del colore violetto, il colore che fu scoperto nel secolo diciottesimo, poiché prima la viola era azzurra e la murice era rossa. Il fisico ci indica oggi certi colori dello spettro che già possiedono un nome, ma la cui conoscenza e riservata alle generazioni future.
Il bambino è amorale. Anche il Papua lo è, per noi. Il Papua uccide i suoi nemici e se li mangia. Non è un delinquente. Se però l'uomo moderno uccide e divora qualcuno, è un delinquente o un degenerato. Il Papua copre di tatuaggi la propria pelle, la sua barca, il suo remo, in breve ogni cosa che trovi a portata di mano. Non e un delinquente. Ma l'uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato. Vi sono prigioni dove l'ottanta per cento dei detenuti è tatuato. Gli individui tatuati che non sono in prigione sono delinquenti latenti o aristocratici degenerati. Se avviene che un uomo tatuato muoia in libertà, significa semplicemente che è morto qualche anno prima di aver potuto compiere il proprio delitto.
L'impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto sia a portata di mano è la prima origine dell'arte figurativa. E’ il balbettio della pittura. Ogni arte è erotica.
Il primo ornamento che sia stato ideato, la croce, era di origine erotica. Esso fu la prima opera d'arte, la prima manifestazione d'arte che il primo artista scarabocchia su una parete, per liberarsi di una sua esuberanza. Un tratto orizzontale: la donna che giace. Un tratto verticale: il maschio che la penetra. L'uomo che creò questo segno provava lo stesso impulso di Beethoven, era nello stesso cielo nel quale Beethoven creò la Nona.
Ma l'uomo del nostro tempo, che per un suo intimo impulso imbratta i muri con simboli erotici, è un delinquente o un degenerato. E’ naturale che questo impulso assalga con maggior violenza l'uomo che presenta tali manifestazioni degenerate quand'egli si trova al gabinetto. Si può misurare la civiltà di un popolo dal grado in cui sono sconciate le pareti delle latrine. Nel bambino è una manifestazione naturale: scarabocchiare le pareti con simboli erotici è la sua prima espressione artistica. Ma ciò che è naturale nel Papua e nel bambino è una manifestazione degenerata nell'uomo moderno. Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l'evoluzione della civiltà e sinonimo dell'eliminazione dell'ornamento dall'oggetto d'uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il capo. Provavano un senso di oppressione di fonte all'idea che non si possa più produrre un ornamento nuovo. Ma come, ciò che può fare ogni negro, che hanno potuto fare tutti i popoli e tutti i tempi prima di noi, e precluso soltanto a noi, uomini del secolo diciannovesimo? Tutto ciò che l'umanità ha creato senza ornamenti nei millenni passati e stato gettato via senza riguardo e votato a distruzione. Noi non possediamo più nessun banco da falegname dell'età carolingia, ma qualsiasi cianfrusaglia che recasse anche il minimo ornamento e stata raccolta, ripulita e palazzi sontuosi sono stati costruiti per ospitarla. E allora gli uomini si aggiravano tristi tra le vetrine e si vergognavano della loro impotenza. Ogni età ha avuto il suo stile e solo alla nostra dovrà essere negato uno stile? Per stile s'intendeva l'ornamento. Dissi allora: non piangete! Guardate, questo appunto costituisce la grandezza del nostro tempo, il fatto cioé che esso non sia in grado di produrre un ornamento nuovo. Noi abbiamo superato l'ornamento, con fatica ci siamo liberati dall'ornamento. Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie delle città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento.
Ma taluni uccelli del malaugurio non hanno potuto sopportare tutto questo. L'umanità doveva continuare ancora per lungo tempo ad ansimare nella schiavitù dell'ornamento. Gli uomini si erano già spinti cosi avanti da non sentire più nessuna eccitazione dei sensi venire dall'ornamento, cosi avanti che l'impressione estetica di un volto tatuato non esaltava il piacere estetico, come nel Papua, ma lo sminuiva. Cosi avanti da compiacersi di un portasigarette tutto liscio e da non volerne più comperare, neppure allo stesso prezzo, uno decorato. Essi erano felici degli abiti che portavano e si rallegravano di non dover andare in giro in pantaloni di velluto rosso filettati d'oro, come le scimmie alle fiere. E io dicevo: guardate, la camera dove mori Goethe è ben più signorile di tutto lo sfarzo del Rinascimento e un mobile liscio e più bello di qualsiasi pezzo da museo intarsiato e scolpito. La lingua di Goethe è più bella di tutti i vezzi di pastorelli arcadici.
Ma gli uccelli del malaugurio ascoltavano queste cose con dispetto e lo Stato, che ha il compito di frenare i popoli nel loro progresso culturale, fece suo il problema della ripresa e dello sviluppo dell'ornamento. Guai a quel paese dove sono i consiglieri aulici a sovrintendere alle rivoluzioni! Presto fu dato vedere, nel museo viennese di arte applicata, un buffet che si chiamava ‘la ricca pesca’, presto comparvero degli armadi che portavano il nome di ‘principessa incantata’, o uno simile, riferito sempre all'ornamentazione che ricopriva quei mobili sventurati. Lo Stato austriaco assolve il suo compito con tale precisione che provvede a non lasciar scomparire dai confini della monarchia austro-ungarica le pezze da piedi. Esso costringe ogni uomo civile sui vent'anni a portare per tre anni di fila pezze da piedi in luogo di calze. Perché in fondo e pur vero che ogni Stato parte dal presupposto che un popolo dal basso livello civile è tanto più facile da governare.
Ebbene, l'epidemia decorativa e ammessa dallo Stato e viene anzi sovvenzionata con denaro statale. Ma per conto mio io vedo in ciò un regresso. Per me non ha valore l’obiezione secondo cui l’ornamento può aumentare la gioia di vivere in un uomo colto, per me non ha valore l'obiezione che si ammanta nella frase: "Però, se l'ornamento è bello ...!". In me e in tutti gli uomini civili l'ornamento non suscita affatto una più grande gioia di vivere. Se io voglio mangiarmi un pezzo di pan pepato me ne sceglierò uno che sia tutto liscio e non uno di quelli in forma di cuore o di bambino in fasce o di cavaliere, completamente ricoperti di ornamenti. L'uomo del quindicesimo secolo non mi comprenderà. Ma tutti gli uomini moderni mi comprenderanno benissimo. Il difensore dell'ornamento crede che il mio slancio verso la semplicità equivalga ad una mortificazione. No, illustrissimo professore della Scuola di Arti Applicate, io non mi mortifico affatto! E’ che a me piace di più cosi. Le composizioni culinarie dei secoli passati, che esibivano tutti gli ornamenti possibili per far apparire più appetitosi i pavoni, i fagiani e le aragoste, provocano in me l'effetto opposto. E’ con orrore che io mi aggiro in una mostra gastronomica, se mi passa per la mente l'idea di dover mangiare quelle carogne imbalsamate. Io mangio il roast-beef.
I danni immensi e la desolazione che il risveglio dell'ornamento produce nello sviluppo estetico potrebbero anche venir sopportati, dato che nessuno, neppure l'autorità statale, può arrestare l'evoluzione dell'umanità. Si può solo ritardarla. E noi possiamo attendere. Ma è un delitto contro l'economia del paese, perché con ciò si distruggono lavoro umano, denaro e materiali. E a questi danni il tempo non potrà portare rimedio.
Il ritmo dello sviluppo culturale è disturbato dai ritardatari. Io forse vivo nel l908, ma il mio vicino nel l900 e quell'altro nel l880. Ed è una sventura per un paese quando la cultura dei suoi abitanti si distribuisce su un così lungo lasso di tempo. Il contadino di Kals vive nel secolo dodicesimo. E al seguito del corteo per il Giubileo si videro popolazioni che sarebbero apparse incivili anche al tempo delle migrazioni barbariche. Beato il paese che non ha di questi ritardatari, di questi predoni. Beata l'America! Persino nelle città vi sono tra noi degli uomini non moderni, dei ritardatari del diciottesimo secolo, che inorridiscono davanti a un quadro dalle ombre violacee solo perché loro il color viola non lo vedono ancora. A loro piace di più il fagiano su cui un cuoco abbia lavorato per giorni interi, a loro piace di più il porta-sigarette con ornamenti Rinascimento che non quello liscio. E come stanno le cose in campagna? Abiti e suppellettili appartengono completamente al secolo scorso. Il contadino non e un cristiano, è ancora un pagano.
Questi ritardatari rallentano il progresso culturale dei popoli e dell'umanità, poichè l'ornamento non soltanto è opera di delinquenti, ma è esso stesso un delitto, in quanto reca un grave danno al benessere dell'uomo, al patrimonio nazionale e quindi al suo sviluppo culturale. Quando abitano l'una accanto all'altra, due persone che hanno gli stessi bisogni, le stesse esigenze nei confronti della vita, lo stesso reddito, ma appartengono a culture diverse, possiamo osservare il processo seguente: l'uomo del secolo ventesimo si arricchisce sempre di più, mentre l'uomo del diciottesimo secolo diventa sempre più povero. Io faccio l'ipotesi che ambedue seguano le loro inclinazioni. L'uomo del ventesimo secolo può soddisfare i propri bisogni impiegando un capitale di molto inferiore e realizza in tal modo dei risparmi. La verdura secondo il suo gusto va semplicemente cotta nell’acqua e condita con un po di burro L’altro resta veramente soddisfatto soltanto se è stata cotta per ore e ore e ad essa sonostati aggiunti miele e noci. I piatti molto ornati sono anche molto costosi, mentre le stoviglie bianche, che usa l’uomo moderno, sono economiche. L’uno risparmia, l’altro fa debiti. Questo vale per intere nazioni. Guai a quel popolo che resta indietro nello sviluppo culturale! Gli Inglesi diventano sempre più ricchi e noi sempre più poveri...
E ancor più grande è poi il danno che l'ornamento arreca a quelli stessi che lo producono. Siccome l'ornamento non e più una produzione naturale della nostra civiltà, e rappresenta quindi un fenomeno di arretratezza o una manifestazione degenerativa, cosi avviene che il lavoro dell'operaio che lo fa non vien più pagato al suo giusto prezzo.
Sono note le condizioni di lavoro degli intagliatori e dei tornitori in legno, le paghe da fame delle ricamatrici e delle merlettaie. Il decoratore deve lavorare venti ore per giungere alla paga di un operaio moderno che ne lavora otto. L'ornamento, di regola, fa aumentare il costo dell'oggetto, tuttavia avviene che un oggetto ornato, realizzato con materiale dello stesso prezzo e che richiede, come si può dimostrare, un tempo di lavoro tre volte superiore, venga offerto a un prezzo che è la metà di quello di un oggetto liscio. L'assenza di ornamento ha come conseguenza un minor tempo di lavoro e un aumento del salario. L'intagliatore cinese lavora sedici ore, l'operaio americano otto. Se io pago per una scatola liscia lo stesso prezzo che pago per una ornata, la differenza si ritrova nel tempo di lavoro occorso all'operaio. E se non vi fossero più ornamenti a questo mondo -fatto che si realizzerà forse tra millenni- l'uomo dovrebbe lavorare quattro ore e non otto, dato che oggi metà del lavoro umano è perso nell'ornamento.
L'ornamento è forza di lavoro sprecata e perciò è spreco di salute. E cosi è stato sempre. Ma oggi esso significa anche spreco di materiale, e le due cose insieme significano spreco di capitale.
Dato che l'ornamento non ha più alcun rapporto organico con la nostra civiltà, esso non ne è neppur più l'espressione. L'ornamento realizzato oggigiorno non ha nessun rapporto con noi, non ha in genere nessun rapporto con gli uomini, nessun rapporto con l'ordine del mondo. Esso non è suscettibile di sviluppo. Che cosa è successo degli ornamenti di Otto Eckmann, di quelli di Van de Velde? L'artista è sempre stato pieno di forza e di salute alla testa dell'umanità. Ma il decoratore moderno è un ritardatario o un fenomeno patologico. Dopo tre anni egli stesso condanna i suoi prodotti. Per gli uomini colti essi sono insopportabili dal primo giorno, per gli altri lo divengono solo dopo anni. Ma dove sono mai oggi i lavori di Otto Eckmann? Dove saranno tra dieci anni le opere di Olbrich? L'ornamento moderno non ha predecessori né ha discendenza, non ha un passato né avrà un futuro. Uomini incolti, per i quali la grandezza del tempo nostro è un libro chiuso da sette sigilli, lo salutano con gioia al suo apparire, per sconfessarlo poi dopo breve tempo.
L'umanità oggi e più sana che mai, pochi sono i suoi malati. Questi pochi però tiranneggiano l'operaio, il quale è cosi sano che non è capace di inventare un solo ornamento. Essi lo costringono ad eseguire nei materiali più diversi gli ornamenti che loro stessi inventano.
I cambiamenti nello stile ornamentale hanno per conseguenza una rapida svalutazione del prodotto. Il tempo usato nel lavoro e il materiale impiegato sono capitali che vengono sprecati. Io ho coniato questo concetto: la forma di un oggetto resiste tanto a lungo, vale a dire che viene sopportata tanto a lungo, quanto a lungo dura fisicamente l'oggetto. E cercherò di spiegarmi: un abito muterà più frequentemente di forma che non una preziosa pelliccia. Il vestito da ballo della donna, destinato a vivere solo una notte, muterà più presto di forma che non una scrivania.
Ma guai se si dovrà cambiare scrivania altrettanto presto quanto il vestito da ballo, perché la sua forma e diventata insopportabile! In tal caso il denaro speso per quella scrivania sarebbe denaro perduto.
I decoratori ben lo sanno e i decoratori austriaci si studiano di prendere questa magagna per il suo lato migliore. Essi dicono: "Un consumatore che possiede un arredamento che già dopo dieci anni gli riesce insopportabile, e che perciò e costretto ogni dieci anni a cambiarlo, ci piace di più che non quell'altro che si compra un oggetto solo quando quello vecchio e usato fino in fondo. E’ l'industria che lo vuole. Sono milioni che entrano in movimento attraverso questi rapidi cambiamenti." Sembra che sia questo il segreto dell'economia nazionale austriaca; e quanto è frequente sentir dire, quando scoppia un incendio: "Dio sia lodato, adesso la gente avrà di nuovo qualcosa da fare". Ma allora io conosco un ottimo rimedio: si dia fuoco ad una città intera, si dia fuoco a tutto l'Impero e tutto e tutti nuoteranno nel denaro e nel benessere. Si facciano dei mobili che dopo tre anni si possono buttare nella stufa, si facciano ferramenta che dopo quattro anni si devono far fondere, perché neppure in un'asta se ne può cavare la decima parte del costo di lavoro e di materiale, ed ecco che diverremo sempre più ricchi.
La perdita non colpisce solo il consumatore, colpisce in primo luogo il produttore. Continuare a ornare gli oggetti che grazie al progresso si sono sottratti all'ornamentazione, vuol dire forza di lavoro e materiali sprecati. Se ogni oggetto potesse essere sopportato per tutto il tempo della sua durata fisica, il consumatore potrebbe pagare per esso un prezzo tale da consentire al lavoratore maggior guadagno e minore lavoro. Per un oggetto che sono sicuro di poter utilizzare appieno e consumare fino in fondo, spendo volentieri quattro volte di piu che per un oggetto scadente, sia nella forma che nel materiale impiegato. Di buon grado sborso quaranta corone per i miei stivali, sebbene io li possa avere in un altro negozio per dieci corone soltanto. Ma in quelle industrie che languono sotto la tirannia dei decoratori non costituisce un problema il fatto che alla fine il risultato sia buono oppure scadente. Quando nessuno intende pagare il lavoro secondo il suo giusto valore, È la sua qualità che ne risente per prima.
Ed è bene cosi, perché questi oggetti ornati sono sopportabili solo se eseguiti nel modo più vile. Rimango meno colpito dagli effetti di un incendio, quando vengo a sapere che sono bruciate solo cianfrusaglie senza valore. Mi posso rallegrare della festa degli artisti alla Kiinstlerhaus, perché so che essendo occorsi pochi giorni per metter su le decorazioni, tutto viene demolito in un sol giorno. Ma divertirsi a lanciare pezzi d'oro invece di ciottoli, accendere una sigaretta con una banconota, polverizzare e quindi bersi una perla, questo è antiestetico.
Un effetto decisamente antiestetico producono gli oggetti ornati quando sono stati realizzati con i migliori materiali, con la massima cura e hanno richiesto molte ore di lavoro. E’ vero che ho posto come principale esigenza la qualità del lavoro, ma va da sé che non mi riferivo agli oggetti suddetti.
L'uomo moderno, che celebra l'ornamento come espressione dell'esuberanza artistica di epoche passate, riconoscerà immediatamente l'aspetto forzato, tortuoso e malato dell'ornamento moderno. Nessun ornamento può più essere inventato oggi da chi vive al nostro livello di civiltà.
Altrimenti avviene per quegli uomini e quei popoli che non hanno ancora raggiunto questo livello.
Io qui mi rivolgo all'aristocratico, mi riferisco cioè a colui il quale si trova al vertice dell'umanità e che tuttavia dimostra la più profonda comprensione per la spinta esercitata da coloro i quali si trovano in una posizione inferiore e per le loro esigenze. Il Cafro che, seguendo un ritmo particolare, inserisce nel tessuto certi ornamenti che sono riconoscibili soltanto quando il tessuto viene disfatto, il Persiano che annoda il suo tappeto, la contadina slovacca che ricama il suo merletto, la vecchia signora che lavora all'uncinetto cose stupende con perline di vetro e seta, tutti questi hanno la sua totale comprensione. L'aristocratico li approva, egli sa bene che sono ore felici quelle del loro lavoro. Il rivoluzionario andrebbe da loro e direbbe: "Tutto questo non ha senso". Allo stesso modo com'egli trascinerebbe via la vecchina intenta davanti al crocefisso dicendole: "Dio non esiste". Un aristocratico ateo, invece, porterebbe la mano al cappello passando davanti a una chiesa.
Le mie scarpe sono tutte ricoperte di ornamenti, formati da dentelli e forellini, lavoro questo che è stato eseguito dal calzolaio e che non gli è stato pagato. Vado dal calzolaio e gli dico: "Per un paio di scarpe lei chiede trenta corone. Io gliene darò quaranta". In questo modo ho portato quest'uomo al settimo cielo ed egli mi ricambierà con un lavoro e un materiale che, quanto a bontà, non avrà rapporto con il maggior compenso. Egli è felice. E’ raro che la felicità entri nella sua casa. Egli si trova di fronte a un uomo che lo capisce, che apprezza il suo lavoro e non dubita della sua onestà. Con l'immaginazione vede già dinanzi a sé le scarpe finite. Sa dove trovare oggi il cuoio migliore, sa a quale lavorante affidare le scarpe, e le scarpe porteranno esattamente tanti dentelli e tanti punti quanti se ne trovano in una scarpa elegante. A questo punto io aggiungo: "Però pongo una condizione. La scarpa deve essere completamente liscia". Ora, dal settimo cielo l'ho precipitato nel Tartaro. Egli avrà meno lavoro, ma gli ho tolto tutta la gioia che esso gli dava.
Io predico agli aristocratici. Sono disposto a sopportare gli ornamenti persino sul mio corpo, se fanno la gioia dei miei simili. In questo caso essi fanno anche la mia gioia. Sopporto gli ornamenti dei Cafri, dei Persiani, della contadina slovacca, gli ornamenti del mio calzolaio, poiché essi non possiedono alcun altro mezzo per esprimere se stessi nel modo più elevato. Noi possediamo l'arte che ha eliminato l'ornamento. Noi ci trasciniamo nell'affanno quotidiano e ci affrettiamo per andare ad ascoltare Beethoven o ad assistere al Tristano. Cosa questa che il mio calzolaio non può fare. Se pero uno va ad ascoltare la Nona e poi si mette a fare il disegno per una tappezzeria, allora e un truffatore oppure un degenerato.
L'assenza di ornamento ha fatto raggiungere alle altre arti altezze impensate. Le sinfonie di Beethoven non avrebbero mai potuto essere composte da un uomo vestito di seta, di velluto, di merletti. Chi oggi indossa una giacca di velluto non è un artista, ma un pagliaccio o un imbianchino. Siamo diventati più fini, più sottili. Gli uomini che vivevano in branco dovevano vestirsi di vari colori per differenziarsi gli uni dagli altri; l'uomo moderno usa il suo vestito come una maschera. La sua individualità ha una forza talmente enorme che essa non può più essere espressa dagli abiti che egli indossa. L'assenza di ornamento è una prova di forza spirituale. L'uomo moderno usa ornamenti di età passate o di popoli stranieri a suo piacimento. Il proprio spirito inventivo egli lo concentra su altre cose.