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ebook di ArchigraficA

venerdì 23 settembre 2011

Lazzari, appunti sparsi ..., 5

Gaspar Van Wittel, Palazzo Cellammare (part.)



di Giacomo Ricci

scena cinque: il morto

«Ma il piede mi fa male» feci appena in tempo a dire. Il prof, a valanga, mi tappò la bocca. 
«Jack, non mi far perdere tempo. Corri. Qui tra due minuti!  Fa ‘n culo a sta ccà. ‘E subbeto. Chiù ‘e pressa possibile!».
Giuliano De Luca non mi diede il tempo di dire una parola. Una furia scatenata.  Quando diceva male parole in dialetto stretto  cose straordinarie erano accadute. La fine del mondo come minimo. Un cadavere da qualche parte, forse. Ora che stavo imparando a conoscerlo, potevo essere certo. 
«Che perfetto italiano!» osai scherzare. Poi la buttai lì: «Un morto? Dead people?».
Il gelo di un lunghissimo attimo di silenzio. 
Gesummio, my God! Avevo indovinato!
«C’è anche qualcos’altro. Cchiù liéggio, ma pure tiene l’importanza sua. Vieni più presto che puoi»  disse, voce bassa,  le ultime parole in perfetto italiano. Serio, glaciale.
Riattaccò, lasciandomi con la bocca aperta.
Guardai l’orologio della cucina. Le sei. Cazzo, un morto, pensai.    Ma uccidessero lui, il prof! Alle sei già caricato come una molla pronta a scattare, a settant’anni e passa. Io, a quarantadue, ridotto a una specie di rudere. La natura non è giusta. Fa schifo. Ma bisognava sbrigarsi. Scendere in fretta. 
“Una parola, con quest’impiastro”, pensai, guardandomi il piede. 
Non vale chiedersi che c’entravano i morti con il nostro lavoro di universitari. Lui vecchio ordinario di filosofia della “Federico II”, interprete di antiche scritture, esperto nel restauro di vecchie pergamene e manoscritti. Io, non più giovanissimo ricercatore,  antropologo, italiano e americano allo stesso tempo,   con il pallino dell’arte medievale,  mandato a Napoli dalla Italian Accademy della Columbia University,  per una ricerca sul campo, inseguendo un’idea strampalata di affinità tra i lazzari seicenteschi e la manovalanza bruta della camorra contemporanea. 
«Exotic but interesting» aveva detto il manager del dipartimento di storia della Columbia della mia idea, con un mezzo sorriso compiacente, mentre firmava il mio lasciapassare culturale per l’Italia e l’assegno di ricerca necessario alla mia sopravvivenza.
Mi era venuta in mente l’idea, che  si potesse ipotizzare l’esistenza di invarianti mentali che definirebbero i comportamenti umani, in particolari strati di popolazione, anche al di là delle contingenze storiche e geografiche. Una di quelle cazzate che gli antropologi, in vena di una qualche malcelata metafisica, s’inventano di continuo  per dare spessore a una disciplina impalpabile e sempre più inconsistente. 
Argomento rarefatto, lo ammetto. Magari una vera e propria panzana. Ma era funzionale alla mia voglia di riscoprire la città natale di mia madre, e il popolo al quale per metà appartenevo. Non da turista, ma penetrandone i meccanismi più segreti. 
De Luca mi aveva accolto nell’Università di Napoli, accettando di seguire la mia ricerca sul campo. Così mi ero trasferito, da qualche anno, nella  città dei miei nonni materni. E, per tutta una serie di scambi e interdipendenze accademiche troppo complicate da spiegare, lui, in qualche modo, era diventato il mio capo, qui a Napoli. 
Interessante averci a che fare. Ma assai pignolo, esigente, o, come dicono i Napoletani, un vero scassacazzo. 
I morti col nostro lavoro c’entravano. Più spesso che non si creda. Altrimenti mai, per nessuna ragione al mondo avrebbe preteso che, con un piede fracassato, mi precipitassi a rotta di collo da lui, in dipartimento. Dittatore sì, ma illuminato.
Come avrei fatto? 
Le stampelle, innanzitutto. Poi buona volontà.  A strafottere. Quella non mancava mai, o quasi. E poi Minichiello, la mia salvezza. Di professione portiere, ma factotum per vocazione. Proprio come i barbieri latini del Bronx. Tutte le volte che poteva si rendeva disponibile. Miniera, vulcano di soluzioni improvvisate, geniale furfante nell’arte di arrangiarsi. L’essenza del napoletano, internazionale per vocazione e genio.
Lo chiamai al cellulare.  Incrociai le dita. Speravo che avesse il telefono con sé. Rispose subito.
«Eccomi qua. Buongiorno».
«Minichie’?».
«Sì, professo’, dimmi tutto». 
«Ho bisogno di te, subito. Immediately». Mi accorsi che quel “subito” era alla De Luca. Il prof mi stava plagiando.
«Che’, professo’, s’è scassata la wash machine?».
«Minichie’ non sfottere».
Palazzo importante di Monteroduni quello dove Menico prestava servizio. Con una grande corte centrale, luminosa, scenografica che, per metà, s’affacciava nel giardino di Cellamare, uno dei più favolosi di Napoli.  Non come il mio palazzotto seicentesco, piccolo, buio, di Via Santa Teresella degli Spagnoli,  più in basso  della casa di Lenór Pimentel Fonseca, verso Sant’Anna di Palazzo. Importanza che si vedeva perché poteva disporre, quando lo voleva, di un sostituto, un secondo. 
Gli dissi che doveva accompagnarmi in Facoltà. Subito. Il tono di De Luca non ammetteva deroghe.
«E mo volessimo fa’ piglià collera ‘o professore?  Dammi cinque minuti e sono da te». 


(c) copyright Giacomo Ricci per ArchigraficA Edizioni 2011 - all over the word
Quest’opera è rilasciata sotto la licenza:
 Creative Commons Attribuzione no commerciale - no opere derivate 2.5 Italia.
Per leggere una copia della licenza si visiti il sito web:
http://www.creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/
questo prodotto è proprietà di AAE-ArchigraficA Edizioni e del suo autore ed è concesso in licenza d’uso.

Poche parole su Lazzari


Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione è dedicato a
Mario Varriale, ultimo contadino della campagna alle pendici  della collina di San Martino, a un passo dalla Certosa. 

giovedì 22 settembre 2011

Lazzari, appunti sparsi ..., 4

Domenico Gargiulo (Micco Spadaro),  La punizione dei ladri ai tempi di Masaniello



di Giacomo Ricci


scena quarta: una macchina nella notte





Mi svegliai sudato, il cuore sobbalzava nel petto. Il dolore era aumentato. Come ogni notte. Alla fine dell’effetto delle pasticche. Un fuoco maligno nella caviglia. Anche se meno accentuato persisteva, rodendo la carne. Non realizzai immediatamente di essere sveglio. 
Immagini confuse del sonno fluivano ancora nell’aria, scivolavano lentamente sugli oggetti, sulle volute delle lenzuola che giacevano spiegazzate in terra.
I gatti erano scesi dal letto e si erano sdraiati fuori, sul balcone, a cercare un debole filo d’aria.
Maledette pillole. Dilatavano e torcevano la testa. Nel sonno era come cadere, scendere giù, sprofondare all’indietro, vertigine senza fine. Questione disperata riemergere, sempre. Qualcuno mi tirava verso l’alto da quel pozzo senza fondo con un argano che strideva e un cavo che stringeva furiosamente il piede, a spezzarlo.
Ripresi fiato. 
Aveva preso a piovere. L’acqua era venuta giù, di colpo, in grande quantità. 
I gatti dal terrazzo fuggirono dentro scrollandosela dalle orecchie. 
Sete, la gola secca. 
Mi sollevai con infinite precauzioni e zoppicando raggiunsi la cucina. Mentre l’acqua scorreva nel lavello, mi sembrò di udire, nel frastuono della pioggia, voci soffocate, nascoste, gemiti trattenuti. 
Prestai attenzione. Salivano da sotto, dalla vanella.
Passai nel bagno senza accendere la luce. La finestra della ragazza era proprio sotto il finestrino del mio bagno. La luce era accesa ma, da quella posizione, non era possibile vedere all’interno. Avrei dovuto, contemporaneamente, essere dall’altra parte della casa, nell’ingresso. La vanella faceva, però, da cassa acustica e, in condizioni normali, si udiva proprio tutto. 
Ora la pioggia con il suo rumore copriva ogni suono.
La sua voce e un’altra di uomo, decisa, roca, che scandiva volutamente le sillabe con lenta cattiveria.  Non riuscivo a decifrare il significato delle parole che pronunciavano in fretta. 
Si mescolavano in un brontolio diffuso, sordo, monotono come il rumore di un motore appena acceso. Ogni tanto la sua voce si alzava di tono quasi a diventare acuta.
«Non posso ... non ancora ...» mi sembrò che dicesse. 
Restai in ascolto. Un’inquietudine mi aveva assalito senza alcuna ragione. Un rumore secco, improvviso, uno schiaffo o una porta chiusa con impeto. 
Poi la pioggia aumentò di violenza. 
Nient’altro.
Forse dormivo, sognavo, rincoglionito dal dolore e dai sedativi. E, poi, le loro storie di miseria, miscugli di urla, percosse e bestemmie. Perché meravigliarmene proprio ora?
Ero venuto per studiarli, non per farmi coinvolgere dalle loro passioni. Cavie. Non erano niente di più per un antropologo in vena di scoperte come me.
Trascinando il piede tornai nella stanza da letto. Diedi uno sguardo all’orologio. Le tre. 
Notte ancora lunga da passare. 
Ma il caldo almeno si era in parte disciolto nella pioggia che continuava a cadere fitta.
Udii, prima di riaddormentarmi, una macchina allontanarsi nella notte sgommando con rabbia.


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 Creative Commons Attribuzione no commerciale - no opere derivate 2.5 Italia.
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Lazzari, appunti sparsi ..., 3

Proseguo? Se no vi scoccia proseguo. Fatemi sapere ,,,

(ho parlato di Masaniello. Per il  momento anticipiamo una sua immagine)
Onofrio Palumbo, Ritratto di Masaniello

di Giacomo Ricci

Macché, non ha smesso di farmi male».

«Ma il dolore è più tollerabile?». La voce di Rosetta dall’altra parte del telefono appariva preoccupata. 
«Ma perché» aggiunse «una buona volta, non ti decidi a venirtene qua, io potrei …».
«No! No e basta. Che cosa ci farei in quel paesino sperduto? Dovrei stare a guardarti sistemare l’orto, le galline, i cani, i gatti. Magari imparare a fare torte e crostate e mettermi a impastare pastarelle, pastecresciute e sufflì dalla mattina alla sera? Scendere una continuazione di casa per farti commissioni in giro. Ogni mattina alle sei la corriera, avanti e indietro da Napoli ...».
«E perché no? Non ci vedo nulla di strano …».
«No! Tu sei capace di barcamenarti tra la tua laurea  appesa al muro, un quadretto dell’Immacolata e una ricetta di Frate Indovino. L’hai ridotta a una moppeen per pulire in cucina. Io voglio che i miei studi mi servano qui, in città, tra la gente. Ci sono venuto apposta. Ho abbandonato le comodità della Columbia University. Mi piace ‘a folla ‘e Napule.  Miezo ‘a folla sto bbuono!».
Il mio accento napoletano era penoso. Non mi liberavo del brooklynese imparato da giovane per le vie  di Manhattan e Little Italy.  Questo la faceva incazzare ancora di più. 
La discussione si gelò, come sempre accadeva quando parlavamo delle nostre scelte di vita. 
Le distanze diventavano enormi, di colpo. Se ne stette zitta per alcuni secondi. Avrebbe riattaccato. Lo fece.  La solita  dichiarazione. Bisognava vedere quanto sarebbe durata. 
Posai nero il telefono. Se ne stesse confinata ai margini del mondo, se le faceva piacere. A farsi fottere lei,  la terra, la campagna e tutto il resto. 
Ma senza di me. Non ero venuto fin qui dall’America in vacanza. Dovevo capire chi ero, a quale cultura appartenevo. I cani bastardi sono più intelligenti di quelli di razza. Gli umani non lo so. Certo sono più irrequieti. Smaneano. 

Per fortuna le pillole cominciavano a fare il loro effetto. Tirai un respiro di sollievo.  La ganascia stretta al collo del piede si trasformava in un sordo cordone di stoffa che si allentava a poco alla volta. Gli occhi si chiudevano a forza. Ma c’era ancora Arturo da sistemare. Non potevo lasciarlo fuori, sui tetti. Faceva più caldo e il cielo appesantiva densi neri cumuli di nuvole basse. Si sarebbe messo a piovere, come ogni notte.
Guendalina se ne stava già sdraiata ai piedi del letto, sprofondata con la testa all’insù e le zampe anteriori distese. 
Coraggio. Mi afferrai al bastone. Il mio chiodo al pavimento. Un’impresa quella che mi aspettava.
Il percorso era lungo. L’ingresso era nel lato opposto della casa che si sviluppava tutta in lunghezza. Tante stanze l’una dentro all’altra secondo il classico modello barocco napoletano.
L’ostacolo più grande era il dislivello a metà strada tra lo studio e la cucina, superato da una piccola scaletta interna. L’avevo trovata addirittura bella, con i suoi gradini di piperno lisciato, quando avevo affittato l’appartamento qualche mese prima. Fin quando non c’ero caduto. Va fongool.  Afoonah into ‘a merd. Mi sta bene. Accussì me mparo. 
Ma Arturo, il mio gatto nero, meritava lo sforzo.

Bella. Capelli e occhi neri, lucidi, pelle bruna e il corpo agile e nervoso. Great ass. Non me n’ero mai accorto. Occhiate distratte per le scale, quando capitava. Saluti in fretta. Poi sempre inghiottito dalla solita fretta, quella che, come una molla tesa dentro, m’impediva di seguire la vita più da vicino, accorgermi del suo scorrere.
Dovevo, insomma, ringraziare Arturo e il dolore al piede che mi aveva costretto a sedere sul piperno della finestra d’ingresso. E, nel buio che mi avvolgeva, senza rendermene conto avevo guardato fuori. Gli occhi mi si chiudevano per pasticche e sonno ma, nell’oscurità della notte, la finestra illuminata di fronte, anche se distante, aveva attirato la mia attenzione. 
L’avevo vista. Osservavo la schiena nuda, mentre, seduta sul pizzo del letto, si rivestiva con lentezza. L’uomo le era passato accanto e, dopo averle strusciato lentamente la mano sulla spalla, aveva posato il denaro sul comò, uscendo dal campo visivo della finestra. Lei si era alzata per seguirlo. Lui l’avevo riconosciuto per la testa  rasa. Lo chiamavano ‘o Capaliscia. A perfectly skinhead. Manovale del pizzo di quartiere. Capo dei fuochisti.
La luce si era spenta lasciandomi nel buio dell’ingresso con Arturo che aveva poggiato la testa sul mio ginocchio. Se la lasciava carezzare e faceva le fusa.



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Lazzari, appunti sparsi per la ..., 2

Un vicolo di Napoli, stretto e affogato come una vanella

di Giacomo Ricci

scena 02: la vanella


Nella debole luce del bagno la pasta uscita dal tubetto brillava sulle setole dello spazzolino. Il rumore, su e giù per i denti. L’ipnosi che ogni movimento ritmico del corpo mi procurava quando ero stanco. Poi gli antinfiammatori.  Su di me avevano un effetto narcotico. 

Sputai. Centrai il buco del lavandino. Sciacquai la bocca, miscuglio tra un sughero e una spugna. Sputai di nuovo.
Da basso, buio pesto della vanella,  saliva lento odore acre di sfritto di cipolla. Rumore di sciacquone.
Avevo imparato che, in quel posto, non c’era orario per le funzioni corporali. A Napoli, le cose non vanno come si aspetta uno come me, venuto in questa città dagli States per studiare, approfondire, lavorare all’Università. Non vanno per un napoletano, figurarsi per un bastardo come me. Non vanno e basta.
Non c’era che fare: cucinavano e andavano al cesso a tutte le ore, anche a notte più fonda, secondo ritmi di strane giornate. Totale anarchia del corpo.

Brutto giorno per me. Il piede mi aveva fatto un male da cani. La caviglia stretta in una morsa attraversata da fitte lancinanti. Pulsava come per scoppiare.
Da non credersi. Una semplice caduta in cucina. Quei maledetti gradini. Dolore da morire, da spezzare il fiato. Va fongool all the people.
Dall’ospedale mi avevano dimesso nonostante le mie vivaci proteste. Normale, avevano detto. Dopo il pronto soccorso, via, senza alcuna possibilità di replica. Il letto era per la folla di disperati in lista d’attesa. Neanche una frattura la mia. Semplice distorsione. Feroce per il dolore. Riposo, tranquillanti e sedativi, questa la cura. 
Si poteva fare a casa. 
Ma che pretendevo da una frontiera come il Pellegrini? A getto continuo, moribondi, feriti gravi, sparati, accoltellati, in coma, abbuffati di fetenzie e rrobba da schiattare che schizzava dalle vene squartate, nozzolute, incartapecorite. 
Per qualsiasi altra cosa c’era l’ambulatorio nei giorni stabiliti. Via, fuori dalle palle.  Il medico di turno era stato inflessibile. L’infermiere con ferma gentilezza mi aveva messo fuori dalla porta dell’infermeria. Quickly. As a kick in the ass. 
Così mi ero trovato per la strada, in equilibrio su un piede solo, nel casino della Pignasecca ad aspettare un taxi. 
Strano ospedale, il Pellegrini. Una bella chiesa pensata da uno dei figli di Vanvitelli, inserita all’interno di un palazzaccio meno che mediocre, lurido e malandato, rimaneggiato negli anni della peggiore speculazione postlaurina, in un quartiere ancor più lurido e popolare dove il mercato, i feriti, gli studenti e i viaggiatori si mescolavano, fondendosi come in una brodaglia. Un quartiere che era un vero e proprio suq di discendenza medievale. Nello sporco inenarrabile, aggravato adesso dalla spazzatura che si accumulava ai lati delle strade in cataste sempre più  alte, però, operavano i medici più bravi della città. Come in Afghanistan, sotto gli attacchi dei talebani, in guerra. I terroristi qui erano gli scippatori, selvaggia e brutale progenie della terra, e i fuochisti impazziti della camorra in vena di esecuzioni sommarie in pubblico come quella di Petru, umile suonatore ambulante di fisarmonica, ucciso, per puro caso, qualche tempo addietro. Così, per sbaglio, fai fuori un uomo. Echettenefott. No whako or foolish man. No, solo per gioco. Only a game. Per sbariamiento.
La storia del dolore durava da poco meno di due giorni. In verità, col sole si assopiva. Ma di notte, passata una certa ora, l’inferno. Guai a non mandar giù le pillole per sprofondare in quel nero baratro che sarebbe dovuto somigliare al sonno.
Rimpiangevo di non poter bere un bicchiere di vino. Vietato, aveva detto il medico mentre firmava l’uscita; avrei ottenuto l’effetto contrario. Attacchi di panico, stato di agitazione senza fine.

Ingurgitai tutto. Sopra l’acqua del lavandino. Aveva un sapore diverso da quella della cucina. Molle e profumata, da vomito.
Mi trascinai fuori del bagno con il piede in fiamme. 
Urla improvvise dalla vanella. Succedeva spesso. 
Come fiammate fulminee dalla terra. Lì, in basso, nelle infime propaggini del palazzo c’era, nascosto da qualche parte, un vulcano spalancato, pronto a esplodere. Giù, nel fondo pesto del nero pozzo, qualcuno imprecava, gridava, gonfio di rabbia. Rumore di vetri rotti. Era normale. In quel posto, almeno. 
Nella stanza da letto tutti i rumori provenienti dal sottosuolo, aspirati verso l’alto dal tiraggio di quel sordido buco, si avvolgevano nell’ovatta, sparivano e ciò che ne rimaneva era coperto da quelli del vicolo.  E poi le pillole avrebbero fatto il resto.
Spensi la luce e mi chiusi la porta alle spalle. 
Night guaglio’.


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Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione, 1

Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro), La rivoluzione di Masaniello

di Giacomo Ricci

Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione, è il mio nuovo romanzo, noir napoletano, della serie di "Pietre di Fuoco". I personaggi sono gli stess, Giuliano de Luca e gli altri, alle prese con un nuovo mistero da svelare. Un mistero che affonda verso la metà del Seicento, qualche giorno dopo domenica 7 luglio 1647, quando scoppiarono i moti di ribellione guidati da Masaniello. Quando cominciò la sua "pazzia" ...
Giuliano De Luca mette le mani nella storia e risolve il mistero, individuando colpevoli di quel tempo e di oggi.
Il racconto sarà pubblicato per brevi scene. Buona lettura.





scena 01: per cominciare, un morto

L’avvocato Geppino Silenti stava aspettando ormai da più di cinque minuti. «Sarò subito da lei» aveva detto la donna al cellulare. Si era avviato per la terrazza. Bella la vista da quel posto. Tutto il golfo illuminato. E di fronte l’isola di Nisida con il lungo pontile, le barche attraccate, i lampioni che gettavano  luce gialla che si rifletteva sulle onde. Una notte calma, tranquilla. Una dolce brezza sfilava dal boschetto alle spalle. 
Era da solo. Aspettare gli dava sempre un po’ fastidio, anche se il posto meritava. La signora con la quale aveva appuntamento era in leggerissimo ritardo. Lei aveva chiesto un posto appartato, in un orario fuori mano. Che li vedessero assieme era pericoloso, aveva detto. 
«Io voglio aiutarla. La faccenda mi sta a cuore, ma non ci voglio rimettere di persona» aveva aggiunto con un filo di voce.
«Nessuno dice questo. Nè lo pretenderei da chi mi sta dando una mano» aveva risposto Silenti, con il suo fare un po’ galante, di gentiluomo all’antica.
La faccenda era complicata. Scoprire chi stava soffiando in giro notizie, per così dire, “delicate” faceva parte dei suoi compiti. Tessere tele e trappole. Un ragno al lavoro. Questo amava dire di sé.
Purché la signora si sbrigasse, però. In giro non c’era anima viva.  Il posto era bello. Ma, in quell’ora notturna,  aveva un che di inquietante. La parete di tufo a precipizio sugli scogli, il lontano rumore del mare, le grandi grotte ai piedi della montagna, l’isola solitaria, le luci tremule. Da quel punto s’erano suicidate molte persone, negli anni passati. 
Un rumore di lato. Era lei. Eccola si avvicinava. Alla fine ci avrebbe capito qualcosa se quella donna si fosse decisa a raccontare come effettivamente stavano i fatti. 
La donna si avvicinò e con un sorriso gli tese la mano. La tese anche lui ma un bagliore improvviso in basso gli fece ritirare indietro istintivamente il braccio. 
Si rese conto di quello che stava accadendo solo un istante dopo che l’aria venne smossa dalla lama in movimento. Il primo colpo gli arrivò violento e silenzioso proprio all’altezza dello stomaco come un pugno. Il dolore acuto e improvviso lo fece piegare quasi in due. Portò istintivamente entrambe le mani all’altezza della ferita. Ma il coltello rapido lo colpì al fianco dove le braccia avevano lasciato libero un varco. 
Silenti tentò di spostare la mano dallo stomaco al fianco sinistro ma il pugnale lo colpì di nuovo violento e preciso sul lato destro all’altezza del fegato. Il dolore lo fece barcollare e lo sguardo si annebbiò. Dalla bocca non gli uscì neanche un rantolo. 
Il respirò gli morì in gola. Gli occhiali caddero in terra. Il cappello scivolò di lato sul prato. 
Un colpo da dietro, sferrato da una mano più decisa e potente, più violento gli penetrò all’altezza della spalla destra.
Un groppo di pensieri si affollava nella mente senza sciogliersi abbastanza. Non c’era tempo, … il tempo era giunto al termine. Lo capisci quando sei a un passo dalla fine,  gli avevano detto coloro che avevano scampato la morte per un pelo con i quali aveva avuto spesso a che fare. Sì, pensò rapidissimo, era proprio così. 
«Ci sono caduto come un pivello. Dopo tanti anni finire come uno scemo in un agguato banale, ma che strunzo …» riuscì ancora a pensare Geppino, mentre sentiva le forze venirgli meno e le gambe cedere sotto il peso del corpo massiccio. Il senso di rammarico per la leggerezza compiuta fu anche più forte del disappunto di andarsene all’altro mondo senza sapere chi lo stava facendo fuori.  Poi i pensieri gli si annebbiarono mentre considerava che, in fondo, abbandonare questa valle di lacrime era meno spaventevole che viverci. Affafottere tutti. Finalmente se li levava dalle palle. Un moto di stizza inghiottito da un pozzo nero e profondo …
Da quel momento fu colpito ripetutamente, rapidamente,  con precisione. Con ritmica freddezza le due lame si abbassavano sul corpo che ormai si accasciava a terra. Al primo ferro si era unito l’altro che, da dietro,  aveva preso a colpirlo ripetutamente più forte e con maggiore  precisione. 
Alla fine il corpo stette in terra immobile. Una delle due figure urtò la sua massa con la punta del piede scuotendolo.  Non si muoveva. Era finito. Due  ombre vestite in nero,  indistinte nell’oscurità della notte, lo sollevarono prendendolo per le gambe e le braccia.  Lo sistemarono nel bagagliaio dell’auto, nascosta dietro i cespugli. 
Poi uno dei due estrasse da un lungo fodero una lama più lunga e spessa e l’infilò nel torace di Silenti,  proprio all’altezza del cuore. Un solo colpo netto deciso, in pieno petto, tra una costola e l’altra. 
Pulì meticolosamente la lama. L’infilò nuovamente nel fodero. La ripose. 
Chiuse il portello posteriore. Poi salirono in auto e si allontanarono silenziosamente nella notte. 



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sabato 17 settembre 2011

Fuoco ai Quartieri Spagnoli

un bel libro di Attilio Belli

di Giacomo Ricci

Ho finito di leggere da poco meno di mezz’ora Fuoco ai quartieri spagnoli di Attilio Belli. Il libro mi ha preso. E, da stamattina, l’ho lasciato solo quando l’ho finito. Non è solo perché conosco, da anni,  l’autore, professore della Facoltà di Architettura di Napoli e perché l’atmosfera del libro è quella della nostra vita da giovani. Ma anche perché il libro ti prende. Per la storia che procede spedita, per la simpatia umana del suo protagonista,  Giacomo, detto Comò dagli amici francesi di Parigi. Un ulteriore motivo di simpatia, inutile sottolinearlo, è perché anch’io mi chiamo Giacomo. Ma questa è solo una coincidenza.
Giacomo  ha vissuto per un quarto di secolo nella capitale francese, pur essendo napoletano, per sfuggire a un destino quasi inevitabile di galera e persecuzione politica, anche se, pur avendo fatto parte dei NAP (Nuclei Armati Proletari), non si è mai macchiato di nessun delitto.
Perché proprio questo è il nodo della storia. Comò, a prima vista e per la sua storia vissuta, ha tutte le caratteristiche per essere un terrorista predestinato. Ma, a leggere bene il suo cuore, è troppo tenero e sognatore per credere che la morte degli innocenti possa mai servire a una causa politica. La morte degli innocenti snobilita qualsiasi causa. La violenza alla quale Comò,  pure pensa, è solo simbolica.
Lui vorrebbe incendiare un monumento simbolo della storia di Napoli, magari della sua schiavitù, della sua subalternità, senza che nessun umano ne debba soffrire. Un incendio astratto, per così dire.
E per questo viene anche preso in giro dai personaggi che gli stanno al contorno che, al contrario, nella violenza ci credono e come, l’invocano e vorrebbero che lui, con la sua esperienza e la sua storia li conducesse per la strada della vendetta, della “gloria rivoluzionaria”.
Da quando Comò si stabilisce a Napoli è un continuo bussare alla sua porta (in senso metaforico ma anche fisico) di gente che gli chiede di abbracciare la sua causa. Comò l’incendiario così, vede ‘o Capitano, boss di quartiere, che gli chiede di unirsi alla sua, per la verità  poco nobile,  causa per far fuori concorrenti di altri clan camorristici o “clienti” riottosi di adattarsi e pagare il pizzo;  Abbas, iraniano che vuole conquistarlo alla causa del fondamentalismo terrorista arabo, o l’ingegnere Ermenegildo S. che, in un suo allucinato piano di ristrutturazione dell’intera città di Napoli, non esita a prevedere di far appiccare i fuochi a interi settori strategici della città, per poi accaparrarsene la ricostruzione, una sorta di Nerone redivivo. E non mancano, alla fila fuori alla porta di Comò,  i centri sociali di periferia che vogliono reclutarne la competenza per azioni dimostrative contro mutui in rialzo e governi locali traditori o, alla fine, perfino  club di ultras della squadra del Napoli che vogliono far appiccare una serie di piccoli incendi controllati per  accentrare l’attenzione sulla loro rabbia e la loro voglia di protagonismo.
Tra tutti si muove Sara, ragazza magra, bruna, con capelli a caschetto e seni piccoli, intabbarrata in jeans scoloriti al punto giusto, casaccone verde-militare da marine e reboot all’ultimo grido. Sara gli gira attorno, fa all’amore con lui, compare, scompare, intriga, traffica, smaniosa com’è di arrivare nella vita, di far soldi e conquistare potere e ricchezza.
Tra tutti loro il buon Comò si muove senza mai essere del tutto convinto. Ma perché Comò, tornato per segnare in maniera forte la storia della sua città, resiste, non si fa convincere da nessuno? Perché Comò tutt’è tranne che un terrorista. Il fuoco, il suo significato miracolosamente purificatore e la sua ambiguità che lo fanno oscillare tra simbolo del paradiso ed emblema dell’inferno, gli viene da un autore che lui ama più di ogni altra cosa, anche della stessa politica e dell’ideologia. E’ da Gaston Bachelard, il grande vecchio, che Comò è affascinato, alla lettera. Il suo modo di leggere il sogno, l’immaginazione e la produzione d’immagini, il senso del fantasticare letteralmente tengono incatenata la sua anima.
E Comò è un poeta, anche se non lo sa ancora. Non ne è convinto e fino alla fine non se ne renderà conto. I due libri che più lo hanno rapito che l’epistemologo francese  ha scritto,  sono  La poétique de la rêverie e La psychanalyse du feu. Il secondo lo si capisce subito, ha un valore importante per l’animo di Comò perché il fuoco diventa l’obbiettivo – stavo per dire la persecuzione – di cui Comò riempie la sua vita residua.
La rêverie è, invece, la vera sostanza di Comò, sognatore, poeta, che ama fantasticare anche se con un leggero senso di colpa che gli viene dall’ideologia e dall’attivismo movimentista.
Perché poi l’impressione che si ha è proprio questa: che la vita di Comò sia un residuo, un resto, un rifiuto proprio come quelli che invadono la città in ogni suo angolo.
Comò vive quella disperata solitudine che solo gli artisti sperimentano e conoscono bene. E la loro vita è prenderne consapevolezza e abituarsi a vivere in solitudine, imparando a soffrirne in maniera, vorrei dire, “controllata”, come un’esplosione. Se questa  avviene tutt’insieme,  porta alla dissoluzione e al disastro dell’Io. Ma che se è fatta per gradi, per l’appunto in maniera controllata, può diventare sopportabile, forse anche creativa e permettere che nella stolida consistenza del mondo concreto e delle sue insopportabili leggi di potere,  messe in piedi per controllare gli uomini e impadronirsi delle loro anime, si aprano delle crepe attraverso le quali passi anche qualche attimo di serena felicità.
E’ quella serena felicità che Comò e Sara potrebbero cogliere e gustare ma che non riescono neanche a distinguerla a tratti,  perché la loro coazione ad essere gli impedisce di esistere nell’istante, nell’ “intuizione dell’istante”, proprio come scrive il grande vecchio Bachelard.
Bella la descrizione della foto di Bachelard, con la luce che viene da sinistra, la faccia per metà in ombra e il cappello. Quella che ha segnato tutti i libri tradotti in italiano e pubblicati da Dedalo, con la copertina gialla e il bordo azzurro.
Lungo la storia ne succedono di cose, come l’esplosione in Via san Mattia (dove sono nato) e molti isolati vanno a fuoco. Ma la responsabilità, e tiriamo un respiro di sollievo,  non è di Comò, non c’è da preoccuparsi. Comò è immacolato, perduto tra le immagini che gli girano nella fantasia, i suoi conati poetici di cui non si rende conto e la voglia di vedere la sua  città, maledetta, condannata a un destino inevitabile e nero, trasformarsi in una città normale.
Ma devo dire che il finale Attilio Belli lo lascia indeterminato. Perché la cagnetta che Sara ha regalato a Comò, sente la puzza di benzina con la quale il suo padrone ha deciso di farla finita e raspa dietro la porta.
Vuoi vedere che lui, in quelle unghie che grattano e lo vogliono in qualche modo tirar fuori, salvarlo da quel destino triste e rinunciatario, riesca a vedere quella purezza di sentimenti e quella dedizione di cui solo un cane sa essere espressione in questo mondo di umani di merda,  dilaniato da conflitti stupidi e inessenziali che ci circonda?
Io spero di sì. Per lui e per noi.
Un libro che si legge tutto d’un fiato, quello  di Belli, tenero, denso di citazioni, quelle care agli architetti della mia generazione che all’ombra di Foucault, Bachelard, del maggio francese e delle riunioni nelle Facoltà di Architettura hanno vissuto e si sono formati.
Un libro che, non fosse altro che per queste utlime considerazioni, tutti gli architetti napoletani dovrebbero leggere.
Una chicca finale. Lo studente di cui parla Belli, quello che sbaglia la pronunzia dei Grundrisse, traducendola all’inglese Grundraiss, era un mio collega di corso.  Si chiamava Pino. L’episodio è vero perché è successo con me presente. E il poverino venne smerdato da un professore, Aldo,  pubblicamente tra le risate di tutti. Ma capirete che per ovvi motivi di privacy non posso fare il cognome né dell’uno, né dell’altro.
Ma, vi assicuro che,  a pensarci oggi a tanti anni di distanza, ancora mi viene da ridere. Ma, come dire?, era gioco forza. Noi andavamo a botta di citazioni. E a 18 anni quante cose puoi aver imparato?
Grazie Attilio. 

giovedì 15 settembre 2011

Parola scritta, artificio, emozioni, pensieri

di Giacomo Ricci














"Ho impiegato anni a cercare di sbloccarmi, a rimuovere ostacoli, a cercare di creare una trasmissione chiara fra il passato e la mia penna. Allora, come oggi, scrivevo pagine e pagine di semplici note; parole, frasi, paragrafi, biografie di personaggi, tutto per il momento slegato.  C'era molto materiale, ma era piuttosto caotico. Ci voleva ordine, ma troppo ordine, troppo presto, poteva essere più pericoloso del caos. Non volevo soffocare la mia immaginazione  proprio mentre stava esplodendo, anche se la cosa mi faceva sentire instabile. 
Un controllo ferreo fa sì che niente di interessante si verifichi. In qualche modo devi mettere insieme tutti i pezzi del tuo rompicapo senza sapere se combaceranno. Il disegno o l'immagine complessiva è qualcosa che devi scoprire più tardi. Devi crederci, anche quando la sola base per credere è la vaga intuizione che una storia completa alla fine emergerà."
Hanif Kureishi, Da dove vengono le storie?

Un pezzo che spiega l'enorme complessità e l'indecisione che accompagnano l'esperienza di crescita di uno scrittore e la costruzione di una storia. Appunti, pagine e pagine, frammenti slegati. Lo sforzo poi, alla fine, è mettere tutto insieme in un complesso coerente e stabile o dotato di una certa instabilità "controllata". 
L'instabilità "controllata" è quella che permette la definizione di crepe e varchi attraverso i quali il lettore si possa infilare e procedere con la sua immaginazione.
Straordinaria collaborazione-complicità che si stabilisce tra due persone lontane e sole. Perché l'esperienza di lettura è altrettanto sola e individuale che quella della scrittura. Sono due menti che si trasmettono pensieri, sensazioni. Ma non esiste sensazione più falsa di quella scritta. Perché è l'estratto ragionato, soppesato, calibrato, artefatto al massimo di quella che era un tempo una sensazione. 
Artificiale e naturale si fondono in un tutto indistinto e pluriconnesso dal quale è assolutamente difficile, se non impossibile, estrarre, distillare la sensorialità immediata della prima esperienza. Ciò che ne resta è un sublime artificio che, per fare in fretta, chiamiamo arte, ma che è molto difficile da definire.
Eppure sta là. Quando due individui,  mondi lontani comunicano in questo modo avviene una specie di prodigio. Da una rarefazione intellettuale e scritta con segni stabiliti per convenzione astratta e rarefatta si distilla un'emozione che si trasforma in pensiero. 
E l'immaginazione si mette in moto. E non la puoi fermare.
Straordinario. 

mercoledì 14 settembre 2011

Da dove vengono le storie?

Consigli ai giovani scrittori
un libro  di Hanif Kureishi

              Hanif Kureishi

di Giacomo Ricci

Ogni tanto mi capita tra le mani e, ogni volta, è una scoperta. 
Mi riferisco a un piccolissimo libretto di Hanif Kureishi, dal titolo Da dove vengono le storie?. Un titolo che affascina e invita subito alla lettura, che si fa in tempo rapidissimo. 
Una discussione scritta con parole molto semplici che va diritto alla radice del problema e non manca di una sua certa commozione. 
La storia è presto detta. Partendo dall’esperienza del padre, pakistano emigrato in Inghilterra e scrittore in nuce, Kureishi sa andare al fondo della questione “perché scrivere” in maniera immediata, essenziale, esemplare. 
Innanzitutto il padre e la sua volontà di essere scrittore. “Mio padre - esordisce Kureishi - voleva essere uno scrittore. Non ricordo ci sia stato un tempo in cui non lo abbia voluto. C’erano poche mattine in cui non si mettesse seduto alla sua scrivania - presto, circa alla sei - con indosso uno dei suoi abiti, i polsini chiusi da gemelli, prima di andar al lavoro con la sua valigia insieme agli altri pendolari”. 
Inutile dire che lo fa per tutta la vita, sempre frustrato, vedendo i manoscritti dei suoi romanzi rifiutati dagli editori, e sempre di più accanito nel tentativo di scrivere, con i suoi rituali obbligati e ripetitivi. 
Agli occhi del figlio, che lo guarda con amore e tenerezza, la sua ostinazione, la sua ossessione, assume un che di eroico e patetico allo stesso tempo. Ma è anche un motivo per interrogarsi sulla scrittura e i suoi paradossi, sul perchè, sul come, sul quando e con quali mezzi si diventa scrittori. E, soprattutto, da dove vengano le storie.
Il punto più delicato della storia del padre è che, forse, era lui stesso a non credere nelle sue possibilità creative e qui, con forte probabilità, c’è la ragione del suo insuccesso. Perchè il problema capitale è quello di “convincere te stesso”, perchè “è solo quando ti darai completamente al tuo lavoro che riuscirai ad andare da qualche parte”. 
Ma la questione fondamentale, la domanda a questo punto è: “Come si arriva a quel punto?”. E come si superano i paradossi di una condizione, quella dello scrittore, che deve essere sufficientemente determinato ad andare avanti e a credere nelle sue possibilità,   stando attenti a non sbagliare? Uno scrittore non si può permettere di sbagliare perchè ogni fallimento “ti rende ancora più debole”. “Ma se non sbagli non arrivi da nessuna parte”. 
Il paradosso è tutto nel fatto che “devi sentirti libero di scrivere male, ma ci vuole fiducia per capire che in un certo senso la cattiva scrittura può garantire la buona scrittura, che la quantità può portare alla qualità”. 
Partendo da questa contraddittoria situazione di dubbio Kureishi si muove per capire le ragioni, il complesso di frustrazioni, le motivazioni che spingono un individuo alla scrittura. 
Sono le cose più semplici che ti circondano, quelle che lui definisce la “periferia” che costituiscono il background della scrittura. E’ da questo territorio che parte l’esperienza della scrittura e la determinazione a scavare, a indagare. Dove? Dove dissodare sentimenti e pulsioni? Partendo da se stessi, dal proprio inconscio, area pericolosa e turbolenta dove iniziano le nostre pulsioni e i nostri sentimenti. Il che provoca sofferenza.
“Se gli artisti soffrono non è solo perchè il loro lavoro comporta sacrificio e dedizione, E’ perchè viene chiesto loro di avere uno stretto contatto con l’inconscio, E l’inconscio, bruciante di desiderio com’è, è ingovernabile”.
Le pulsioni ingovernabili e represse si nascondono all’interno di ognuno di noi. Lo scrittore deve tentare di conoscerle e governarle.  Il che significa anche sperimentare un buon metodo che permetta di scrivere, sulla pagina bianca, il flusso magmatico che viene dal profondo. 
Scrivere è un modo per capire e sopportare la solitudine. E credere che quello che stai facendo sia utile a te e agli altri. E' solo se ci credi che gli altri ti prenderanno sul serio. “Ad alcuni scrittori piace immaginare che la difficoltà nel diventare scrittori stia nel convincere gli altri che è questo quello che sei. Ma in realtà il problema è convincere te stesso”. 
Kureishi insomma scava tra le pieghe della fantasia e dei dubbi che assalgono chi scrive e, leggendo le sue parole, proviamo un profondissimo senso di identificazione e di comunanza di problemi e domande. Ma la contropartita a questo mondo tormentato di dubbi, ripensamenti e contraddizioni, è affascinante perchè la scrittura “è un modo attivo di prendere possesso del mondo”. Il senso è di sentirsi onnipotente al posto di recitare il ruolo di vittima. 
Ma perchè questo miracolo accada e si acquisti consapevolezza del proprio ruolo e del proprio significato c’è bisogno di comprendere che scrivere significa mettere in luce la vita “come qualcosa di cui vale la pena parlare”. 
E conclude con un’affermazione che mi sta particolarmente a cuore perchè è una sorta di risposta alla letteratura d’accatto che oggi trionfa.
“E’ per questo che la letteratura da aeroporto o i libri ‘blockbuster’, che sono puro intreccio e basta, non possono mai essere considerati letteratura, ed è per questo che, alla fine dei conti, valgono poco. Non è solo che la lingua in cui sono scritti manchi di vivacità e acutezza, ma il fatto è che non restituiscono al lettore la varietà e la complicazione dell’esistenza”. 
Parole incredibilmente adatte a descrivere la realtà della maggior parte dei libri in circolazione e che ci costringe a chiederci il perchè. Si trattasse di un piano per non farci più pensare e soffocarci con choc, effetti speciali e vuoto intellettuale? Che ci volessero neutralizzare, azzerare la nostra mente?
Ah, a proposito, che ne è del padre di Hanif Kureishi? Non diventa scrittore. Anzi, combattuto dal successo del figlio proprio nel campo in cui avrebbe voluto emergere, un po' ne è felice e un po' è pieno di rammarico per se stesso. 
Ma io credo che lui, come padre, dovrebbe andare fiero. E' riuscito pienamente nel suo compito. Ha mostrato al figlio qual è l'errore più grande che uno scrittore può compiere e, cioè, non avere fiducia in se stesso e non permettersi di mandare  a quel paese qualsiasi altra occupazione. Perché è indispensabile fare questo. Per essere scrittori non lo si può essere part time. Ma in una cosa ha avuto successo. Come padre il suo esempio educativo è stato perfetto. Un grande padre di cui il figlio conserva un ricordo indimenticabile e una stima grande, come padre non solo ma anche, e soprattutto, come sperimentatore, scrittore che non demorde mai dal suo obiettivo. 
C'è di che imparare.