di Giacomo Ricci
Parlando del lavoro di Mario Scippa L’Antiquario e il professore, ho fatto cenno al tema del libro inteso come insieme di frammenti. Un tema che ne presuppone un altro, quello dell’assenza della trama o di una sua presenza debole.
E più che parlare di una assenza della trama - ché questa è sempre presente anche nei cosiddetti flussi di coscienza se per trama si intende tessitura di idee e di pensieri - bisognerebbe parlare di un’assenza dell’intreccio o di una sua presenza debole. O, se si vuole, un intreccio che, seppur presente, non è eccessivamente e rigorosamente vincolato alle categorie aristoteliche di unitarietà di tempo, di luogo e di azione. Com’è noto pur facendone risalire l’autorevolezza al pensiero di Aristotele, l’invenzione, per così dire, di questi concetti alla base della definizione del rigore della messa in scena teatrale si devono all’umanesimo del Cinquecento e, soprattutto, alla traduzione in latino della Poetica di Aristotele (1536). Si tratta di veri e propri canoni che vennero utilizzati sia per distinguere il teatro nella sua forma più alta della tragedia da quella della commedia, sia come regole cui attenersi nella compilazione di nuove opere. Goldoni, per esempio, si attiene rigorosamente a queste regole.
Le stesse regole, in buona sostanza, sono alla base dell’unitarietà compositivo-ideativa del romanzo ottocentesco nelle sue forme più alte - sto pensando a Fedor Dostoewskij, a Robert Stevenson - ma anche in quelle di maggiore consumo come, per esempio, Alexandre Dumas e a diffusione popolare. Il romanzo d’appendice non avrebbe senso senza queste regole.
E, chiedendo scusa per questo rapido incipit semipalloso che mi serve solo per stabilire alcuni punti di partenza del mio intervento, vengo subito al dunque.
E si tratta di una lamentazione, conseguente ad uno stato di profonda difficoltà nel quale vedo dibattersi molti, troppi che si piccano di leggere, capire di letteratura e che, in maniera disinvolta, decisamente troppo disinvolta, emettono giudizi, formulano stroncature, esprimono pareri.
E dispiace soprattutto perché questi pareri, a dir poco scellerati e pronunciati con una mancanza di consapevolezza che ha del disarmante, sono - e non poteva essere diversamente - pronunciati da giovani, giovanissimi lettori.
Perché ho detto non poteva essere diversamente? Perché li vedo, loro malgrado, totalmente vittime di un sistema culturale diffuso aberrante e cinicamente orientato alla disinformazione e a diffondere una cultura di basso, bassissimo profilo.
Un vero e proprio progetto di rincoglionimento progressivo e totale delle nuove generazioni, che fa il pari, insomma, con schifezze come Il grande fratello, L’isola dei famosi e porcherie varie.
Un solo esempio servirà a chiarire quello che intendo dire.
Da anobii (www.anobii.it), social network basato sulla lettura, lo scambio di libri e, soprattutto, di esperienze di lettura, leggo, inorridendo, a proposito de Le città invisibili di Italo Calvino quanto segue che riporto alla lettera: “Un libro di sola forma, senza dei reali contenuti”.
Risparmio qualsiasi commento in merito. Mi serve solo per capire l’equivoco nel quale la giovane lettrice che, leggo avere 21 anni e che, a quanto deduco dalle sue letture e da quello che dice, è una studentessa universitaria, certamente napoletana, forse della Facoltà di Architettura, è adagiata senza averne alcuna colpevolezza. La responsabilità del suo stato è da attribuire totalmente alla scuola, come se tutto quello che le hanno detto a proposito di cultura, di letteratura, di classici, di sperimentazione linguistica, di avanguardie, di cultura le sia scivolato addosso senza colpo ferire. Quando di queste cose si parlava in aula (se mai l’hanno fatto) lei certamente era altrove o, forse, non capiva la lingua, era incapace di ascoltare, di riflettere sulle parole.
Trattare uno scrittore come Calvino come fosse un vuoto sperimentatore di grafo-fonemi, senza comprendere la complessità culturale dalla quale la sua letteratura proviene, senza, ne sono certo, aver letto quella splendida raccolta di riflessioni Perchè leggere i classici, che le sarebbe servita per capire che cos’è la letteratura, senza avere idea delle Lezioni americane, senza aver approfondito il saggio Letteratura e cibernetica, senza capire le provenienze di quello sperimentalismo, senza saperne cogliere l’ironia, lo scherzo colto, senza vederne le filiazioni con un Raymond Russel o un Queneau, un Robbe Grillet, insomma senza essere addentro a tutti i temi della cultura degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, perdendosi in una arcaica contrapposizione forma-contenuto, significa non avere alcuna consapevolezza del tormento culturale della nostra epoca, delle elecubrazioni sottili che partendo da James Joyce giungono fino al Nostro, per l’appunto e al sua sottilissima vena di stampo metafisico-surrealista. Ha letto la nostra stroncatrice in erba Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzat0? Anche qui siamo in presenza di un vuoto formalismo?
Ma è inutile parlare. La ragazza è fuori. Segue Harry Potter, segue le trame, le storielle e confonde la tecnica rozza da telefilm con la letteratura colta.
E chi glielo spiega oggi e la convince che sta fuori, con il cervello, con la cultura e che con la letteratura, poverina lei, non ha alcun contatto? E’ un mondo, un universo che sta da un’altra parte?
I problema è, come ho detto, scolastico, mancando in lei come in tanti altri suoi coetanei, i fondamenti che da quella scuola devono generarsi nell’adolescente che apprende. La questione sostanziale che Wittgenstein pone a chiusura del Tractatus logico philosophicus è semplice e capitale della sua stringatezza, ma nessuno oggi mostra di capirla: “Ciò di cui non si sa si deve tacere”.
Tacete dunque!
Tacete dunque!
Purtroppo molti non sanno ma parlano lo stesso. Tipico atteggiamento arrogante dell'incolto, quello dal quale si possono generare aberrazioni storiche da paura. Alla base di ogni totalitarismo, di ogni despota c'è sempre un atteggiamento simile. Non a caso se la prendono sempre con i libri "degenerati". Magari li bruciano.
Va loro a spiegare chi è Wittgenstein e quale il suo significato nella cultura europea della prima metà del Novecento.
E torniamo al tema da cui sono partito, l’intreccio debole. Il problema è grande e vistoso perché tutta, dico tutta la produzione diffusa a livello popolare et similia (penso ai telefilm, alle telenovelas, alla letteratura di genere, noir, gialli, fantascienza, per non parlare dei film d'azione di scarsa qualità) è basata su un’iperstrutturazione dell’intreccio, cosparso di effettacci, che soffoca tutte le altre ragioni dello scrivere e, tra tutte, quella di stimolazione della riflessione, di acuirsi del pensiero. Anzi le azzera. Il divertimento, quello rozzo da caserma, da trivio, non vuole pensieri, non vuole seccature. Pensare è una seccatura, procura seccature. Al contrario, per divertirsi ci vuole adrenalina. Questo l'imperativo, questa la regola. Sensazioni forti e subito. Tutto il resto non serve.
La confusione tra cervello, pensiero e sistema neurovegetativo è forte e costante. Sarò brutale perché costoro non capiscono che il linguaggio da trivio. Dire che la letteratura di Calvino e, in particolare, Le città invisibili, sia un testo inesistente, un vuoto formalismo è, in soldoni, come fare confusione tra il sottile male dell'anima, un tormento cerebrale, una quasi ineffabile e straziante solitudine dello spirito e il dolore a un callo. L'una, ragazzi, è male oscuro, dell'anima poetica, tormento sulla vita e il suo significato, l'altro si cura con un analgesico, un callifugo Ciccarelli o, se proprio uno non ce la fa più, andando dal callista. Capita la differenza, ora? Ci arrivate neolettori, parvenues della letteratura, degustatori di fumettacci d'effetti e telenovelas con Bono nella parte di attor giovane o di squallidi filmini erotici per cinemini di periferia con un Alvaro Vitali nel ruolo di cattedratico pluridecorato in barzellette da caserma?
La confusione tra cervello, pensiero e sistema neurovegetativo è forte e costante. Sarò brutale perché costoro non capiscono che il linguaggio da trivio. Dire che la letteratura di Calvino e, in particolare, Le città invisibili, sia un testo inesistente, un vuoto formalismo è, in soldoni, come fare confusione tra il sottile male dell'anima, un tormento cerebrale, una quasi ineffabile e straziante solitudine dello spirito e il dolore a un callo. L'una, ragazzi, è male oscuro, dell'anima poetica, tormento sulla vita e il suo significato, l'altro si cura con un analgesico, un callifugo Ciccarelli o, se proprio uno non ce la fa più, andando dal callista. Capita la differenza, ora? Ci arrivate neolettori, parvenues della letteratura, degustatori di fumettacci d'effetti e telenovelas con Bono nella parte di attor giovane o di squallidi filmini erotici per cinemini di periferia con un Alvaro Vitali nel ruolo di cattedratico pluridecorato in barzellette da caserma?
E agli utenti sprovveduti, vittime del consumismo e della volgarità sottoculturale imperante, sembra che questa forma dell’ipervalutazione dell’intreccio con l’annichilimento di tutto il resto, sia la sola forma di letteratura. La sola che si può consumare in fretta, senza troppi problemi. Leggi, via, letto, passa appresso. Ti dovessi sforzare a soffermarti? Ti dovesse far male pensare?
Detto in soldoni, la storiella raccontata diventa il fulcro dell’attenzione e non si fa più caso alla letteratura, a tutto il resto. Anzi se la storiella non è ipertorzuta, con effettacci e colpi di scena - penso proprio a Henry Potter che ha letteralmente massacrato le nostre coscienze e la nostra fantasia - non ne vale la pena parlarne, perché non si capisce che la letteratura è altro.
Detto in soldoni, la storiella raccontata diventa il fulcro dell’attenzione e non si fa più caso alla letteratura, a tutto il resto. Anzi se la storiella non è ipertorzuta, con effettacci e colpi di scena - penso proprio a Henry Potter che ha letteralmente massacrato le nostre coscienze e la nostra fantasia - non ne vale la pena parlarne, perché non si capisce che la letteratura è altro.
Ah Manzoni che hai fatto! Verrebbe di dire scimmiottando Totò, quando blatera a proposito di certa gente del Sud “A Garibaldi che hai fatto!” riferendosi, ovviamente, all’Unità d’Italia e ponendone seriamente in discussione il senso e il valore.
Inutile dire che del capolavoro manzoniano, che avrebbe dovuto dare sostanza e spessore alla nostra cultura nazionale e consapevolezza delle potenzialità della lingua e della costruzione letteraria, resta che “Renzo è uno scemo e Manzoni lo sapeva”, anche questo "fiore" tratto dal su citato anobii.
L’ironia incredibile del lavoro manzoniano, la capacità di entrare nella psicologia delle caratterizzazioni, la capacità di trattare la lingua in quel modo, tutta lettera morta. E chi se ne fotte! I capolavori imposti, in particolare dalla scuola, si trasformano presto in oppressioni e, subito dopo, in cadaveri in decomposizione. Luoghi comuni odiati per una vita intera. Con buona pace di tutte le buone intenzioni dei nostri educatori.
Oggi si vive per l’effetto e tutta la ricerca intellettuale intorno alla parola, al suo senso, alla sperimentazione la si dice inesistente semplicemente perché non si hanno i mezzi culturali per capirla.
Allora la strategia di un libro fatto di foglie, di significati, di monadi, di frammenti, mi sembra un’idea di grande potenza. Indebolire volutamente e potentemente la prepotenza dell’intreccio a vantaggio della sperimentazione letteraria come trasmissione di concetti ed emozioni al fine di combattere queste aberrazione della contemporanea e totale disinformazione contemporanea. Disinformazione nel senso letterale, non-formazione. Costoro parlano troppo perché semplicemente sono grezzi utilizzatori di un complesso raffinato e sottile che si chiama letteratura. Ma non lo sanno.
Come nelle parole della Bibbia: non diamo le perle ai porci.