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ebook di ArchigraficA

sabato 20 agosto 2011

Benigni e la poesia

inserimento di Giacomo Ricci


Un riferimento d'obbligo a chi si vorrebbe occupare di poesia e letteratura: la straordinaria lezione di Roberto Benigni sulla poesia nel film La tigre e la neve.


Comico, poetico, surreale. Non c'è differenza. Qualche volta mi è capitato di fare una lezione, non dico come questa che non ne sarei mai stato capace, ma che, alla fine, ha strappato l'applauso dall'uditorio, perché, cercando di dire cose serie, l'avevo divertito. E' stata una delle  sensazioni più belle che abbia provato in vita mia. E mi sono detto che il  mestiere di professore è bellissimo. Che ne è valsa la pena farlo. 
Peccato che oggi se ne stia andando a carte quarantotto. Ma questa è un'altra storia, decisamente fuori dalla poesia e dalla letteratura. 
E' la merda quotidiana delle Università italiane contemporanee. 
Non se ne dirà mai male abbastanza. Passate la voce.

venerdì 19 agosto 2011

Tecniche e vocaboli - uno

di Giacomo Ricci





Una prima idea. Come non bisogna sprofondarsi in un’accorato pseudo monologo che spieghi al mondo la propria “angoscia”, della quale, è certo, nessuno se ne fotte più di tanto (il cosiddetto flusso di coscienza di joyciana memoria), così è disdicevole mettersi a scrivere senza alcuna idea sul perchè lo si stia facendo. O, meglio, se lo si sta facendo soltanto perché suggestionati dal successo del tal scrittore di grido e dal desiderio di diventare famosi e ricavare secchiate di danaro dalla scrittura., mbè è meglio soprassedere e fare altro. Andare a fare una passeggiata, fare giardinaggio, riempire di coccole il proprio gatto oppure prepararsi un buon pranzetto, attività più utili e, soprattutto, innocue.
Perchè bisogna partire dall’idea che la scrittura è un potente mezzo, educativo, o di rottura di palle. 
Dicevo che è importante leggere. Sì. Ma non è cosa che si può fare in mezzo pomeriggio. 
Leggere come crescita lenta, come una pianta che si sviluppa e diventa bellissima. 
Leggere è curare la propria anima. Ammesso che si sappia di averla. 
E quindi la prima cosa da fare, a mio parere, è prendere consapevolezza della propria. 
Dove sta? Che vuole? Di che si nutre? 
Domande nient’affatto peregrine. 
Suggerivo la rilettura e la riflessione sui Promessi sposi. Ad esempio avete mai fatto caso alla sottile ma evidentissima vena ironica di Manzoni? Al suo modo di presentarci Don Abbondio?
A scuola ci hanno rotto le palle con la descrizione iniziale, il lago, il resegone, il paesaggio, la scrittura come pittura, ecc. Poco interessante a parte gli arrovellamenti scolastici del prof di turno, o degli estensori delle note a calce.
A proposito delle note a calce io le abolirei tutte. Non solo non spiegano una mazza, ma distraggono, fanno perdere il filo della narrazione. E sono le note che a me andavano letteralmente in fronte nelle mie letture scolastiche dei Promessi o della Commedia.  E poi, è lo stesso Manzoni che, come se l'avesse saputo, ci mette in guardia contro i libri commentati. Quando nel preambolo parla del manoscritto ritrovato e dell'idea di commentarlo, avendo la precisa sensazione che le note al testo si dispongono come un vero e proprio libro che si affianca al principale,  scrive: " ... Abbiam messo da parte il pensiero [di scrivere un libro di spiegazione al manoscritto originale, nota mia]  per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile di un altro, potrebbe parere cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo". 
Come a dire: affanculo a tutta le generale tendenza italiota dal 1840 in poi che ci ha rotto le palle sui banchi di scuola con le note, le interpretazioni di un branco di pedanti, puntigliosi, meschini "critici", incapaci di scrivere come Manzoni, e che si sono messi a commentarlo, facendosi grandi sulle sue spalle. Grande il nostro Alessandro, non c'è che dire. E come se avesse già chiaro in mente la sorte alla quale il suo bel romanzo era destinato. 
Lui magari voleva che lo leggessimo proprio come leggeremmo Blade Runner di Phil Dick. Di getto, come un giallo. E si da da fare a costruire una suspense. Vi immaginate Do androids dream of electric sheep? commentato con note  che spiegano il senso delle metafore o s'interrogano sui conflitti di coscienza che si mescolano nella testa degli androidi ribelli o le visioni della città del futuro e così via? Cestineremmo il libro subito. 

Interessante invece, a parere mio soffermarsi su Don Abbondio. 
Come ve lo figurate fisicamente? Se doveste fare un film a chi ne affidereste la parte?
Chi sarebbe capace di interpretare bene i suoi tratti, di vigliacco, codardo?
Quali aggettivi usa Manzoni per metterlo a fuoco? Quanti ne usa?
O piuttosto non descrive alcuni suoi moti interiori, il suo stato d'animo con altri mezzi, rifuggendo dagli aggettivi?
Quante metafore e quante figure retoriche ci sono nella sua presentazione al lettore?
E Perpetua? Che ha passato i quaranta e dice di non aver trovato partito mentre tutte le amiche dicono che nessuno se l'è sentita di imbarcarsela? Quale la migliore attrice per questo ruolo? Che ne dite di una Pupella Maggio?
E il dialogo tra i due?
E il sonno del curato?
E le riflessioni sul risveglio e l’amarezza che si prova quando si ha una brutta gatta da pelare nella giornata?
E la strategia scaltra e cialtrona che usa con Renzo? E l’uso furbesco del latino che il povero contadino non capisce?
E un vero pezzetto di merda in nostro Don Abbondio, non c'è che dire. Servile e codardo, diventa spavaldo con chi non è alla sua altezza. Approfitta del suo vantaggio senza alcun pudore.  
Nessuno mi leva da testa una certa somiglianza con il Fantozzi più codardo e cialtrone che ha inventato Paolo Villaggio. Verme nella vita ma  despota e dittatore tra le quattro mura di casa con quelle due anime perse della moglie e della figlia. 
Io credo che un attore straordinario nella parte di Don Abbondio sarebbe proprio Paolo Villaggio. 
Bravo Manzoni a descrivere, con pochi tratti, la vigliaccheria e la furbizia frodaiola di chi ha paura e non vuole mai affrontare la realtà e il pericolo. 
Quali parole sono, secondo voi, le più indicate nella caratterizzazione di questi sentimenti dell’animo di Don Abbondio?
Fatene un elenco. 
Sapete trovare dei sinonimi?
Consideratelo un esercizio. Non si quanto utile. Potrebbe servire per mettervi in presa diretta con il testo. Questo dipende solo da voi e da come lo fate. 

Scrittori minori

Un interessante intervento di Dario Oliviero
segnalato da Claudio Cajati


Oliviero. blogoautore: A ciascuno il suo (link all'articolo di "Repubblica").


"Come certi sentieri o strade secondarie che sembrano non portare da nessuna parte e invece finiscono sempre dove non volevamo andare ma avevamo bisogno di trovarci, così è per la letteratura. Salvatore Ferlita ha messo insieme una guida di questi sentieri poco battuti, un’antologia di scrittori siciliani per forza di cose chiamati minori, dimenticati, eppure un tempo letti, pubblicati e approdati quasi sempre in prestigiose collane di case editrici nazionali. Le arance non raccolte l’ha intitolata, un’espressione che racchiude tutta l’inevitabile malinconia delle cose lasciate in balia del tempo.
Vi si trovano le donne di Livia De Stefani fatte precipitare nel buio della colpa, il disarmato Gesù Cristo di Antonio Russello che si arrende a una terra troppo dura anche per lui, le solfatare pianeti cavi di Nino Di Maria, il comunismo speranza ultima del più rassegnato quarto stato del mondo di Angelo Petyx, le righe mistiche di Angelina Lanza. Poi Umberto Domina, Mino Blunda, Sebastiano Addamo, Eugenio Vittarelli e tanti altri. Tutti siciliani ma non per questo provinciali se può bastare, se non questa antologia, il giudizio che di molti di loro diedero a loro tempo Sciascia e Vittorini.
La Sicilia in questo ha di grande, anche quando tratta di minori, che ha sempre la vocazione di usare se stessa come metro del mondo, perché in poche parti del mondo le cose si mostrano con tale evidente violenza. E molto raramente si ha bisogno per far fronte a questo di un tale grado di speculazione. Al punto che per descrivere il mondo visto dalla Sicilia serve sempre un velo da stendere sulla realtà, una metafora, un insieme di metafore e quindi la letteratura. Che poi non si parli di letteratura attuale è tutto tranne che un difetto. Quante volte si ha occasione di essere di questi tempi così generosamente inattuali?"

giovedì 18 agosto 2011

Perché no?

di Giacomo Ricci


Ci pensavo da molto tempo. Quelle impressioni che sai e non sai, capisci e non capisci. Che ti vengono da qualche piega della parte nascosta della nostra persona e che premono, un po' timidamente, per venire alla luce. 
Una voce mi diceva: "Ma perché no? Perché non rileggere, dopo tanti anni I promessi sposi?".
Pensiero orribile, direte. Che può venire solo nella canicola affogata e nauseante di pieno agosto. Questo sta dando i numeri? Ricci, ma vaffanculo!
Forse. Ma forse non c'è solo un forte cupio dissolvi  in un  pensiero simile dovuto alla calura esagerata. C'è anche qualcosa che ha senso. 
Proprio nel merito  della discussione che stiamo qui tenendo. Letteratura si o no, cultura si o no. I promessi sposi è un romanzo maledetto. Non per sua volontà, ma perché costretto nelle pieghe insopportabili, asfittiche e deliranti  della cultura scolastica. Perché lettura d'obbligo. Perché ognuno di noi, come con la Commedia di Dante, ci ha dovuto fare i conti per costrizione. 
E ognuno di noi, giovane, è ribelle. In particolare ai polpettoni indigesti di una certa letteratura. 
Quanti di voi, mentre il vostro insegnante di Lettere leggeva le peripezie di Renzo, pensava ad altro e malediva questo secchione di Manzoni che non aveva trovato altro da fare che rompere le palle a centinaia, migliaia di giovani dopo di lui, in voglia di far altro?
Eppure - lo dice anche Eco - si tratta di un'opera letteraria formidabile. 
Lo si capisce, ahimè, da adulti, quando si ha voglia di misurarsi con la letteratura, di capirne la ragione, di accoglierne le motivazioni profonde dentro di noi. 
Il consiglio è allora: chiunque stia per accingersi a scrivere l'ennesimo noir, triller, giallo, fantascienza pensi un attimo prima di avviare il word processor. Non è il caso che si costringa a leggere - consiglio una prima seduta di almeno un'oretta - il classico manzoniano, con l'ottica del lettore disposto e non dell'allievo scalcinante, in piena tempesta ormonale che se ne fotte della lingua italiana, della nazione Italia, della letteratura e dei potenti "affreschi storici"?
Pensateci. Non perdete quest'ultima occasione per leggere un libro veramente potente e istruttivo. La scuola parte sempre da buone intenzioni, ma semina, con le sue metodologie, tempesta, noia, disastri culturali. Insomma distrugge, peggio dei Lanzichenecchi, tutto quello che tocca, imbastardisce le coscienze, mummifica la freschezza degli antichi capolavori. 
Così il povero Manzoni è una vittima istituzionale del sistema educativo Italia. 
E non lo merita. Anzi. 
Vuoi vedere che impariamo a scrivere meglio, a pensare prima di mettere la penna sulla carta, a non inseguire effettacci ma a costruire pensieri coerenti? Vuoi vedere che tutta la paccottiglia in circolazione di cui abbiamo parlato migliorerebbe?
Ne avremmo bisogno tutti in quest'agosto infuocato e scellerato di politica da quattro soldi ed economia allo sbando. Quello di recuperare il senso complessivo di una nazione in vendita. 

mercoledì 17 agosto 2011

Tra Kafka e King



di Giacomo Ricci




Va molto di moda scrivere gialli, triller, noir. Assistiamo a una vera iperproduzione che intasa case editrici, librerie e web. E c’è da aspettarsi un fiorire di queste attività nell’immediato futuro. Se gli ebook esplodono - come sembra ormai certo da alcuni segnali - ci sarà una massa enorme di roba scritta - non mi viene termine migliore - che premerà dappertutto per raggiungere ogni luogo. Con l’effetto di “appilare” i canali già esilissimi di collegamento tra gli autori e i lettori. 
Il problema vero non è la loro proliferazione, ma il fatto che la maggior parte della produzione è di infimo profilo letterario. 
Uno dei primi punti da mettere a fuoco e da chiarire è che il noir (o giallo, o triller, ecc.) in sè e per sè non dice nulla sul piano letterario, della letteratura colta intendo. Non fa che avvalorare ancor più quell’ipotesi riduttiva che la letteratura di genere sia una specie di area di sperimentazione per schifezze che strizzano l’occhio a un pubblico di ignoranti, incapaci di discernere tra il bello e il brutto. Un sottoprodotto, insomma per sottoprodotti umani ( e oggi ce ne sono tanti).
Le premesse che quest’opinione si tramuti in una certezza ci sono tutte. 
L’ipotesi di Claudio Cajati , della costruzione di un Manualetto di poetiche della narrativa è, dunque, quanto mai opportuna. Si presta a una discussione importante. 
In questa direzione una mia prima semplice osservazione, basata sull’impressione - sempre più persistente - che la “poetica” di fondo delle narrazioni di cui ho detto sia quella del telefilm, quello medio-basso, di ampio consumo, quello che riempie gli spazi vuoti dei palinsesti, basato su un linguaggio scarno e stereotipato, su un entroterra culturale equivalente al totale deserto (di idee, di tensioni, di poetiche, di allusioni, di linguaggi, di simboli, di ipotesi, di filosofie). Anzi idee e disegno dei sentimenti sono volutamente frettolosi, appena accennati,  in modo da dare l’idea vaga che esista  uno “spessore umano” nelle caratterizzazioni che, di fatto, è assolutamente inesistente. Questa tecnica del telefilm si basa solo sull’effettaccio (una testa che vola, un corpo dissanguato, una tibia fuori posto, un efferato assassino che non si sa perchè lo fa, un dissezionatore di cadaveri che colleziona parti del corpo, pelli, dita, occhi, ossa ecc.) e sulla totale assenza di riflessioni, di pensieri intendo. Insomma la sostituzione del sistema nervoso centrale, del cervello che elabora idee, con quello neurovegetativo che trasmette solo choc, impulsi, sensazioni. Trasformare la nostra raffinata attività cerebrale umana in quella  inespressiva, anaffettiva, a-morale, automatica degli insetti. Alla complessità del gesto umano, frutto di una sottile elaborazione cerebrale filtrata da riflessioni, idee, pensieri, emozioni, sentimenti  (sto pensando a Feodor Dostoewskij che credo nessuno degli attuali neoscrittori si sia dato da fare a leggere) viene sostituito il meccanismo di azione-reazione tipico degli insetti e delle macchine cibernetiche (a questo si riduce tutta l’attuale produzione fantascientifica da Alien in giù, fatto salvo Blade Runner tratto da un romanzo di Phil  Dick che pone esattamente il problema speculare con affascinante  riflessione sul significato ultimo dell’umano e del suo essere al mondo).
Lo choc, la tecnica dello choc è propinata come  “valore”, diventa il “valore” e tenta di trasformarsi in “valore di mercato”, soldi, guadagni, fama, ecc. Tutta qui (e mi pare pochino) la complessità, si fa per dire, della produzione “letteraria di genere” contemporanea. Non mi fate fare nomi. Sono sotto gli occhi di tutti. 
I cattivi maestri di questa tecnologia letteraria, di questa meccanica pseudoautomatica di produzione del testo (perdonate ma non mi viene altro termine pensando anche al proliferare inaudito di scuolette e doposcuola che "insegnano" la scrittura "creativa") potrebbero essere individuati in scrittori di fama (penso a Stephen King) in cineasti di gran grido (penso a Quentin Tarantino) o a scrittori di più basso profilo ma che hanno avuto una grande fortuna editoriale come Giorgio Faletti. Non me ne voglia Faletti ma il suo Io uccido è per me un vero e proprio mistero editoriale. Un boom che non mi spiego e che sta sotto gli occhi di tutti. Ma mi chiedo,  perchè?
Bene, dietro il loro “mettere in scena”, in estrema sintesi,  non c’è nulla, fatta salva, forse, la produzione di Stephen King che è uno che maneggia molto bene le paure che ognuno di noi ha nascosto nell’inconscio da sempre. 
E' inutile obiettare che anche Poe manipolava pezzi di inconscio. Poe è uno dei più grandi scrittori all'alba del moderno. Ce lo dice uno che di letteratura qualcosa capiva come Baudelaire. I suoi incubi metropolitani e metafisici equivalgono ad altrettante domande sull'animo umano, le sue passioni e i suoi limiti.  E scusate se è poco. 
E allora? 
C’è da uscire fuori da quest’equivoco. Lo choc (la tecnica dello choc) può al più essere un mezzo ma mai un fine. Sto pensando a Franz Kafka. Esiste uno choc più forte dell’inizio della Metamorfosi? "Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo". 12 parole e qualche preposizione ed ecco spiattellato un incubo, con un linguaggio piatto e banale come la nota della spesa. Un incipit tra i più efficaci che abbia mai letto che apre il lettore a una dilaniante metafisica  dell'horror e introduce una lacerazione esistenziale senza fine. Le scuolette di cui sopra non insisterebbero mai abbastanza sulla potenza di questa letteratura che usa l'effetto, l'insetto immondo, per introdurre uno dei più angosciosi interrogativi sull'uomo moderno, le sue paure, la sua miseria, il suo arrovellamento esistenziale, l'anima malata ecc.  E su questa inopinata  trasformazione dell’uomo mediocre  in “grande insetto” si sono rotti il cranio e la fantasia innumerevoli i critici da pressappoco 80 anni a questa parte. Quella trasformazione è un simbolo? Ha valore metaforico? E’ una associazione involontaria di idee di sapore psicoanalitico? Metafora, allusione, allegoria? E’ un gioco per ridere? Esisterebbe un Kaflka comico, come lui dice di se stesso? Ogni interpretazione va bene ma sembra troppo stretta. Il contenuto kafkiano bedorda, s'allarga, esce fuori  (e di gran lunga) dai limiti interpretativi troppo angusti. Sappiamo che c'è sempre dell'altro.
Mistero. E questo ne aumenta enormemente il fascino. Il discorso è ancora tutto aperto. 
E lì  si spalanca,  sotto i nostri occhi,  l’abisso metafisico della nostra vita di uomini moderni, portandoci al di là del tempo.  E gli anelli, in qualche modo, anche se da lontano, si congiungono. Gli immortali-immobili di Borghes danno la mano agli insetti di Kafka. 
Cosa devono fare gli scrittori privi di idee (mi verrebbe di dire privi di metafisica, che non sanno il significato esatto di questa parola) e alla ricerca disperata di choc efficaci? Cioè cosa devono fare per recuperare un senso al loro lavoro che non sia solo quello dell’invenzione dell’ennesimo choc fine a se stesso che non dice nulla e annoia il lettore avveduto?
Secondo me devono cominciare a leggere. Molto, tantissimo. Poi, alla fine, dopo una valanga di letture e di riflessioni, dopo aver digerito letteratura fino alla nausea,  dopo essersi riempiti la testa di domande che trovano risposta solo fino a un certo punto, possono tentare di scrivere una sola parola sulla carta, per iniziare una nuova vita "creativa". E fare di tutto perchè quella parola non sia “FINE”, della loro storia di scrittori, intendo. Che sarebbe, se vera, cosa buona e giusta liberando tutti noi, che amiamo la buona letteratura,  da un'inutile zavorra, da una paccottiglia insulsa e fastidiosa.
Buon Lavoro a tutti.  Sinceramente.

Un'idea: Manualetto di poetiche della narrativa




di Claudio Cajati








Caro Jack,
mi è venuta questa idea: il dialogo di letteratura che hai messo sul blog, potrebbe essere esteso a un vero e proprio
MANUALETTO DI POETICHE DELLA NARRATIVA.
Io avrei, e anche tu, sono sicuro, molte cose basilari da dire. Cose che nascono dalla nostra pratica e dalla nostra tensione a migliorarci.
Mettere a fuoco i fondamentali per una o più poetiche del narrare, coscienti della forza della tradizione, e determinati a sputtanare le scorciatoie sciatte e patetiche in auge oggi.
Che ne dici?

Ciao
C l a u d i o



lunedì 15 agosto 2011

Continuare a scrivere


Non so se ho perfettamente ragione.

Io e te, e chi scrive seriamente, abbiamo le nostre ragioni. Le ragioni narrative, che non sono una pazziella 'n man'e criature.
Dietro questa pseudo-narrativa che il sistema editoriale ci propina con arrogante e spudorata invasività c'è certamente un progetto: abbassare a dismisura il livello dell'offerta per incontrare il livello bassissimo della domanda. Ed è già un picco. Le grandi valli degli italiani sono sovraffollate di gente che non legge neppure 1, dico 1, libro all'anno! Nemmeno un libro di Lansdale!
Ma ci pensa certa televisione a incretinirli ulteriormente. Avere un popolo di deficienti distratti e impegnati a consumare-digerire-defecare cavolate, è certamente un obiettivo che il potere contemporaneo sta pervicacemente perseguendo.
E con molto successo, purtroppo. Il Grande Fratello e L'isola dei Famosi costituiscono due esempi significativi di questa Operazione Spappola Cervelli.
Qual è il gusto, allora, di continuare a scrivere con religioso rispetto per la narrativa?
Mi sono ricordato di un'intervista a Moravia. Il giornalista, che voleva essere incisivamente insidioso, gli chiede se lui pensa all'eternità per i suoi scritti. Moravia ha una piccola pausa. Poi, secco, lo frega: "Per me l'eternità è quando scrivo".
Beccati questa!
(Oggi, anche questo è un sintomo allucinante della condizione catastrofica che viviamo: senti tu parlare di Moravia, uno scrittore, un giornalista, un intellettuale che ha illuminato l'epoca che ha attraversato? Basti pensare ad Agostino e Il conformista, tanto per fare solo due fra gli esempi possibili, per riconoscere la grandezza di un'arte del narrare che si è persa.
E non parlo qui, per brevità, di quel gigante che fu Flaiano.)

Allora, niente dubbi, Giacomo.
Continuiamo a scrivere. Per farlo sempre meglio.
A presto
Un abbraccio
C l a u d i o

Letteratura o cumulo di banalità?

di Claudio Cajati e Giacomo Ricci





Caro Claudio,

ti spiego subito. Stamattina, presto, mi sono fatto convincere da una recensione sul web a comprare questo libro che ti allego.
Non voglio dirti niente. Ho letto l'inizio. Quello che mi lascia perplesso non è il tema, la moda del momento, i triller, gli pseudo-fantascienza e così via.
Che i giovani abbiano un loro mondo va bene. In questo probabilmente - anzi certamente - siamo troppo vecchi per entrare in rotta di collisione senza colpo ferire.
Ma, cavolo,  qual è il loro stile? Quale la loro letteratura? Quale la loro lingua? Che immaginario si mette in moto dietro le loro figure retoriche?  Leggi, per piacere le metafore di cui quest'incipit abbonda. Sono rimasto particolarmente colpito da quei proiettili "che sbattono il muso sul tamburo come cinghiali affamati". Oppure, due righi prima  la smania che cresce "come un boa ubriaco dentro lo stomaco", oppure il vagone diventa "un microcosmo senza eroi". Oppure  "il cervello schedulato alle 9.15 per iniziare la sua attività".
Ma che succede? Io sto fuori. Noi stiamo fuori. Ma si è perso definitivamente l'uso della ragione?
Ma che hanno letto questi signori prima di mettersi a scrivere? Non dico Manzoni, non dico Pirandello. Ma almeno hanno letto bene Pippo Pluto e Paperino?
Hanno letto Salgari, Dumas, Stevenson? Hanno letto Dostoewskij?
Oppure siamo noi che non ci accordiamo con il tempo presente?
Ma siamo impazziti, tutti?
Che fine ha fatto lo scrivere, la letteratura, la poesia? Il gusto della lingua, l'uso parsimonioso di metafore, metonimie, figure retoriche in genere e avverbi e aggettivi?
Ma che diavolo sta succedendo?
Perdona lo sfogo ma mi sento perduto.

Giacomo

Caro Claudio, 

Scusa l’impeto e gli errori di battuta della mail di prima. Ma di questa cosa (della follia della lingua, soprattutto delle immagini retoriche e delle descrizioni) avevo già fatto esperienza tempo fa con un tal (perdonami ma pure se è famosissimo per me rimane un tale qualunque rispetto a un Rilke o un Kafka) Joe R. Lansdale. 
In copertina di questo libro di cui ti parlo  c’è un’immagine di un primo piano di una testa rasata vista dall’alto e campeggia il titolo Il lato oscuro dell’anima
In alto, al posto dell’autore, c’è quest’estratto di Valerio Evangelisti, presumo critico del giornale  “l'Unità” che scrive: “Con Joe R. Lansdale si ha la sensazione di vivere un’esperienza anche nostra, repulsiva e affascinante, guidati dalla penna dura e potente di uno scrittore di razza”.
Ti accingi alla lettura e ti aspetti minimo le raffinatezze di un noir alla Hitchkock, suspence, arrovellamenti alla Mario Bava (che era veramente bravo, ho rivisto Terrore dallo spazio un film di fantascienza degli anni ’60 niente male, con tutti i limiti del tempo e della tecnologia di allora, con colpo di scena finale ben studiato, interessante, che fa pensare) e invece trovo un linguaggio piatto banale, basato soprattutto su un ritmo sincopato da punti troppo ravvicinati, righi infinitesimi, che ti sbatte in faccia senza alcuna riflessione, senza alcun gusto della ricerca linguistica abbondanza di metafore del tipo di cui ti ho detto nella mail di prima. Ti trascrivo una perla di questa letteratura, una descrizione del “dio del rasoio”(un nome che è tutto un programma). Ascolta.

“Il Dio del rasoio era alto, nero (non negro ma nero), con occhi di luce stellare infranta e denti come trentadue argentee spille da cravatta lucenti . Portava un cappello a cilindro che come nastro aveva scintillanti lame di rasoio cromate e modellate in un cerchio. Il suo soprabito (e Brian non era certo di come facesse a saperlo, ma lo sapeva) era la pelle di un antico guerriero azteco scuoiato e i suoi pantaloni erano dello stesso materiale. Dita crude e insanguinate gli spuntavano dalle tasche dei pantaloni come dolcetti messi da parte per mangiarli dopo cena, e l’Orologio del Lato Oscuro (un’altra cosa che sapeva ma non capiva), che era un enorme orologio da panciotto, pendeva da un pezzo di budello attaccato al taschino dell’abito del Dio: un tempo  quel taschino era stata una fessura carnosa e aveva ospitato un occhio. Le scarpe che calzava  (ennesima conoscenza inspiegabile) erano le teste lacere di francesi ghigliottinati in una rivoluzione morta da lungo tempo. Il piede fesso del Dio entrava perfettamente in quelle bocche morte e quando camminava le teste facevano un suono sordo, come palle mediche fatte rimbalzare lentamente su un  pavimento di legno duro. 
E le unghie delle dita del Dio non erano affatto unghie, ma lame di rasoio. Continuava a sfregarle una contro l’altra mentre camminava, facendone scaturire scintille. 
Poi fu vicinissimo e tirò fuori dal nulla una sedia fatta di femori umani con sedile di costole, brandelli di carne, matasse di capelli intrecciati; si sedette accavallò le gambe, facendo ciondolare una delle teste-scarpe lacere, fece comparire dall’aria un pupazzo da ventriloqui e se lo posò sul ginocchio. Il pupazzo indossava scarpe da tennis, jeans, una t-shirt nera e un giubbotto in pelle con chiusure lampo, e la faccia incisa nel legno era quella di Clyde, con le guance ridicolmente rosse”. 

Mi veniva da commentare le trovate, chiamiamole così per comodità e per non sovrabbondare in improperi e e ingiurie, di questo campione della letteratura contemporanea. Come ad esempio, immaginarsi  la bocca di questo Dio., come dovesse apparire se al posto  dei denti aveva 32, dicesi 32, spille da cravatta. E i pantaloni in pelle di azteco scuoiato? O l’orologio appeso a un pezzetto di budello, o che cosa voglia intendersi con “piede fesso”, o che siano queste “palle mediche” che rimbalzano, o la chicca delle babbucce fatte dai crani di francesi ghigliottinati in una rivoluzione morta, o le dita crude come dolcetti da mangiare dopo cena (non erano meglio cotte?), o la sedia di costole (sai che male al culo) o, sublimità, il taschino che, in realtà, aveva ospitato un occhio? 
Ma poi ho pensato che non ce n’è bisogno. Il pezzo è profondamente, terribilmente comico, in maniera del tutto involontaria. Il che è una vera tragedia quando quando qualcosa pretende di essere horror. Vuol dire che Non aprite quella porta o  L'armata delle tenebre sono  capolavori di rara intelligenza critica. 
Significa che il livello di chi comunica e di chi recepisce è definitivamente corrotto, non ha intelligenza, non ha alcuno spessore. La  cultura si è ridotta a zero. E insomma questo è l’immaginario contemporaneo,  a detta di questo "critico" dell’ "Unità” “penna dura e potente.
La domanda è esattamente questa: ma a che gioco stanno giocando quelli che dovrebbero diffondere la cultura tra i giovani? TV che ti propinano “grande fratello”,  “isole dei famosi” e merdacce varie e letteratura - si fa per dire - inqualificabile se non come porcherie di bassissimo livello.  
Ma noi, caro Claudio, dove andiamo? Che cosa  pensiamo di poter fare, se questo è il confronto? 
Anche la letteratura, la narrazione sono definitivamente morte?
Io sono senza parole. 

Un abbraccio

Giacomo

PS. Mi dimenticavo la sintesi della quarta di copertina:
“Forte e intensissimo romanzo del terrore [?], Il lato oscuro dell’anima condensa scene di sesso, violenza e panico incontrollato, portando alla luce il terribile volto di un’America popolata di persone che vivono ai margini della società”.
Tu hai capito? Ci mettono anche l’esca socialpopulista. Siamo alla fine. L’Italia se la devono comprare i cinesi, tutta. E lo faranno presto. Non siamo in grado di proporre nemmeno un modello culturale nazional-popolare valido (sto pensando a Tex dei fumetti, a Diabolik, ecc. che avevano dignità e, nella loro definizione culturale di medio-basso profilo, non presentavano nessuno scivolone comico-involontario, ma erano pensate come storie credibili, dignitose, tecnicamente ineccepibili, nel disegno e nella sceneggiatura, tanto da aver segnato un'intera epoca. Ma che sta succedendo?)



Caro Giacomo,



proprio adesso mi sono ritirato da una delle mie lunghe passeggiate che, assieme a una alimentazione morigerata, mi hanno permesso di raggiungere il traguardo, per me ambìto, di ben 7 chili in meno. Questo per dire che cose così, al pari di scrivere romanzi decenti, mi danno gioia e voglia di continuare, pur in un mondo allucinante afflitto dai Grandi Merdosi, come i nostri politici.
Ma non voglio sottrarmi al tema che hai posto. Il tipo di letteratura alla moda di cui mi hai trascritto dei brani mi fa semplicemente vomitare.
E mi suggerisce che siamo di un'altra pasta e di un'altra epoca.
Un'epoca seria in cui c'erano i Pasolini, i Moravia, i Rea, i Flaiano, la Morante, la Ortese, e così via.
Adesso tutto è scaduto, degradato, impoverito. Non solo la letteratura. Tutto. Compreso il cibo (sfido chiunque a portarmi una mela annurca con il sapore di 50 anni fa).
Il mondo va verso il disastro - questa la mia tesi - e ci va velocemente in un'accelerazione travolgente che stiamo vedendo in queste settimane.
Bisognerà toccare il fondo, e forse ci vorrà ancora un bel po' di tempo, prima di risalire, ricostruire. Con molto dolore, morti e lutti.
Ma io, nella mia minuscola nicchia di pensionato scrittore oscuro, continuo imperterrito. Come se niente fosse. Non solo non mi importa di essere fuori da quel che si porta; ma sto tutto concentrato ad essere me stesso, cioè uno in grado di sperimentare diverse tematiche, diverse architetture narrative, e sorprendere perfino me stesso per essere capace di scrivere un testo coraggioso come La convergenza.
Quindi non sono senza parole. Rimango con le parole che mi appartengono e mi rappresentano, e le organizzo in prodotti narrativi.
Non li leggerà nessuno? Ti assicuro, non me ne importa un cazzo, oramai.

Stammi bene.
Un abbraccio
c l a u d i o

lunedì 8 agosto 2011

Pietre di fuoco come guida a Napoli per una ... parigina



di Michèle Oceane


Ecco , il libro è letto.

La lettura è stata molto interessante.
Non ho l’abitudine di leggere dei gialli, ma devo dire che questa è piacevole; ha captato la mia attenzione fino alla fine.
Quello che mi ha colpito, è la ricchezza dei riferimenti storici. Per il lettore è una fortuna  potersi tuffare nella storia. Scoprire  luoghi,  chiese,  statue,  monumenti, e  aneddoti dei quartieri storici di Napoli. Mentre leggevo, avevo la sensazione di “stare” nel libro fra i personaggi, indagando anch’io il mistero dell’uomo ucciso, “l’acefalo”, respirando, anch’io, l’atmosfera della cappella, incontrando gli abitanti, ascoltando  la loro voce ...
Il libro mi ha riconciliata con Napoli. L’ignoranza spesso fa nascere, dentro  di noi,  idee preconcette che non hanno alcun legame  con la realtà. Perciò, mi sembra che l’insegnamento e gli scambi siano essenziali. Dobbiamo cercare di imparare sempre per conoscere meglio il mondo che ci circonda, senza far prevalere  i pregiudizi che spesso sono falsi. A volte non sono falsi   ma suggeriti  da fatti contingenti, vissuti realmente da una persona in un istante particolare.  Ma per un’altra persona che non ha vissuto quello stesso  momento, a suo parere , la realtà avrà un altro volto!
L’arte è un linguaggio. Chi sa commuoversi di fronte a un’opera d’arte saprà comunicare con un’altra persona, sensibile  all’arte, anche se si tratta di uno straniero,  senza parlare la sua lingua. Dopo l’ammirazione  nasce la felicità di aver visto la “Bellezza”, (in francese  avrei detto “le Beau = il Bello”e non: la bellezza= la beauté) ... Il  “Bello” è un insegnamento per tutti; ci guida verso il vero cammino di vita, forse... L’uomo, la natura, l’Arte: tutto questo è un mondo complesso.
Con l’arte non ci sono più né confini tra gli uomini , né la barriera della lingua.
Invece  vi ringrazio per il vostro aiuto  che mi ha fatto capire tutte le parole del libro. Poco a poco mi sono sentita a mio agio con il vocabolario napoletano,  tradotto da voi, fino a che, a volte, credevo di capire  leggendo direttamente il libro ...
Ancora una cosa il libro mi ha offerto: grazie alla nostra corrispondenza, ora penso di  poter immaginare, comprendere meglio quello che gli italiani provano quando sono obbligati  a parlare una lingua unica, nonostante  esistano, in Italia,  molte lingue locali. Tutte queste lingue hanno la loro ricchezza e quando bisogna abbandonare la propria lingua materna non deve essere facile. Spesso non è possibile tradurre e rendere il senso di una parola esattamente ...
Mi sembra, con  la lingua napoletana, ritrovare un po’ quello che ho vissuto  nella mia vita. Mia madre aveva origine spagnola e mio padre, italiano. A casa nostra  sentivo a volte , in  molte occasioni, delle parole  del  “dialetto” di ciascuno di loro. Ricordo il loro sorriso quando usavano quelle parole e la loro soddisfazione quando erano consapevoli di aver trovato la parola giusta per esprimere un’idea o un sentimento che il vocabolario francese non poteva tradurre.
I miei genitori erano di cultura  mediterranea, i loro genitori li avevano educati in certi modi di  comportamento,  a parlare con il sorriso, a cantare, ridere,  festeggiare malgrado le vicissitudini  della vita; forse ho ritrovato questo nella lettura di Pietre di Fuoco. A Parigi... è diverso. Avevo dimenticato...
Mi è piaciuto molto il libro perché ci ho trovato  ricordi mai vissuti... ricordi di persone mai conosciute... ricordi di una lingua mai imparata...
E’ una lettura che mi è molto piaciuta perchè ho imparato molte cose. Adesso ho  voglia di visitare Napoli con occhi nuovi, ho  voglia di guardare il passato della città e anche i suoi “fantasmi”. Ho  voglia di conoscere meglio il contesto ambientale  e le persone che ci vivono.
Per caso, avevo  scelto di fare una tappa da voi  durante il viaggio, per metà   turistico, e per metà un pellegrinaggio nella terra di mo padre ...
Grazie mille per la vostra gentilezza, per il vostro aiuto.
Grazie mille Giacomo  per il libro. Grazie mille per averlo scritto. Grazie mille per avermi insegnato ad aprire gli occhi e il cuore.

Michèle.