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ebook di ArchigraficA

sabato 29 novembre 2014

Un lungo sguardo all’indietro

di Claudio Cajati







  Ho ottant’anni. Sento che sto per morire. Sembrava che tutto funzionasse bene dentro il mio corpo, nonostante l’età. Solo un’ovvia stanchezza. Invece, all’improvviso, ecco la diagnosi di un tumore al pancreas. Silente a lungo, ormai a uno stadio avanzato, con dolori persistenti difficili da attenuare. Inutile l’operazione.
  Steso nel letto, chiudo gli occhi. E mi succede quello che tante volte avevo sentito dire: che in punto di morte tutta la vita viene ripercorsa, negli episodi chiave, come in un cortometraggio denso e rapido.
  Mi vedo nella culla. Piango disperato e tendo le manine in alto per essere tirato fuori e abbracciato. Mamma e papà accorrono, preoccupati e premurosi, e fanno a gara a chi mi deve prendere. Mentre loro quasi bisticciano e perdono tempo, io piango di un pianto ancora più forsennato. Non voglio essere abbracciato solo dalla mamma o solo dal papà: voglio ritrovarmi avvolto fra le loro quattro braccia, una morsa affettuosa e protettiva che subito placa il mio pianto.
  Adesso ho sei anni. Sono un bel bambino dai tratti fini e gentili. Anche se non sono una bambina, mi piacciono anche le bambole e per questo spesso bisticcio con Clara, la mia sorellina. Anche se mia mamma non vuole, scendo ogni tanto in cortile dove si riuniscono e giocano bambini e bambine del vicinato. Eccoli in un angolo quasi buio, fuori dal controllo visivo degli adulti, lì si gioca al ‘dottore’: i maschietti fingono di essere dottori e, con la scusa di visitare le bambine, le toccano dappertutto. Io a questo gioco non ho voglia di partecipare. Ma non so bene perché.
  Eccomi, a dieci anni, alla scuola media. Sono il più bravo della classe. Molti, ragazzini e ragazzine, mi chiedono di essere aiutati per il compito in classe o con qualche opportuno suggerimento durante l’interrogazione. Io aiuto tutti se posso, ma mi piace soprattutto aiutare Luigi, che ho scelto come compagno di banco: con il suo sguardo di topolino timoroso che chiede protezione, mi fa tenerezza e mi viene l’impulso di carezzarlo. L’altro giorno Sofia, una davvero carina, la più disinvolta e sfrontata, pensa di ringraziarmi per il compito che le ho corretto: mi dà all’improvviso un bacio. Proprio sulla bocca. Strano ma non mi piace molto. I ragazzini mi guardano con invidia - ho avuto un bacio, addirittura sulla bocca, dalla bella Sofia – ma Luigi fa eccezione: lui non esprime invidia. Mi guarda come se volesse attirare la mia attenzione, è contrariato. E non capisco perché.
  Adesso siamo ai miei sedici anni. Di ritorno da scuola trovo mio padre che mi viene incontro e mi mette una mano affettuosa sulla spalla. La sua espressione è complice, ammiccante, di chi chiede una confidenza che non si può negare. Fa un sorriso incoraggiante e comincia: “Allora, Carlo, quando ce la presenti la tua fidanzatina? Io sono certo che ce l’hai, voi giovani di oggi cominciate molto presto, anche a dodici-tredici anni. E poi tu sei figlio mio, il sangue non mente… Sappi che la puoi portare qui a casa, a me e a mamma farebbe proprio piacere conoscerla… A meno che lei sia così timida da temere questo incontro. Ma tu le puoi assicurare che noi siamo molto aperti, e non siamo i tipi invadenti che fanno mille domande inopportune, sappiamo mettere a suo agio qualsiasi ospite. Insomma, noi l’accoglieremo a braccia aperte. Ok?” Mentre papà parla così, non so come dirgli che la fidanzata non ce l’ho, che le ragazze mi spaventano più di attrarmi, che quando qualcuna si è mossa per farmi la corte, io ho trovato mille scuse e mi sono tirato indietro. Una volta, che gli amici mi incitavano a buttarmi con una certa Jessica perché si vedeva che le piacevo, mi sono inventato che non era il mio tipo. Ho salutato tutti e sono andato a casa di Luigi. Siamo rimasti amici dal tempo della scuola media. Amici adesso anche più di allora.
  Io e Luigi non abbiamo fatto l’università, con grande delusione delle nostre famiglie e soprattutto di mio padre che è docente di storia. Dopo vari tentennamenti e ripensamenti, ho scoperto che potrei riuscire bene come parrucchiere. E sto frequentando un corso apposito. Luigi, forse con minore talento, ha scelto però di seguire la stessa strada: ci tiene, e ci teniamo entrambi, a rimanere insieme, a non perderci per le strade della vita. C’è fra noi qualcosa di più dell’amicizia, qualcosa a cui non osiamo dare il suo nome.
  E’ passato qualche anno. Con grandi sacrifici, facendo i più disparati lavoretti per mettere da parte una discreta somma, e contraendo un pesante mutuo, riusciamo ad aprire un salone unisex. E ormai non possiamo più mentire a noi stessi: noi siamo gay. E perciò ci tocca avere paura, stare attenti – prima di tutto con i clienti del salone – a nascondere la nostra omosessualità. Si dice spesso che non è più come un tempo, che ormai c’è tolleranza verso gli omosessuali, ma non è vero. Viviamo in un ambente ostile e perfino spietato, sono sempre molte e terribili le aggressioni omofobe.
  Mia madre ha capito, anche da parecchio tempo, la mia natura. Ma non mi dice niente, non mi condanna, magari mi sorride con un velo di tristezza. Tanto meno introduce l’argomento con mio padre: lui i gay non li sopporta, non riesce a concepirli come individui sani, pensa che sono soltanto mentalmente malati, affetti da una malattia ripugnante.
  Devono passare ancora dei mesi perché mio padre capisca che un omosessuale ce l’ha proprio in famiglia. Alla prima occasione in cui ci incontriamo, subito mi aggredisce. Mi scuote, mi spinge contro un muro, mi porta le mani robuste al collo. Prima che io possa dire una parola, mi grida adirato: “Ma non ti metti vergogna? Tu così disonori la famiglia, e sputtani anche me che ho fama di macho: la gente si chiederà ”Ma come ha fatto a fare un figlio così, un frocio, proprio un frocio?”… Oh povero me! Perché doveva capitare proprio a me una disgrazia così grande, cosa ho fatto mai tanto di male per meritarmela?” Mi toglie le mani dal collo, abbassa sconfortato le braccia e, prima che si allontani molto lentamente, gli sorprendo sul viso qualche lacrima silenziosa. Anche se mi ha aggredito, non ho risentimento. E non provo a parlargli perché so che non potrei fargli accettare la mia realtà, non potrei fargli cambiare idea.
  Finalmente abbiamo preso coraggio. Io e Luigi andiamo via da casa, a vivere in un miniappartamento. Non ci importa che sia molto modesto, piccolo e bisognoso di rinnovo: è lì che io e Luigi ci sentiamo protetti, e ci possiamo amare, con estenuante tenerezza o con fulminea violenza. Luigi, il topolino timoroso, trova in me un gatto complice. Il nostro godimento è pieno, immemore di tutto.
  Per sostenere la pressione moralistica del mondo, per sfuggire alle chiacchiere malevole, decidiamo che abbiamo bisogno di una ‘copertura’: accompagnarci ognuno ad una donna, che sia a sua volta lesbica, con il problema analogo al nostro. Cominciamo a frequentare locali lesbo. Dopo qualche diffidenza e sarcasmo (“Cosa credete di combinare, maschietti? Qui siamo tutte lesbiche!”), riusciamo a spiegare la nostra inclinazione sessuale e il nostro intento. Un patto che sarà utile anche a loro. Troviamo l’accordo, infine, io con una virago di nome Barbara, Luigi con una punk di nome Alessia. Dopo aver recitato per strada diligentemente la parte degli eterosessuali, appena arriviamo a casa le due non badano alla triste modestia dell’alloggio. Subito con disinvoltura si spogliano, si gettano sul letto e si avvinghiano in un perfetto 69 che sembra interminabile. Io e Luigi ci eccitiamo e, in piedi di fronte a loro, ci masturbiamo a vicenda.
  In visita ai miei genitori ci vado ormai raramente. E’ passato molto tempo dall’ultima volta. Ci vado per mia madre. Mio padre non mi vuole nemmeno vedere, nemmeno per aggredirmi, mortificarmi, umiliarmi. Appena io entro lui se ne esce, con ostentazione. Questa volta trovo a casa anche mia sorella Clara con i suoi due bambini. Vedo la gioia e la festosità con cui mia madre li accoglie, figlia e nipotini. A me, che guardo la scena con distacco e amarezza, rivolge un’occhiata in cui leggo imbarazzo, come se volesse dirmi, ma non me lo dice: “Vedi come è bello trovarsi una ragazza, sposarsi e avere dei figli?” Con una scusa vado via presto.
  Nascondersi sempre, fingere, camuffarsi – anche se Barbara e Alessia sono brave e collaborative – è uno stress che logora. Io e Luigi non ce la facciamo più, abbiamo deciso di infischiarcene degli eterosessuali benpensanti, di avere più rispetto per noi stessi. Essere gay deve essere un’opportunità, non un handicap. E così decidiamo finalmente di uscire allo scoperto. La parata del Gay Pride è pochi giorni dopo e noi ci partecipiamo. Ma con vestiti normali, quotidiani; siamo disgustati dall’esibizionismo sfrontato e pacchiano della maggior parte dei partecipanti. La nostra rivendicazione va mormorata con gusto, non gridata con volgarità.
  Fra me e Luigi sono passati molti anni di sintonia, affiatamento, cieca fiducia. Un giorno però mi capita di ascoltarlo mentre al cellulare parla con voce bassa e dolce. Lo incalzo, lo richiamo al nostro giuramento, non nasconderci niente tra noi. Lui tace, cerca di prendere tempo, di improvvisare una bugia credibile. Ma poi lui stesso ammette che mi tradisce: è capitato qualche settimana fa, ha incontrato Valentino, un giovanotto che viene a farsi i capelli nel nostro salone, e si è innamorato di lui. Io non voglio che Luigi mi lasci, cerco di tenerlo in qualche modo ancora legato a me. Gli incontri sessuali fra noi diventano rari, imbarazzanti, con un fondo di colpa sua e di pretesa di possesso mia. Finché arriviamo un giorno a un chiarimento spietato (“Vai con lui perché è giovane… io ormai sono troppo vecchio per te, è così?” “Sì, non posso darti torto, volevo carne giovane, e poi noi eravamo diventati troppo amici, l’amicizia toglie forza al sesso…”). Ci siamo lasciati definitivamente con queste poche cattiverie, che forse non volevamo dire perché erano abbastanza false, ma le abbiamo dette. Il salone l’abbiamo dovuto vendere. Dopo qualche mese ho aperto una scuola per aspiranti parrucchieri.
  Ci ho messo molti mesi per decidermi a farlo, come se fossi io il traditore e non Luigi: ho cercato un nuovo partner. L’ho trovato al Gay Pride, Ermanno, vestito come me con misura e discrezione, piuttosto silenzioso, alquanto sbrigativo a letto, virile in una maniera che mi è sembrata subito alquanto meccanica, fredda, mai pienamente abbandonato agli amplessi. Non sono innamorato di lui, e certamente nemmeno lui di me. Non c’è fra noi niente della magia affettiva ed erotica che c’era fra me e Luigi. Infine capisco che Ermanno sta con me solo per sfruttarmi economicamente. Lo caccio malamente di casa. E ritorno solo.
  Sto leggendo il giornale, come al solito ogni mattina: la politica, l’economia, la cultura, lo sport, e infine la cronaca nera. Non ci voglio credere, non è possibile, ma è così, sta scritto a caratteri grandi, inequivocabili: Luigi Cupiello, gay cinquantenne, è stato arrestato per omicidio volontario: ha strangolato il giovane gay Valentino Cangemi che voleva lasciarlo per un altro. Non perdo tempo, mi precipito da Luigi in prigione. Ci guardiamo con sgomento, con affetto, con disperazione. I nostri occhi subito lucidi. A stento tratteniamo le lacrime. Vorremmo toccarci, ne abbiamo tanta voglia. Ma c’è un vetro fra noi. Io non riesco a tirare fuori altro che qualche parola scontata; Luigi ripete più volte, come se lo dicesse a se stesso più che a me: “Sono stato punito, sono stato punito…”
Voglio andare di nuovo a trovare Luigi in carcere (deve starci in tutto quindici anni, e questo perché ha usufruito di attenuanti, altrimenti…). So che sarà un incontro doloroso, emozione e commozione prepotenti. Ma non posso farne a meno, Luigi mi manca, mi manca troppo. Cerchiamo di comunicare, ma le parole, le parole giuste, sincere e opportune, stentano a uscire dalle nostre bocche invano dischiuse. Presto un silenzio prepotente ci avvolge, ci stritola. Ci lasciamo con un saluto flebile, con rabbiosa amarezza.
  E’ passato qualche anno. Solitudine grigia per me. Ma qualcosa di terribile sta per colpirmi. E’ di nuovo il giornale a farsi messaggero di tragedia: Luigi si è suicidato in carcere impiccandosi. Mi bevo molti  whiskey; voglio stordirmi, crollare addormentato e impedirmi di pensare. Invece mi risveglio dal torpore crescente e so che voglio vedere Luigi un’ultima volta all’obitorio, prima che sia seppellito. Il guardiano mi chiede se sono un parente, ché solo ai parenti è consentito quello che chiedo. “Sono un amico.” E aggiungo con tono significativo: “Sono più che un parente.” Lui mi scruta per un istante frenando un sorrisetto malevolo che vuol dire che ha capito, ma comunque non basta. Anche io, a mia volta, ho capito: ci vuole una lauta mancia. All’interno dell’obitorio fa fresco, un fresco ostile che mi dà un’altra stretta al cuore. Nel giaciglio, tirato fuori come un cassetto, Luigi sta rigido, legnoso, rinsecchito, pallido, ma finalmente sereno. Mi sembra ancora una volta un animaletto, quel topolino timoroso, in cerca di protezione, che conobbi alla scuola media.
  Sono diventato pigro, lento, svogliato. Eppure potrei continuare a insegnare nella scuola per parrucchieri, tanto più che i praticanti sono diminuiti. Ma alla fine decido di affidare la direzione a Sergio, un mio ex allievo molto bravo e affidabile. Io mi rintano in casa, smarrito e abulico. Poi però mi costringo a reagire. E mi viene una bella idea: da una foto di me e Luigi, poco più che trentenni, sorridenti mentre ci abbracciamo, ricavo una gigantografia. La appendo nella camera da letto. La guardo spesso per rasserenarmi e confortarmi, soprattutto ogni volta che una difficoltà o una delusione mi turbano.
  Sono ormai più che sessantenne. Mi sembra ridicolo, patetico che io continui a cercare un partner. E rinuncio definitivamente. In compenso riempio le mura di casa con foto di vip gay, di differente talento, mestiere e statura culturale, ma accomunati dalla scelta sessuale: Alan Turing, Nichi Vendola, Aldo Busi, Leo Gullotta, Alessandro Cecchi Paone, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Alfonso Signorini, Platinette, Cristiano Malgioglio, Tiziano Ferro, Ivan Cattaneo, Alfonso Pecoraro Scanio, Paolo Poli, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Marcel Proust, Jack Kerouac, Charles Bukowski, Freddy Mercury, Miguel Bosé, Boy George, Ricky Martin, George Michael, Rupert Everett, Elton John… per citarne alcuni. Tutti compagni miei involontari e ignari, mi fanno sentire meno solo e vulnerabile. Condividiamo una diversità che in tanti non ci pesa.
  Alla soglia dei settanta anni scopro di poter essere pittore: in fondo non è per me più difficile che essere parrucchiere. Anzi. All’inizio dipingo un unico soggetto, Luigi naturalmente. Luigi da ragazzo a scuola, Luigi giovanotto nel nostro salone, Luigi nel nostro appartamento, Luigi che mi confessa l’amore per Valentino, Luigi dietro le sbarre della cella, Luigi morto suicida. Sono quadri enormi, con molti dettagli, anche conturbanti. Riesco a convincere un gallerista gay a ospitare una mostra dei miei quadri. Fra i visitatori ci sono le contestazioni degli eterosessuali benpensanti, ma anche l’entusiasmo e il plauso degli omosessuali. Dopo anni in cui ho dipinto solo Luigi, passo ai vip gay delle cui foto ho tappezzato le pareti. Così me li sento ancora più vicini, più in sintonia con me attraverso la mia interpretazione figurativa. Sono anni di grande impegno e fatica.
  Ormai vado verso gli ottanta anni. Non ce la faccio più a dipingere: subito mi stanco, e poi le mani mi tremano in un inizio di Parkinson. Penso a una seconda e ultima mostra, sugello e bilancio di tutto ciò che precede il prossimo congedo dalla vita. La mostra, composta di quadri non realistici bensì fantasticamente osèe, viene più contestata che ammirata. Capisco che i tempi non sono ancora maturi per la piena accettazione di noi omosessuali, nemmeno attraverso il veicolo dell’arte.
  Ecco, il lungo sguardo all’indietro finisce qui. Mentre i dolori non smettono di tormentarmi, non apro gli occhi che fra poco non potrò più aprire. Nel buio vedo Luigi che mi aspetta. Che mi apre ancora una volta le braccia.







venerdì 28 novembre 2014

Le carte a posto








di Claudio Cajati


Io, Michele, e mia moglie, Arianna, siamo una vecchia coppia. Io 65, lei 62. Una coppia tranquilla, più volte collaudata, inossidabile. Ci siamo sempre voluti un gran bene e rispettati. Appena ogni tanto qualche baruffa: ma, come dice il proverbio, amor senza baruffa fa la muffa.
Così credevo.
All’improvviso, l’amara sorpresa.
Vado a raccontarla, cercando di rimanere sereno.
Fra i riti patologici del matrimonio o, più in generale, della convivenza, c’è quello di conservare in casa di tutto. Per anni e anni. In cassetti, ripostigli e angoli dimenticati. Alla rinfusa, senza altro criterio che quello dettato dalla smania di conservare (“Dovesse tornare utile, chissà...”). Così si formano stratificazioni profonde e indecifrabili, bisognose di scavi archeologici.
Nel nostro caso, si tratta soprattutto di carte: io sono scrittore, Arianna prof al liceo classico. La carta, le carte, ci hanno accompagnato per decenni. Fedeli, non avrebbero voluto lasciarci.
Ma l’altro giorno ho sentito l’urgenza di ribellarmi. Mi sono messo alacremente all’opera. Al grido di “Buttare, buttare, buttare!”
Però fra le carte obsolete e inutili si può sempre annidare invece qualcosa di prezioso. Occorre quindi spulciare con calma. Frenare e mitigare l’imperativo del ‘buttare’ con un’attenta calma disamina.
Ma c’è anche di più. Che me lo proponga coscientemente o meno, sono sempre alla ricerca di spunti narrativi. La mia inventiva, alla mia età, è ormai fiacca, devo ammettere.
E sono stato fortunato. Spulciando fra carte ingiallite, qualcuna ancora sporca di caffè o perfino di un residuo di miele o marmellata, ho trovato titoli promettenti. Chissà perché – come faccio ora a ricordarmelo? – rinunciai a tradurli in testi narrativi. Oppure mi sono capitati fra le mani racconti incompiuti. Adesso saprei come condurli al termine: è venuta meno la sfiducia e l’inesperienza che determinarono un abbandono.
Ci ho messo l’intera giornata a fare pulizia. Alla fine ho buttato più del novanta per cento delle carte cavate da vari anfratti della casa.
Ero stanco ma soddisfatto. Provavo il senso esaltante di una liberazione. E avevo rimediato alcune trame niente male, degne di sviluppo.
Arianna ha apprezzato molto il mio lavoro. Un complimento generoso e un largo sorriso. La sera tardi, ma non troppo tardi, ero quasi distrutto, perbacco, mentre andavamo a coricarci, lei mi ha detto: “Io sono pigra, lo sai, e poi le mie carte sono perfino più delle tue, ho conservato le cose più assurde, non so perché. Ci pensi tu a fare pulizia? Lo sai che mi fido. Del resto hai seguito passo passo la mia avventura di insegnante, sai quasi tutto quel che c’è da sapere...”
Ho accettato volentieri. E ci siamo addormentati subito, ancora immuni da insonnie senili, meno male.
La mattina seguente, anzi era ancora notte, sono saltato dal letto come una molla. E in pochi minuti ho raccolto, sul tavolo più grande che abbiamo, tutte le carte di Arianna.
(Forse un uomo non dovrebbe mettere le mani nelle carte di una donna, di una prof, e tanto meno di una che è sua moglie... ma io l’ho fatto, con una determinazione e una disinvoltura che mi hanno sorpreso.)
Quante porcherie che sarebbe stato ragionevole cestinare subito! E invece carte di dieci, perfino venti, trenta anni prima, inutili e prive del pur minimo requisito del ricordo prezioso: stavano lì, indifese davanti alle mie mani implacabili. Cestino, cestino, cestino.
Poi sono incappato nella brutta della lettera con cui Arianna comunicava al grande scrittore Jorge Messi l’intenzione di fare la tesi di laurea su di lui. E chiedeva di incontrarlo per un’intervista.
La risposta di Messi non l’ho trovata. Ma ricordo che lui l’intervista la concesse. E che fu il pezzo forte della tesi.
Ho messo da parte la lettera: ad Arianna poteva interessare conservarla. Le avrei chiesto conferma quando fosse tornata da scuola.
E ho continuato infaticabile l‘operazione cestino.
Quella che ora mi capitava fra le mani, ben custodita in una busta celestina appena sgualcita, era un’altra lettera. Questa pure in spagnolo. Ma con una grafia differente da quella di Arianna. Una grafia rotonda, imperiosa, fluida. Insomma, non era una lettera scritta da Arianna. Ma una lettera di Messi a lei.
Anche se il mio spagnolo è zoppicante, non ho avuto bisogno del vocabolario per capire. Lo slancio, l’entusiasmo, la passione delle frasi non lasciavano dubbi. Fra loro c’era stato molto più che un’intervista.
Poi altre lettere, continuando la mia cernita, mi capitavano fra le mani, a cascata. Lettere di lei a lui, di lui a lei. Non potevo dubitare: una lunga relazione fra loro. (Io, accidenti, ero riuscito a non accorgermi di niente. Che stupido, io e la mia benedetta letteratura...)

Ciò che state leggendo non vuole essere una confidenza o uno sfogo.
È l’annuncio di un racconto. Io sono e sarò, fino in fondo, scrittore. Condanna e riscatto.
Non ho detto niente ad Arianna. Non le ho detto che ho trovato il carteggio – chissà perché non l’ha distrutto. Non le ho detto il mio stupore, il mio sconcerto, la mia mortificazione, il mio dolore. Io che credevo che mi fosse sempre stata fedele, come le sono stato io, eppure ne ho avute occasioni...
Lei non sa niente. E non deve sapere niente. Mi sono sforzato di essere con lei uguale a sempre. Premuroso, affettuoso, educato.
Così ho trattenuto in me tutta l’energia. E subito ho deciso il da farsi. Dal carteggio cavare un racconto. Ma non posso scriverlo subito. Devo fare decantare rabbia e smarrimento.
Però penso che sarà un grande racconto, un piccolo capolavoro.

Non so, e non voglio saperlo naturalmente, quanto godette Arianna a letto con Jorge Messi. Ma dubito che possa aver goduto quanto, con la mia sapienza di scrittore, saprò far godere l’Arianna del mio racconto.

mercoledì 26 novembre 2014

Le formiche




di Claudio Cajati




“Dottore, io lo devo sapere... me lo dica: quanto mi rimane?”
Gli metto le mani sul braccio e glielo stringo. Come si farebbe con un amico al quale si sta chiedendo un grosso favore. Certo, lui invece è un dottore. Addirittura un luminare. Non sta bene che io mi prenda tutta questa confidenza. Ma ormai l’ho fatto. E continuo a stringergli il braccio mentre aspetto la sentenza.
Lui mi guarda. Mi sembra imbarazzato, ma soprattutto irritato. Scuote leggermente il braccio e capisco che la mia stretta lo infastidisce. Devo mollare. Mollo. Ma, puntandogli addosso gli occhi, sguardo già pronto a velarsi, lo incalzo. Assillante e al tempo stesso implorante: “E allora, dottore?”
Si schiarisce a lungo la voce. Non l’ho mai sentito tossire, o avere comunque un qualsiasi problema alla gola. È chiaro che sta prendendo tempo. E se sta prendendo tempo è perché tutto il cinismo acquisito e rafforzato nella sua lunga carriera di oncologo non gli basta per spiattellarmi a cuor leggero l’annuncio della mia condanna.
Approfitto di un’altra pausa che lui si concede – comincia a gesticolare misteriosamente ma sempre senza rispondermi – per precisargli cosa c’è dietro la mia domanda: “Dottore, lo so che devo morire... ma questo lo sappiamo tutti, che prima o poi ci tocca...” Faccio una brevissima pausa in cui il dottore non trova di meglio che far oscillare appena il capo in un accenno di assenso, scontato, a un’affermazione così lapalissiana. Ma io ho da dire una cosa più stringente, e continuo: “Però per me è diverso: gli altri, quelli sani, non hanno nessuna idea di quando gli toccherà. Potrebbe essere fra un’ora o fra molti, moltissimi anni, e così la morte, il pensiero della morte, diventa talmente remoto da non influenzare, praticamente, il modo di vivere...”
Il dottore dà una vistosa occhiata al suo orologio. E poco ci manca che la sua mano si chiuda e apra più volte nel gesto che vuol dire: Stringa, io ho altri pazienti, mi aspettano, cosa crede Lei?.
E va bene, stringo. Cerco di arrivare rapidamente al nocciolo: “Dottore, io invece so che la morte mia è vicina... ma quanto vicina? Questo devo sapere. Gli ultimi giorni li voglio vivere meglio che posso... ma, se ho solo una settimana o un anno intero, cambia quello che posso fare...”
Il dottore assume un’espressione vagamente ironica, quasi divertita, direi. Ancora una pausa, come se cercasse le parole adatte. Chiare ma possibilmente non crudeli: “Lei, signor Marotta, vorrebbe sapere quanto le rimane. Ebbene, non lo sa nessuno. Non glielo può dire nessuno. Nemmeno io che faccio l’oncologo da quarant’anni ormai. Quello che posso dirle, invece, sulla base di casi analoghi al suo – ma, preciso, non uguali, solo analoghi, solo analoghi – è che forse, dico forse, le rimane da un mese a due anni... mi corre l’obbligo di sottolineare che è solo un’ipotesi. Potrei anche sbagliarmi...” E fa una faccia mestamente imbarazzata. Forse vuol dire che potrebbe essere anche meno di un mese, piuttosto che più di due anni?
Ingoio a stento il rospo. E mi affretto a dire: “Ho capito, ho capito. Grazie...” Eppure non ho nessuna voglia di ringraziarlo. E non aggiungo altro. Altre parole, forse amare o stizzose, mi muoiono in bocca.
E poi il dottore ormai si è congedato. Con un sorriso di affettuosa paternalistica pietà ha concluso: “Signor Marotta, cambi prospettiva. Non pensi a quanto le resta. Pensi solo a vivere intensamente. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.” Mi stringe la mano, forte; con l’altra mi dà una piccola pacca sulle spalle. Più da saggio amico che da freddo luminare.
Esco dalla clinica. Non so se ho voglia di sedermi o di correre. Guardo l’orologio. Il mio poco tempo sta passando. Il mio poco tempo che non so quanto poco è.
In fondo il dottore ha ragione. Le sue parole mi hanno irritato, ma debbo riconoscere che ha ragione. Anche io vorrei che ogni mio istante fosse carico di senso. Che fosse intelligente, emozionante, commovente perfino. “Vivi intensamente e non esserne mai pago” mi disse una volta un’amica.
E allora senza rifletterci comincio a correre. Per ingoiare il vento, per lasciarmi indietro le case, per superare qualcuno giovane e sano, per sentire il corpo, affamato di vita, ancora vincitore sulle cellule assassine.
Corro. Corro a precipizio. Come se non avessi superato i cinquanta. Come se non fosse necessario badare alle irregolarità, avvallamenti o rigonfiamenti, nella pavimentazione.
Non ci bado. E mi accorgo di essere irrimediabilmente inciampato quando sono ormai rovinato in terra, sacco floscio inerme. I pantaloni lacerati all’altezza delle ginocchia, sbucciate e sanguinanti.
Dopo poco, sento dolore. Ma non me ne dolgo: quanto sono ancora vivo! E poi, cos’è una sbucciatura di ginocchia per un malato, forse terminale, di cancro?
Vorrei rialzarmi subito. Penso che ne va del mio orgoglio di uomo malato ma ancora vigoroso. Non mi aiutano le braccia, però. E nemmeno le gambe, tronchi di legno fradicio.
Resto a terra. Molti secondi, forse minuti. In attesa di un’energia, di uno scatto, che non possono avermi abbandonato definitivamente. Curvo a quattro zampe, non penso a chiedere aiuto. E del resto, davanti e dietro di me, non c’è nessuno a cui chiedere aiuto.
I pochi passanti sono spariti d’un tratto. A casa a passo svelto per il pranzo o chissà. Penso che dovrò cucinarmi qualcosa anche io. Ma mi si è chiuso lo stomaco, o piuttosto, mi rendo conto, è perché lì si annida il male che l’operazione, tardiva, non ha potuto arrestare.
Resto a terra a quattro zampe, ridicolo animale improvvisato. E di nuovo faccio per tirarmi su.
Le formiche, di Maurizio Zenga

Prima di riuscirci, mi capita di vedere sul marciapiede, a pochi centimetri davanti a me, una linea fitta, mobile, di trattini neri. Sono tanti, scorrono al tempo stesso verso sinistra e verso destra. Sono formiche. Alacri, organizzate, ordinate, lavorano all’unisono per un compito che dev’essere importante, anche se mi sfugge. È la loro vita, minuscola, misteriosa, sacra. Che noi umani ignoriamo, sottovalutiamo. O addirittura combattiamo a morte.
Penso che avrei potuto inciampare qualche centimetro più avanti: mi sarei abbattuto su di loro con tutto il mio peso, e magari chissà quante, senza volere, avrei schiacciato. Avrei dato loro una morte inopinata e immeritata.
Ma per fortuna non è successo. La loro sommessa silenziosa preziosa vita è salva. E ne provo sollievo. Quasi da lungo tempo fossimo amici.
Gli occhi mi si velano di tiepide lacrime. Intanto un signore mi è arrivato accanto e si offre di aiutarmi a rialzarmi.
Lo ringrazio. Ma gli rispondo che adesso no: sto osservando le formiche. La vita delle formiche.
La vita.

martedì 25 novembre 2014

Io fra due







di Claudio Cajati



Questo che scrivo non lo faccio per giustificarmi. Estrema tardiva giustificazione prima dell’addio.
Non ho bisogno di giustificarmi. Né di farmi perdonare alcunché.
Sono stata pornostar, e mai ne ho provato imbarazzo, o addirittura vergogna.
Di esserlo stata, anzi, se proprio volete sapere, me ne vanto. Non so a quanti uomini, certamente moltissimi, ho donato bellezza, sensualità, eccitazione, avventura, trasgressione. Tutto quello che molto difficilmente potevano aspettarsi dalle loro donne.
Ho fatto del bene, quindi. Disinteressata benefattrice dei maschi. E non credo di esagerare se dico che ne sono orgogliosa. La mia pornografia schietta, limpida.
Ho scritto: sono stata pornostar; avrei voluto poter scrivere: sono pornostar. Ma la malattia, improvvisa e implacabile, ha vinto. E sono qui a comporre questa specie di coraggioso testamento. Per chi vorrà sapere e capire chi ero. E almeno uno, lo so, ci sarà.
Ho capito subito – gli altri invece ce ne hanno messo di tempo – che scegliendo di essere pornostar rimanevo donna. Donna a tutto tondo. Semplice e grandiosa perché donna, come tutte le altre. Come tutte le altre che magari a voce bassa dicevano però cose terribili su di me.
E, come donna, ho cercato quello che tutte noi vogliamo e meritiamo: il piacere e l’amore. Non il piacere senza l’amore; non l’amore senza il piacere.
Ma non sono riuscita a trovarli in un solo uomo. Ho avuto bisogno di due. In uno, Alessandro, ho trovato il piacere. In un altro, Romano, ho trovato l’amore.
Alessandro ha quasi trent’anni. Mio partner storico sul set porno, maestro di eros e prestazioni sessuali, già lo sentivo intimo, non uno che recitava, quando giravamo le scene assieme. E così un giorno, come una cosa naturale e addirittura ovvia, siamo diventati amanti nella vita. Tutti e due capaci di straordinarie finezze, tutti e due impegnati e concentrati a soddisfare l’altro. E lui, Alessandro, è grandioso, sa come condurmi per mano in paradiso.
Romano ha già compiuto sessant’anni. Professore di storia dell’arte, può offrirmi una blanda libido, prestazioni quasi maldestre. Ma cosa importa? Lui sa darmi tenerezza, premure, attenzione, coccole; mi sorregge e mi protegge, mi ascolta e mi consiglia. Senza quasi bisogno del sesso – quello me l’assicura Alessandro – lui è l’amore.
I due naturalmente sanno l’uno dell’altro – non avrei sopportato di lasciarli all’oscuro – e accettano questo singolare triangolo. Cosciente e soddisfatto ognuno del proprio ruolo. Alessandro non mi ama e non gli importa che Romano sa darmi l’amore. Romano non si sente mortificato dal fatto che è Alessandro a darmi il piacere, il piacere estremo: lui, Romano, mi può dare un sesso ingenuo e deficitario, come quello – oso dire – incestuoso di un padre che vuole veramente bene alla figlia e non infierisce sessualmente – non saprebbe – su di lei. Ognuno di loro due è parziale e unilaterale, ma io, compresa fra di loro, sono completa, sono donna, unisco il piacere all’amore e l’amore al piacere e, posso dirlo, sono felice.
Anzi, ero felice.
Non me l’aspettavo, devo dirlo, non me l’aspettavo proprio. Con i miei trenta anni, con i miei successi cinematografici, le interviste vip, il favore del pubblico maschile in delirio per il mio corpo e i miei amplessi, ebbene io mi sentivo vittoriosa, trionfante. Anzi invincibile.
Ma ho dovuto scoprire, all’improvviso, che il corpo mio non è solo quello che ha fatto impazzire di desiderio i maschi. Si è rivelato un mistero insidioso, spietato. Un traditore.
Ero andata a farmi il solito checkup, una routine periodica dettata dalla professionalità, che io ho sempre rispettato, senza saltare mai la scadenza di un controllo. La nostra, pur con tutte le cautele, è una vita a rischio, lo sappiamo.
Non avvertivo nessun malessere, nessun dolore. Mi sentivo benissimo, ecco, come al solito. Quando ho visto la faccia imbarazzata della signorina del laboratorio analisi che si apprestava a cercare di dirmi qualcosa mentre mi consegnava i referti, ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.
Ma non immaginavo quanto fosse grave. Il pancreas. L’avevo sentito nominare qualche volta, non è che sono così ignorante. Però confesso che non sapevo nemmeno bene cosa fosse, e cosa ci facesse nel corpo.
Adesso venivo a sapere – mi veniva detto con cautela, lentamente, con eufemismi medici – ma insomma, per dirla papale papale, si trattava di un tumore. Un tumore al pancreas. Da poter curare, comunque, si cercava di rassicurarmi.
Ad Alessandro e a Romano non ho detto niente. Non avvertivo ancora nessun male: mi era facile tacere. Fingere. Perché turbarli? Mi sarei curata, sarei guarita, e tutto sarebbe filato di nuovo liscio. Come prima.
Così pensavo, all’inizio. Poi ho scoperto – i medici hanno lasciato che poco alla volta lo scoprissi – che ero spacciata. Che il male era andato molto avanti e che proprio la mia giovane età era la mia nemica. La mia giovane età con la vitalità delle cellule mi condannava. Poco ci mancava, sarei stata una malata terminale, insomma.
Per parecchi giorni il mio corpo ha combattuto. Vista da fuori potevo sembrare addirittura sana. A un certo punto però ho cominciato a stare male.
Allora non ho potuto nascondere tutto ad Alessandro e a Romano. Ho detto loro una bugia che sembrasse verosimile: che mi stavo curando e che i medici mi avevano garantito che sarei guarita. Non ho capito se loro hanno potuto crederci o invece hanno capito che li ingannavo ma non hanno trovato il coraggio di dirmelo...

Alessandro non mi ama, lo so da sempre. Sono sicura che, appena sarò morta, o perfino prima, saprà trovarsi un’altra collega con cui rinnovare le sue gesta erotiche anche fuori del set. Forse solo qualche volta, distrattamente, mi penserà, magari. Si ricorderà di quel che fummo noi due, chissà.
Non mi farò sentire più da lui. Me ne andrò a casa di Romano. Lui sì che mi ama. Come si ama al tempo stesso una moglie e una figlia. E, negli ultimi momenti, ne sono sicura, con l’aiuto di un’infermiera saprà assistermi, proteggermi, onorarmi. Qualcosa di stupendo: molto di più che consolarmi. Morire fra le sue braccia, le sue ampie braccia paterne e fraterne, non sarà una cattiva morte.
In fondo nella vita sono stata fortunata.