di Claudio Cajati
Ho ottant’anni. Sento che sto per morire.
Sembrava che tutto funzionasse bene dentro il mio corpo, nonostante l’età. Solo
un’ovvia stanchezza. Invece, all’improvviso, ecco la diagnosi di un tumore al
pancreas. Silente a lungo, ormai a uno stadio avanzato, con dolori persistenti
difficili da attenuare. Inutile l’operazione.
Steso nel letto, chiudo gli occhi. E mi
succede quello che tante volte avevo sentito dire: che in punto di morte tutta
la vita viene ripercorsa, negli episodi chiave, come in un cortometraggio denso
e rapido.
Mi vedo nella culla. Piango disperato e tendo
le manine in alto per essere tirato fuori e abbracciato. Mamma e papà
accorrono, preoccupati e premurosi, e fanno a gara a chi mi deve prendere.
Mentre loro quasi bisticciano e perdono tempo, io piango di un pianto ancora
più forsennato. Non voglio essere abbracciato solo dalla mamma o solo dal papà:
voglio ritrovarmi avvolto fra le loro quattro braccia, una morsa affettuosa e
protettiva che subito placa il mio pianto.
Adesso ho sei anni. Sono un bel bambino dai
tratti fini e gentili. Anche se non sono una bambina, mi piacciono anche le
bambole e per questo spesso bisticcio con Clara, la mia sorellina. Anche se mia
mamma non vuole, scendo ogni tanto in cortile dove si riuniscono e giocano
bambini e bambine del vicinato. Eccoli in un angolo quasi buio, fuori dal
controllo visivo degli adulti, lì si gioca al ‘dottore’: i maschietti fingono
di essere dottori e, con la scusa di visitare le bambine, le toccano
dappertutto. Io a questo gioco non ho voglia di partecipare. Ma non so bene
perché.
Eccomi, a dieci anni, alla scuola media. Sono
il più bravo della classe. Molti, ragazzini e ragazzine, mi chiedono di essere
aiutati per il compito in classe o con qualche opportuno suggerimento durante
l’interrogazione. Io aiuto tutti se posso, ma mi piace soprattutto aiutare
Luigi, che ho scelto come compagno di banco: con il suo sguardo di topolino
timoroso che chiede protezione, mi fa tenerezza e mi viene l’impulso di
carezzarlo. L’altro giorno Sofia, una davvero carina, la più disinvolta e
sfrontata, pensa di ringraziarmi per il compito che le ho corretto: mi dà
all’improvviso un bacio. Proprio sulla bocca. Strano ma non mi piace molto. I
ragazzini mi guardano con invidia - ho avuto un bacio, addirittura sulla bocca,
dalla bella Sofia – ma Luigi fa eccezione: lui non esprime invidia. Mi guarda
come se volesse attirare la mia attenzione, è contrariato. E non capisco
perché.
Adesso siamo ai miei sedici anni. Di ritorno
da scuola trovo mio padre che mi viene incontro e mi mette una mano affettuosa
sulla spalla. La sua espressione è complice, ammiccante, di chi chiede una
confidenza che non si può negare. Fa un sorriso incoraggiante e comincia:
“Allora, Carlo, quando ce la presenti la tua fidanzatina? Io sono certo che ce
l’hai, voi giovani di oggi cominciate molto presto, anche a dodici-tredici
anni. E poi tu sei figlio mio, il sangue non mente… Sappi che la puoi portare
qui a casa, a me e a mamma farebbe proprio piacere conoscerla… A meno che lei
sia così timida da temere questo incontro. Ma tu le puoi assicurare che noi
siamo molto aperti, e non siamo i tipi invadenti che fanno mille domande
inopportune, sappiamo mettere a suo agio qualsiasi ospite. Insomma, noi l’accoglieremo
a braccia aperte. Ok?” Mentre papà parla così, non so come dirgli che la
fidanzata non ce l’ho, che le ragazze mi spaventano più di attrarmi, che quando
qualcuna si è mossa per farmi la corte, io ho trovato mille scuse e mi sono
tirato indietro. Una volta, che gli amici mi incitavano a buttarmi con una
certa Jessica perché si vedeva che le piacevo, mi sono inventato che non era il
mio tipo. Ho salutato tutti e sono andato a casa di Luigi. Siamo rimasti amici
dal tempo della scuola media. Amici adesso anche più di allora.
Io e Luigi non abbiamo fatto l’università,
con grande delusione delle nostre famiglie e soprattutto di mio padre che è
docente di storia. Dopo vari tentennamenti e ripensamenti, ho scoperto che
potrei riuscire bene come parrucchiere. E sto frequentando un corso apposito.
Luigi, forse con minore talento, ha scelto però di seguire la stessa strada: ci
tiene, e ci teniamo entrambi, a rimanere insieme, a non perderci per le strade
della vita. C’è fra noi qualcosa di più dell’amicizia, qualcosa a cui non
osiamo dare il suo nome.
E’ passato qualche anno. Con grandi
sacrifici, facendo i più disparati lavoretti per mettere da parte una discreta
somma, e contraendo un pesante mutuo, riusciamo ad aprire un salone unisex. E
ormai non possiamo più mentire a noi stessi: noi siamo gay. E perciò ci tocca
avere paura, stare attenti – prima di tutto con i clienti del salone – a
nascondere la nostra omosessualità. Si dice spesso che non è più come un tempo,
che ormai c’è tolleranza verso gli omosessuali, ma non è vero. Viviamo in un
ambente ostile e perfino spietato, sono sempre molte e terribili le aggressioni
omofobe.
Mia madre ha capito, anche da parecchio
tempo, la mia natura. Ma non mi dice niente, non mi condanna, magari mi sorride
con un velo di tristezza. Tanto meno introduce l’argomento con mio padre: lui i
gay non li sopporta, non riesce a concepirli come individui sani, pensa che
sono soltanto mentalmente malati, affetti da una malattia ripugnante.
Devono passare ancora dei mesi perché mio
padre capisca che un omosessuale ce l’ha proprio in famiglia. Alla prima
occasione in cui ci incontriamo, subito mi aggredisce. Mi scuote, mi spinge
contro un muro, mi porta le mani robuste al collo. Prima che io possa dire una
parola, mi grida adirato: “Ma non ti metti vergogna? Tu così disonori la
famiglia, e sputtani anche me che ho fama di macho: la gente si chiederà ”Ma
come ha fatto a fare un figlio così, un frocio, proprio un frocio?”… Oh povero
me! Perché doveva capitare proprio a me una disgrazia così grande, cosa ho
fatto mai tanto di male per meritarmela?” Mi toglie le mani dal collo, abbassa
sconfortato le braccia e, prima che si allontani molto lentamente, gli
sorprendo sul viso qualche lacrima silenziosa. Anche se mi ha aggredito, non ho
risentimento. E non provo a parlargli perché so che non potrei fargli accettare
la mia realtà, non potrei fargli cambiare idea.
Finalmente abbiamo preso coraggio. Io e Luigi
andiamo via da casa, a vivere in un miniappartamento. Non ci importa che sia
molto modesto, piccolo e bisognoso di rinnovo: è lì che io e Luigi ci sentiamo
protetti, e ci possiamo amare, con estenuante tenerezza o con fulminea
violenza. Luigi, il topolino timoroso, trova in me un gatto complice. Il nostro
godimento è pieno, immemore di tutto.
Per sostenere la pressione moralistica del
mondo, per sfuggire alle chiacchiere malevole, decidiamo che abbiamo bisogno di
una ‘copertura’: accompagnarci ognuno ad una donna, che sia a sua volta
lesbica, con il problema analogo al nostro. Cominciamo a frequentare locali
lesbo. Dopo qualche diffidenza e sarcasmo (“Cosa credete di combinare,
maschietti? Qui siamo tutte lesbiche!”), riusciamo a spiegare la nostra
inclinazione sessuale e il nostro intento. Un patto che sarà utile anche a
loro. Troviamo l’accordo, infine, io con una virago di nome Barbara, Luigi con
una punk di nome Alessia. Dopo aver recitato per strada diligentemente la parte
degli eterosessuali, appena arriviamo a casa le due non badano alla triste
modestia dell’alloggio. Subito con disinvoltura si spogliano, si gettano sul
letto e si avvinghiano in un perfetto 69 che sembra interminabile. Io e Luigi
ci eccitiamo e, in piedi di fronte a loro, ci masturbiamo a vicenda.
In visita ai miei genitori ci vado ormai
raramente. E’ passato molto tempo dall’ultima volta. Ci vado per mia madre. Mio
padre non mi vuole nemmeno vedere, nemmeno per aggredirmi, mortificarmi,
umiliarmi. Appena io entro lui se ne esce, con ostentazione. Questa volta trovo
a casa anche mia sorella Clara con i suoi due bambini. Vedo la gioia e la
festosità con cui mia madre li accoglie, figlia e nipotini. A me, che guardo la
scena con distacco e amarezza, rivolge un’occhiata in cui leggo imbarazzo, come
se volesse dirmi, ma non me lo dice: “Vedi come è bello trovarsi una ragazza,
sposarsi e avere dei figli?” Con una scusa vado via presto.
Nascondersi sempre, fingere, camuffarsi –
anche se Barbara e Alessia sono brave e collaborative – è uno stress che
logora. Io e Luigi non ce la facciamo più, abbiamo deciso di infischiarcene
degli eterosessuali benpensanti, di avere più rispetto per noi stessi. Essere
gay deve essere un’opportunità, non un handicap. E così decidiamo finalmente di
uscire allo scoperto. La parata del Gay Pride è pochi giorni dopo e noi ci
partecipiamo. Ma con vestiti normali, quotidiani; siamo disgustati
dall’esibizionismo sfrontato e pacchiano della maggior parte dei partecipanti.
La nostra rivendicazione va mormorata con gusto, non gridata con volgarità.
Fra me e Luigi sono passati molti anni di
sintonia, affiatamento, cieca fiducia. Un giorno però mi capita di ascoltarlo
mentre al cellulare parla con voce bassa e dolce. Lo incalzo, lo richiamo al
nostro giuramento, non nasconderci niente tra noi. Lui tace, cerca di prendere
tempo, di improvvisare una bugia credibile. Ma poi lui stesso ammette che mi
tradisce: è capitato qualche settimana fa, ha incontrato Valentino, un
giovanotto che viene a farsi i capelli nel nostro salone, e si è innamorato di
lui. Io non voglio che Luigi mi lasci, cerco di tenerlo in qualche modo ancora
legato a me. Gli incontri sessuali fra noi diventano rari, imbarazzanti, con un
fondo di colpa sua e di pretesa di possesso mia. Finché arriviamo un giorno a
un chiarimento spietato (“Vai con lui perché è giovane… io ormai sono troppo vecchio
per te, è così?” “Sì, non posso darti torto, volevo carne giovane, e poi noi
eravamo diventati troppo amici, l’amicizia toglie forza al sesso…”). Ci siamo
lasciati definitivamente con queste poche cattiverie, che forse non volevamo
dire perché erano abbastanza false, ma le abbiamo dette. Il salone l’abbiamo
dovuto vendere. Dopo qualche mese ho aperto una scuola per aspiranti
parrucchieri.
Ci ho messo molti mesi per decidermi a farlo,
come se fossi io il traditore e non Luigi: ho cercato un nuovo partner. L’ho
trovato al Gay Pride, Ermanno, vestito come me con misura e discrezione,
piuttosto silenzioso, alquanto sbrigativo a letto, virile in una maniera che mi
è sembrata subito alquanto meccanica, fredda, mai pienamente abbandonato agli
amplessi. Non sono innamorato di lui, e certamente nemmeno lui di me. Non c’è
fra noi niente della magia affettiva ed erotica che c’era fra me e Luigi.
Infine capisco che Ermanno sta con me solo per sfruttarmi economicamente. Lo
caccio malamente di casa. E ritorno solo.
Sto leggendo il giornale, come al solito ogni
mattina: la politica, l’economia, la cultura, lo sport, e infine la cronaca
nera. Non ci voglio credere, non è possibile, ma è così, sta scritto a
caratteri grandi, inequivocabili: Luigi Cupiello, gay cinquantenne, è stato
arrestato per omicidio volontario: ha strangolato il giovane gay Valentino
Cangemi che voleva lasciarlo per un altro. Non perdo tempo, mi precipito da
Luigi in prigione. Ci guardiamo con sgomento, con affetto, con disperazione. I
nostri occhi subito lucidi. A stento tratteniamo le lacrime. Vorremmo toccarci,
ne abbiamo tanta voglia. Ma c’è un vetro fra noi. Io non riesco a tirare fuori
altro che qualche parola scontata; Luigi ripete più volte, come se lo dicesse a
se stesso più che a me: “Sono stato punito, sono stato punito…”
Voglio
andare di nuovo a trovare Luigi in carcere (deve starci in tutto quindici anni,
e questo perché ha usufruito di attenuanti, altrimenti…). So che sarà un
incontro doloroso, emozione e commozione prepotenti. Ma non posso farne a meno,
Luigi mi manca, mi manca troppo. Cerchiamo di comunicare, ma le parole, le
parole giuste, sincere e opportune, stentano a uscire dalle nostre bocche
invano dischiuse. Presto un silenzio prepotente ci avvolge, ci stritola. Ci
lasciamo con un saluto flebile, con rabbiosa amarezza.
E’ passato qualche anno. Solitudine grigia
per me. Ma qualcosa di terribile sta per colpirmi. E’ di nuovo il giornale a
farsi messaggero di tragedia: Luigi si è suicidato in carcere impiccandosi. Mi
bevo molti whiskey; voglio stordirmi,
crollare addormentato e impedirmi di pensare. Invece mi risveglio dal torpore
crescente e so che voglio vedere Luigi un’ultima volta all’obitorio, prima che
sia seppellito. Il guardiano mi chiede se sono un parente, ché solo ai parenti
è consentito quello che chiedo. “Sono un amico.” E aggiungo con tono
significativo: “Sono più che un parente.” Lui mi scruta per un istante frenando
un sorrisetto malevolo che vuol dire che ha capito, ma comunque non basta.
Anche io, a mia volta, ho capito: ci vuole una lauta mancia. All’interno
dell’obitorio fa fresco, un fresco ostile che mi dà un’altra stretta al cuore.
Nel giaciglio, tirato fuori come un cassetto, Luigi sta rigido, legnoso,
rinsecchito, pallido, ma finalmente sereno. Mi sembra ancora una volta un
animaletto, quel topolino timoroso, in cerca di protezione, che conobbi alla
scuola media.
Sono diventato pigro, lento, svogliato.
Eppure potrei continuare a insegnare nella scuola per parrucchieri, tanto più
che i praticanti sono diminuiti. Ma alla fine decido di affidare la direzione a
Sergio, un mio ex allievo molto bravo e affidabile. Io mi rintano in casa,
smarrito e abulico. Poi però mi costringo a reagire. E mi viene una bella idea:
da una foto di me e Luigi, poco più che trentenni, sorridenti mentre ci
abbracciamo, ricavo una gigantografia. La appendo nella camera da letto. La
guardo spesso per rasserenarmi e confortarmi, soprattutto ogni volta che una
difficoltà o una delusione mi turbano.
Sono ormai più che sessantenne. Mi sembra
ridicolo, patetico che io continui a cercare un partner. E rinuncio
definitivamente. In compenso riempio le mura di casa con foto di vip gay, di
differente talento, mestiere e statura culturale, ma accomunati dalla scelta
sessuale: Alan Turing, Nichi Vendola, Aldo Busi, Leo Gullotta, Alessandro
Cecchi Paone, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Alfonso Signorini, Platinette,
Cristiano Malgioglio, Tiziano Ferro, Ivan Cattaneo, Alfonso Pecoraro Scanio,
Paolo Poli, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Marcel Proust, Jack Kerouac,
Charles Bukowski, Freddy Mercury, Miguel Bosé, Boy George, Ricky Martin, George
Michael, Rupert Everett, Elton John… per citarne alcuni. Tutti compagni miei
involontari e ignari, mi fanno sentire meno solo e vulnerabile. Condividiamo
una diversità che in tanti non ci pesa.
Alla soglia dei settanta anni scopro di poter
essere pittore: in fondo non è per me più difficile che essere parrucchiere.
Anzi. All’inizio dipingo un unico soggetto, Luigi naturalmente. Luigi da
ragazzo a scuola, Luigi giovanotto nel nostro salone, Luigi nel nostro
appartamento, Luigi che mi confessa l’amore per Valentino, Luigi dietro le
sbarre della cella, Luigi morto suicida. Sono quadri enormi, con molti
dettagli, anche conturbanti. Riesco a convincere un gallerista gay a ospitare
una mostra dei miei quadri. Fra i visitatori ci sono le contestazioni degli
eterosessuali benpensanti, ma anche l’entusiasmo e il plauso degli omosessuali.
Dopo anni in cui ho dipinto solo Luigi, passo ai vip gay delle cui foto ho
tappezzato le pareti. Così me li sento ancora più vicini, più in sintonia con
me attraverso la mia interpretazione figurativa. Sono anni di grande impegno e
fatica.
Ormai vado verso gli ottanta anni. Non ce la
faccio più a dipingere: subito mi stanco, e poi le mani mi tremano in un inizio
di Parkinson. Penso a una seconda e ultima mostra, sugello e bilancio di tutto
ciò che precede il prossimo congedo dalla vita. La mostra, composta di quadri
non realistici bensì fantasticamente osèe, viene più contestata che ammirata.
Capisco che i tempi non sono ancora maturi per la piena accettazione di noi
omosessuali, nemmeno attraverso il veicolo dell’arte.
Ecco, il lungo sguardo all’indietro finisce
qui. Mentre i dolori non smettono di tormentarmi, non apro gli occhi che fra
poco non potrò più aprire. Nel buio vedo Luigi che mi aspetta. Che mi apre
ancora una volta le braccia.