di Claudio Cajati
Mi presento: sono Giuseppe Gatti, giornalista del
quotidiano Il Gazzettino del Sud. Nella mia autostima sono sempre stato ondivago. Senza giungere alla
patologia della sindrome bipolare (euforia-depressione), ho sempre avuto
bisogno di conferme o smentite dagli altri. Più precisamente, da quelli che
stimo e credo capaci, valutandomi con soggettività diverse dalla mia, di
restituirmi una coralità che bilanci il mio tentennante egocentrismo.
Ho saputo da poco che ho un tumore alla prostata. Ma
scoperto nella fase iniziale. Un’operazione e via. Allora mi è venuta la
brillante idea: nella nostra redazione c’è un gruppo di colleghi specializzati
nei coccodrilli… ma non i coccodrilli intesi come tremendi rettili dai denti
micidiali, bensì i coccodrilli giornalistici. Cioè i necrologi scritti in
anticipo, sulla vita di personaggi noti, al fine di averli immediatamente pronti non appena giunga la
notizia della loro morte. Cosa ho fatto allora? Ho finto con i colleghi di
avere un tumore maligno, con poche settimane ancora di vita, e ho chiesto loro
di scrivere dei coccodrilli per me, anche se non sono un personaggio noto. L’ho
chiesto come un omaggio per un bilancio definitivo, nel bene e nel male. E perciò
non l’ho chiesto solo a quelli che sono grandi amici miei, ma anche a quelli
indifferenti, e perfino a quelli che mi hanno contrastato sempre, mostrando
antipatia. L’ho chiesto con la raccomandazione di essere assolutamente sinceri,
senza esagerazioni nei lati positivi, senza censure in quelli negativi. Io poi
proverò a fare una sintesi equilibrata.
I colleghi esperti in coccodrilli sono sette. Tre sono miei
amici per la pelle: Claudio Fidanza, Paolo Landi e Sergio Sannino; due sono
indifferenti, né amici né nemici: Fulvio Piccirillo e Filippo Caturano; due
sono, se non proprio nemici, certo avversari e tirapiedi: Romano Nocchi e
Cesare Quintavalle.
Claudio, Paolo e Sergio inizialmente non hanno
proprio preso in considerazione l’invito a scrivere dei coccodrilli per me.
Sgomenti e premurosi, si sono invece soffermati a chiedere più notizie sulla
mia malattia, a sollecitare nuovi esami per smentire la diagnosi infausta, a
sostenere che sono un uomo troppo forte e combattivo per arrendermi… Ho dovuto
forzarmi per ribadire la bugia del tumore maligno con ancora poco per
sopravvivere, e ho dovuto sudare le fatidiche sette camicie per convincerli a
scrivere i coccodrilli. “Voi siete miei grandi amici, allora non esagerate in
positivo, mi raccomando, siate quanto più imparziali potete. Ok?”. A Fulvio e
Filippo ho detto che avevo bisogno di un loro giudizio misurato, e che avrei
tenuto in gran conto i loro coccodrilli su di me. Loro sono rimasti sorpresi,
ma anche lusingati per la chiara considerazione che io mostravo finalmente per
la loro intelligenza e sensibilità. A Romano e Cesare, infine, ho detto che nel
mio procedere ondivago mi ero spesso sbilanciato dal lato di una eccessiva
autostima, e che quindi avevo bisogno dei loro coccodrilli, certo più inclini a
mostrare i miei lati negativi, il che mi serviva per morire con una equilibrata
coscienza di me, con un valido bilancio della mia vita. Loro accettarono,
sospettosi ma anche intrigati da questa nuova singolare prova.
I primi coccodrilli che ricevetti, furono quelli di
Fulvio e Filippo, i colleghi né amici né nemici.
Quello di Fulvio diceva: “E’ scomparso, a soli
sessanta anni, Giuseppe Gatti, brillante giornalista de Il Gazzettino del Sud, vinto da un tumore inguaribile. Uomo
riservato, educato, perfino timido, Giuseppe lascia la moglie e due figli. Il
suo stile era stringato, la sua ambizione mai smodata; sapeva apprezzare il
lavoro degli altri ma senza espliciti riconoscimenti. Si è anche esercitato,
con la sua versatilità amatoriale, nel disegno e nella narrativa, pubblicando
romanzi e racconti, senza grande successo. Si mormorava che lui, fedele al suo
cognome, preferisse i felini agli esseri umani, ma di questo, vero o falso che
fosse, egli non me ne parlò mai.”
Quello di Filippo diceva: “Un male inguaribile ci ha
strappato in poche settimane Giuseppe Gatti, nostro collega de Il Gazzettino del Sud, a soli sessanta
anni, lasciando sgomenti la moglie e due figli. Giuseppe, talentuoso, precoce e
presto esperto, era soprattutto un timido: non esternava quasi mai le sue
valutazioni e i suoi sentimenti. Ai colleghi, validissimi anch’essi, riservava
un consenso quasi muto, fuggevole e sommesso. La sua timidezza e il suo rifiuto
degli intrighi non gli hanno consentito il successo anche nella narrativa,
nella quale ha esercitato la sua versatilità. Oltre alla famiglia, Giuseppe era
molto legato agli animali, ma soprattutto ai gatti (nomen omen, si direbbe) ai
quali si favoleggia parlasse come ai cristiani. Ma sono voci di seconda mano.”
Poi mi sono arrivati i coccodrilli degli avversari e
tirapiedi, Romano e Cesare. Sono stati seri, fedeli alla loro pacata ostilità
verso di me.
Romano ha scritto: “Giuseppe Gatti, nostro collega a
Il Gazzettino del Sud, è morto a sessant’anni per un
tumore alla prostata. Tipo ombroso, esageratamente riservato, sempre di poche
parole, aveva difficoltà a inserirsi socialmente, perfino nell’ambito della
redazione in cui avrebbe dovuto sentirsi accettato e protetto. La sua velleità
di proporsi anche come narratore, lo portò a scrivere e pubblicare, con piccole
case editrici, racconti di vario genere, ma sempre senza alcun riscontro di
pubblico e di critica. Il Gatti poi ha sempre avuto una passione smodata per i
gatti (ovvio, visto il cognome?), passione che negli ultimi tempi era diventata
una singolare ossessione e che lo allontanava sempre più dai suoi simili:
arrivava a parlare ai felini piuttosto che agli esseri umani!”
Il coccodrillo di Cesare diceva: “Il nostro collega
Giuseppe Gatti è morto per un tumore alla prostata colpevolmente trascurato.
Non era un compagnone, un animatore del gruppo, uno che fa amicizia: bisognava
tirargli le parole dalla bocca con una specie di forcipe; non parlava mai della
sua famiglia, dei suoi gusti, del suo orientamento politico. Il Gatti non era
interessato alla vita dei suoi colleghi, e si limitava a leggerne, di tanto intanto,
i pezzi che avevano scritto, senza mai congratularsi apertamente. Tipo
versatile, ma in senso velleitario, tentò anche la carriera di scrittore, ma
con esiti disastrosi. Infine la sua incomprensibile passione per i gatti (ah
già, il cognome!) lo aveva portato ultimamente a uscire proprio di testa, a
parlare ai suoi amati felini e a sperare, o pretendere, che quelli gli
rispondessero!”
Infine ricevei i coccodrilli dei miei grandi amici,
Claudio, Paolo e Sergio.
Il coccodrillo di Claudio era: “Ci sono persone che
non dovrebbero morire, tanto è il loro valore e il bene che sanno fare agli
altri. Noi della redazione del quotidiano Il
Gazzettino del Sud abbiamo conosciuto una persona così: Giuseppe Gatti, che
un destino impietoso ci ha sottratto. Giornalista di grande talento e
faticatore instancabile, individuo apparentemente egocentrico, e invece timido,
riservato, di profonda umanità e benevola ironia, Giuseppe era sempre pronto ad
aiutare chi fosse in difficoltà. I suoi interventi, orali o scritti, non erano
mai banali, bensì capaci di affrontare ogni problema da un punto di vista
inedito. Tentò anche la carriera dello scrittore, ma i suoi romanzi e racconti,
che io ho avuto il privilegio di leggere, non ottennero il successo che pure
meritavano. La sua religiosità - che non ostentava mai - lo portava a concepire
e sentire profondamente il respiro globale della Natura, ad amare esseri umani,
animali, piante, minerali alla stessa maniera. Ma la sua passione più forte
erano i gatti, come se avesse dovuto corrispondere al suo cognome. Negli ultimi
tempi circolava la voce, maligna e infondata, che egli amasse i suoi mici, una
ventina, addirittura più dei suoi figli, Christian e Salvo. E che questa
aberrazione si spingesse fino a tentare di imbastire dei dialoghi con i suoi
gatti! Queste menzogne, che partorivano prese in giro micidiali, amareggiarono
i suoi ultimi giorni, ma signorilmente Giuseppe non reagì mai.”
Paolo mi ha scritto: “Qui, nella redazione de Il Gazzettino del Sud, c’è rabbia e
sgomento per una morte crudele: a soli sessant’anni ci ha lasciato, per un male
incurabile, Giuseppe Gatti, grande giornalista e fantastico amico. A sua moglie
Veronica e ai figli Christian e Salvo, l’espressione del nostro vivissimo
cordoglio. Giuseppe si è distinto in ogni aspetto fondamentale della vita. In
famiglia per l’amore discreto e profondo; in redazione per l’attaccamento al
lavoro e l’originalità dei suoi pezzi, al tempo stesso molto seri e ironici;
nelle amicizie per la capacità di mettersi nei panni degli altri e di ascoltarli
in silenzio. Non parlava molto e non era prolisso nello scrivere. Era stringato
ed essenziale, secondo il precetto: non dire con molte parole quello che puoi
dire con poche. Si cimentò anche nella narrativa, producendo romanzi e racconti
che ho letto e apprezzato; ma non ebbe successo, forse il mondo dei lettori non
era pronto. Religiosissimo, senza essere praticante, Giuseppe amava tutti gli esseri
della Natura. In particolare gli animali e, più di tutti, i gatti. In casa era
arrivato ad averne una ventina! Dobbiamo credere che negli ultimi tempi, uscito
di testa, ai suoi mici ci parlava e addirittura si aspettava le risposte? Non
lo so, non mi azzardo a dire sì o no: Giuseppe era una persona aperta che
magari custodiva un segreto incredibile.”
Il
coccodrillo di Sergio, infine, diceva: “Quando muore un grande amico, un vuoto
amaro si apre in noi. E’ questo il caso della scomparsa di Giuseppe Gatti,
brillante giornalista de Il Gazzettino
del Sud, stroncato da un male incurabile a soli sessant’anni. Marito e
padre modello, lascia affranti e sgomenti la moglie Veronica e i figli
Christian e Salvo. Giuseppe era persona molto riservata, ma capace di aprirsi
ai problemi degli altri con generoso slancio. Non era praticante in chiesa,
eppure profondamente religioso, con un eccezionale senso della sacralità della
vita, quella vita che avrebbe voluto eterna, e invece… I suoi straordinari
pezzi giornalistici, animati da una sottile ironia, erano sempre originali, e
finivano per conquistare il consenso perfino degli individui bersagliati. Meritava
il successo anche come scrittore – scrisse romanzi e racconti notevoli – ma il
mondo editoriale gli chiuse inspiegabilmente le porte. Ultimamente si era un
po’ chiuso in sé, forse per la malattia, ma sicuramente per i pettegolezzi e le
prese in giro di cui era oggetto: circolava la voce che egli preferisse ormai
parlare agli animali piuttosto che agli esseri umani: in particolare ai gatti,
sua passione estrema sin dall’infanzia. Non credo che ciò sia vero. Ma è certo
che Giuseppe aveva un tale bisogno di amare e comunicare che non poteva
limitarsi al campo degli esseri umani. Anche i suoi gatti, non solo noi
colleghi, patiranno la sua mancanza.”
Ho ringraziato tutti e sette i colleghi, gli amici, gli
indifferenti e gli avversari, per il dono prezioso che mi avevano fatto. Avevo
chiesto loro i coccodrilli pensando di farne poi una sintesi, equilibrata e
credibile, che mi consentisse di sottrarmi alla mia autostima ondivaga. Invece
mi sono accorto che anche i tre più lusinghieri, quelli di Claudio, Paolo e
Sergio, erano inadeguati, parziali. Io ero qualcosa di più e di diverso. A
questo punto era necessario che il mio coccodrillo me lo scrivessi io.
Diceva così: “La morte è un’opportunità per stilare
un profilo definitivo, un bilancio conclusivo della vita di un individuo. Così
anche chi non è un personaggio noto, può meritare un coccodrillo. Giuseppe
Gatti è morto a soli sessant’anni, lui che sognava di camparne cento, vinto da
un male implacabile, un male che non guarda in faccia a nessuno, che colpisce
alla cieca chiunque. Giuseppe lavorava come giornalista a Il Gazzettino del Sud, ed era stimato per la sua serietà
professionale, per l’originalità dei suoi pezzi in cui coesistevano una
tremenda severità e una divertita ironia. Individuo taciturno spesso e volentieri,
apparentemente introverso ed egocentrico, era capace di sorprendere tutti con
esternazioni diluviali, con partecipazioni accorate ai problemi degli altri,
con espressioni creative rare ma impressionanti. Giuseppe, però, sognava di
sfondare in un altro campo, quello della narrativa, e scriveva le sere e le notti,
circondato dalla perplessità e contrarietà della famiglia, romanzi e racconti.
Non possedendo l’arte della diplomazia, dell’intrigo e dell’inciucio, i suoi
testi narrativi, pubblicati con case editrici minori, non ebbero alcun
successo: un flop spaventoso che lo amareggiò molto, una ferita che non si
sarebbe mai più rimarginata. Giuseppe conteneva in sé enormi clamorose
contraddizioni: era religiosissimo eppure erotomane, era pusillanime eppure
pronto a sfidare il pericolo pur di aiutare qualcuno, era legato alla famiglia
eppure stakanovista nella fedeltà al suo lavoro, era lucidamente razionale ma
incline alla commozione e al pianto, ottimista o pessimista a seconda delle
occasioni. La sua religiosità, aliena dall’adesione a qualsiasi religione
storica, lo proiettava gioiosamente in contatto con la Natura in tutte le sue
manifestazioni, anche quelle di solto giudicate sgradevoli e pericolose. La sua
irrefrenabile passione per i gatti, che ad alcuni appariva una risibile
stravaganza, era il fil rouge della
sua vita domestica. Era arrivato a concepire il Gatto come il culmine della
creazione divina: non si vergognava a fare cose inaudite, che gli attiravano
ogni tipo di sfottò, come tenere lunghi dibattiti con i suoi gatti, sicuro che
pur parlando linguaggi diversi, lui e i mici si intendessero. In punto di morte
volle accanto a sé, oltre alla moglie Veronica e i figli Christian e Salvo,
tutti i suoi gatti. E quella fu, come disse lui, una Bella Morte.”
Ai colleghi non ho rivelato che avevo mentito loro,
che non avevo nessun tumore maligno e nessuna sentenza di morte imminente.
Quando si è reso evidente che sopravvivevo tranquillamente, con un sorriso ho
detto, sfruttando la mia notoria religiosità: “Il Signore, nella sua infinita
bontà, mi ha graziato.”