Alfabeti e disegni
La calligrafia di Ugo Pratt
di Giacomo Ricci
«Il mio disegno cerca di essere
scrittura. Disegno la mia scrittura, scrivo i miei disegni».
Straordinarie queste parole di
Hugo Pratt, come ho già detto in precedenza. A questo proposito vorrei esporvi
una mia particolare teoria. La quale suggerirebbe che Pratt abbia avuto tanto
successo perché, sul piano del disegno, sia riuscito a costruire, libero da
ogni inibizione «realistica», un alfabeto completo e complesso di simboli
iconici. Proprio come fa un
bambino. E che la sua «scrittura di
parole disegnate» rappresenti una consapevole e deliberata ricostruzione dello
spazio creativo-compositivo tipico dei bambini.
Anzi, diciamola meglio: in cui i
bambini eccellono.
Dimensione spaziale e
immaginativa che artisti famosi, per tutta
la vita, tentano disperatamente di riconquistare, riuscendoci solo in alcuni
casi limitati e molto particolari. Sto,
per esempio, pensando a Marc Chagall e le sue deliziose figure che volano in
cielo o Paul Klee e alla sua Storia
naturale infinita, ai segni elementari che compongono le sue creazioni
grafiche, le sue calligrafie, i suoi preziosismi iconici, i suoi alfabeti
inusitati e fantastici.
Quando un bambino s’impossessa di
un foglio di carta e compone in piena libertà non ha nessuna paura del vuoto
del bianco del foglio. E’ come se i segni già ci fossero e lui,
michelangiolescamente, non facesse che ricalcarli, portarli alla luce. Paura,
vero e proprio horror vacui, che, al
contrario, appartiene ad ognuno di noi, del mondo adulto.
Il foglio di carta bianca è
spiazzante, spaesante, disorienta. Per ricomporci dobbiamo subito creare
confini, cornici, punti di riferimento, direzioni da seguire nel nostro
percorso.
Un bambino che disegna lo fa con
grande maestria e disinvoltura, ponendo esattamente ogni elemento al suo posto.
Ognuno con il suo significato univocamente fissato, stabile. Il sole è il sole,
la linea di terra è la base sulla quale poggiano i piedi e il fondo tutti i
personaggi e le cose che entrano nella sua “storia disegnata”. Non fa niente
che i raggi del sole siano stortignaccoli e questi somigli più a uno
scarrafone che non al nostro astro splendente nel cielo. E così le gallinelle
stanno con le zampe a terra e magari beccano, il cavallo ha la coda al posto
suo e le colline si alzano dolci sullo sfondo con tante verzette spennate che,
li riconosciamo subito, sono tanti
splendidi alberi di un bosco lontano.
Ogni cosa ha il suo senso e lo
acquista anche e soprattutto dal rapporto che stabilisce con gli altri elementi presenti nella scena. Cioè, architettonicamente parlando, tutto è
«composto», giustapposto, piazzato, cioè, al «posto giusto» nei confronti delle
altre entità vive che lo circondano.
I bambini sono eccellenti
compositori. Hanno il senso della composizione e dello spazio.
E mai parola come «scena» fu più
adatta per descrivere un’opera compositiva di questo tipo, perché quella del
bambino è una rappresentazione teatrale dove ogni personaggio recita il suo
ruolo e lui, il bambino-regista, integra, con le parole, con il racconto che
fluisce sicuro dalla sua testa, quello che sta accadendo sul foglio di carta.
Calligrafia pura, quella di un bimbo
che disegna. Forma e significati coincidono e sono inscindibili. Un’unità
semantico-linguistica inattaccabile, inespugnabile da qualsiasi attrezzo
critico, per quanto affilato e crudele esso possa essere.
Per Pratt, l’area in un frame, in
una vignetta circondata dal suo bordo quadrato-rettangolare, è, dunque, spazio semantico riguadagnato. Espressione
riacciuffata da un’infanzia lontana, che sembrava perduta per sempre. Corto
Maltese si muove in un universo simbolico significante di segni catalogati e
fissati. Il suo berretto, i lunghi favoriti, l’anello all’orecchio, il sorriso
enigmatico e romantico, i capelli ricci e la sua giacca, le lunghe gambe, quasi
due pertiche, infilate in lunghi
pantaloni bianchi a campana che
svolazzano al vento fittizio della scena sono i segni di un alfabeto
grafico-immaginifico stupendo e coinvolgente, che ci porta lontano con lui a
navigare in mari salatissimi che circondano isole e terre di sogno. Tra
un’umanità selvaggia e pulita. Proprio come fece Stevenson andandosene a vivere
nelle isole Samoa l’ultimo periodo della sua vita.
E qui fu ripagato. Tusisala lo
chiamavano gli abitanti di quei lontani mari, «raccontatore di storie», ripagandolo,
gratificandolo molto più della civiltà che aveva abbandonato che considerava la
sua splendida letteratura d’avventura con sufficienza critica,
sottovalutandola, impoverendola di significato.
Nel bambino e in Pratt i segni,
per la loro fissità mobile e la loro stabilità concettuale danno, a un tempo, sicurezza
a chi legge, perché privi di qualsiasi ambiguità semantica, e aprono, proprio
come le parole a volte sanno fare, lo spazio della poesia.
Poesia, quella di Pratt, che
appartiene, dunque, a un mondo dell’infanzia rivisitato. In un’essenzialità vibrante e musicale.
Su questa base di segni carichi
di significati, Pratt costruisce i
tratti che caratterizzano i suoi personaggi.
La sua narrazione eredita, a
parere mio, le dinamiche proprie di Robert Louis Stevenson, come si sarà
capito, autore nel quale i personaggi ,
pur nel loro contrapporsi-completarsi, sono derivati dal tormento e dalla complessità
dell’animo umano che non è tutto bianco o nero, ma frutto della contraddizione.
Mi sto riferendo, ovviamente, alla situazione descritta in Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hide. Straordinaria
anticipazione di inconscio, Es, conflitti, complessi, SuperIo che solo più
tardi sarebbero stati teorizzati e sistematizzati da Freud. Il male, dice
Stevenson non è altro da noi. Il fratello terribile, la bestia, l’orrore è
tutto dentro di noi. E basta poco per scatenarlo in tutta la sua ferocia e dal
nostro profondo passare ad invadere la terra e gli uomini, seminando orrore,
tormento, sterminio.
Ecco qui, in forma poetica e di
racconto, anticipata la sorte dell’Europa di qualche decennio di lì da venire,
con gli orrori e gli stermini nazisti e la devastante figura del fratello più
nero di qualsiasi immaginazione possibile, Hitler e la sua «follia».
E qui è necessaria una
digressione. Ma si tratta solo in apparenza di divagazione.
Io sono convinto che, oggi, tutto
quello che ha che fare con la lingua scritta, almeno qui da noi, In Italia, sia
in profonda crisi. Certamente è la conseguenza di una più generale crisi
sociale ed economica. Ma è anche una conseguenza del mondo dell’immagine rapida
e sfuggente, che non fa a tempo ad apparire da essere già obsoleta e morta.
L’immagine di consumo, rapida, effimera, televisiva è studiata apposta per una
comunicazione pervasiva, istintuale, profonda, impressionante, coinvolgente e,
dico io, devastante. Si tratta del
trionfo-declino di ogni forma di linguaggio che per questo effimero trionfo, si
trasforma in puro veicolo di merce. E per questo scopo, per il trionfo del
mercato, stiamo sacrificando sull’altare
della sopravvivenza del capitalismo uno dei primati più importanti dell’uomo
sul piano intellettuale e conoscitivo. Mi riferisco alla lingua, alla scrittura,
la letteratura, in ultima analisi.
Perché tutto il meccanismo di
decodifica lingua scritta-significato con la sua faticosa conquista, viene bypassato,
messo in secondo piano. Per una comunicazione diretta, istintuale, devastante,
basata sull’immagine effimera di cui ho detto.
Sul piano istintuale, dunque,
stiamo tornando indietro, a una comunicazione prelinguistica, prealfabetica. O
almeno assai semplificata, da apparire rudimentale, imprecisa, scarna, banale,
e, in definitiva, vuota.
Ecco che allora il tentativo del
fumetto che ripone in collegamento tra loro immagini e parole appare degno di
nuovo interesse.
E appare tale tutto il lavoro di
Pratt di cui abbiamo ricordato ora il significato.
Che poi questo lavoro sia
intenzionale è esplicitamente evidente in Pratt che interviene moltissime
volte intorno al valore del rapporto
icona disegnata-parola. Lo fa con esplicite strip a questo dedicate.
C’è, da parte sua, anche un
legame profondo con i miniaturisti medievali, le icone e così via.
Ecco che il lavoro di Pratt nella
costruzione di una sua personale calligrafia presenta elementi di grande interesse
dal punto di vista del discorso che qui si svolge. Che andrebbero analizzati
puntualmente come fondativi di un suo alfabeto personale o, meglio, di un suo
vero e proprio vocabolario grafico.
E qui intendo con
quest’espressione un qualcosa che noi, nella nostra articolazione linguistica
basata su fonemi, non possediamo più e che, nella nostra infanzia, era uno
degli elementi caratterizzanti la nostra creatività.
Il vocabolario grafico si basa su
ideogrammi o iconogrammi propri delle costruzioni linguistiche più antiche,
dove ogni simbolo era figurativamente individuato e corposamente evidente,
senza alcuna derivazione basata su fonemi e astrazioni come le lettere
dell’alfabeto cui siamo oggi abituati.
Pratt conduce, in maniera del
tutto arbitraria, è ovvio, la sua comunicazione scritta-disegnata verso uno
status di questo tipo.
Molti simboli, linee che
attraversano il quadro, macchie più o meno ondeggianti, ellittiche, ombre come vere e proprie calligrafie, segno ondulati
che delineano abbigliamento e tratti del corpo, chiari stereotipi che
individuano un volto, sbaffi arricciati al posto dei capelli, tutto questo
repertorio insomma, è classificabile, si ripete, cioè, con una certa frequenza
non soltanto nello stesso racconto ma anche in molti altri e finisce per rassicurare
il lettore, immergendolo in un mondo di comunicazione definito e delimitato.
Questa permanenza dei segni serve
alla coppia autore/lettore,
Pratt/io-che-leggo, per stabilire una forza collaborativa che dà
sostanza al testo scritto-disegnato.
Niente più e niente meno di
quello che fa un bambino nel suo universo di significanti grafici fino a quando
non è costretto a una vera e propria frenesia del realismo e della
rassomiglianza.
Allora, se questa teoria in
qualche modo si regge, come dicevo all’inizio, il successo di Pratt starebbe
tutto nella riconquista del mondo espressivo infantile-adolescenziale che siamo
stati costretti ad abbandonare.
E questa digressione favolistica
ci rapisce, ci restituisce una dimensione dimenticata ma che, da qualche parte,
si nasconde dentro di noi.
E Corto-Pratt diventa un compagno
di viaggio che ci conduce per mano verso quel mondo meraviglioso che credevamo
di aver perduto e che invece era a due passi da noi. Bastava allungare la mano
per afferrarlo di nuovo.
E il sorriso di Corto diventa
complice, ci mette sicurezza. E corriamo per i mari con lui, verso isole
felici.