di Giacomo Ricci
E' un po' lungo, ma vale la pena
leggerlo tutto, ve lo assicuro.
Divertente e soprattutto istruttivo.
Mi è successo davvero qualche tempo fa:
Divertente e soprattutto istruttivo.
Mi è successo davvero qualche tempo fa:
Allora, una mattina, verso le 11.00, sono
stato invitato, senza rendermene conto, a uno spettacolo teatrale di alta
recitazione, al modico prezzo del biglietto di soli 10 euro.
Come?
Se avete pazienza, ve lo spiego. Anche perché così farete in modo di non capitarci pure voi.
Ero all’ingresso del parcheggio Brin. Ci avevo depositato l’automobile un paio d’ore prima. Avevo sbrigato le mie commissioni a Napoli e mi apprestavo a tornare a casa.
Mentre entravo per ritirare la macchina, ho sentito un clacson scampanellare allegro e persistente. Mi sono voltato. E ho visto una macchina bianca con un tizio che da lontano si sbracciava per salutarmi.
In genere non mi fermo per strada. Ma spesso lo faccio perché incontro miei ex-allievi. Ed è sempre una festa. Uno dei pochi vantaggi di aver insegnato per tutta la vita. Spesso si tratta di ragazzi diventati uomini, irriconoscibili nel passaggio dalla giovinezza all’età matura.
Il tizio dalla macchina bianca ha aperto la portiera e ha detto «Professore, che piacere!».
E’ una specie di parola d’ordine. Se avesse detto «architetto», «ingegnere» o «signore» con eleganza, ma fermo, lo avrei mandato a quel paese. Perché odio gli attacca-bottoni.
Ma la parola «professore» è un passepartout del mio cuore. Incontrare un ex-allievo è sempre una festa, un ricordo, uno scambio di parole d’affetto. Quando una persona si ferma per strada per salutare un suo ex-professore lo fa perché ne ha un buon ricordo e dunque è una bella occasione per scambiare due chiacchiere. Si riesce, anche se in poche battute, a raccontarsi la propria visione del mondo. Mirabile sintesi dovuta alla fretta e al ricordo.
Il tizio mi viene incontro. L’aspetto dell’ex-fuoricorso invecchiato ce l’ha tutto. Camicia bianca, barba lunga, viso tondo e panza che trasborda dalla cinghia. Capelli corti e occhiali quadrati da intellettuale un po’ passatello. Il tipico allievo che ora è preso dal lavoro e dai problemi.
Si avvicina e mi tende la mano.
«Professore, a parte gli occhiali, lei è rimasto tale e quale, dopo tanti anni. Dio mio quanto tempo è passato».
Gli faccio la domanda di rito.
«Chi sei? Sai, siete in tanti, che non mi ricordo di tutti, non è possibile…» mi giustifico.
«Ma come, io sono il figlio dell’ingegnere Peppino Gentile. Non vi ricordate di me?».
Come succede sempre la mia mente insegue i ricordi. Ma di questo ingegnere Gentile non trovo traccia. Però, lo sapete meglio di me, quando la nostra memoria fa difetto, ci sentiamo sempre in colpa e abbozziamo. Facciamo finta di ricordare anche se, andando indietro, non troviamo proprio nulla.
Niente. Il vuoto più assoluto.
«Ma fammi ricordare» incalzo, «quando tempo fa?»
Spero che, come fanno gli altri, mi ricordi l’anno accademico, il corso tra i tanti che ho tenuto, negli anni, che magari mi ricordi all’epoca di chi ero assistente.
«Scusate prof ma voi adesso di cosa vi occupate? Non vi ricordate?».
Non capisco. Ma mi viene in mente un simpaticissimo mio collega geometra, quando facevo il disegnatore per il professore De Luca, mio maestro amatissimo. Il pensiero corre. Cerco di trovare somiglianze. Volendo, quella faccia irsuta e occhialuta che mi sta davanti potrebbe essere il figlio di Franco. Ma Franco, simpaticissimo e caro collega disegnatore, non era un ingegnere. Era un disegnatore meccanico. C’è qualcosa che mi sfugge. Sono confuso.
Ma lui mi travolge.
«Ah, prof, non sono più a Napoli. Mi sono trasferito a Milano. Ora siamo qui, con il mio gruppo, perché ci stiamo occupando del Grande Albergo d’Oriente e della Sala Paradiso. E’ un lavoro complesso. E poi il ritorno in questa città di merda…».
Lo guardo interrogativo.
«Che ti è successo?» chiedo.
«Niente. Faccio fare il pieno e invece del diesel mi fanno il pieno di super. La mercedes buttata. Mi hanno dato questa caccavella» e indica la macchinetta bianca, con una bella botta avanti sul parafango.
Non so perché ma il fatto di infilare il tubo della pompa di super nell’imboccatura del diesel mi pare strana. Non c’è un anello che lo impedisce, a prova di sbadataggine del rifornitore di carburante? Pensiero involontario, il mio. Ma in queste cose, sono una frana. Forse ricordo male.
«Prof e voi dove abitate?» mi chiede incalzando.
«Io a Furore».
Lui fa uno sforzo. Ci arriva
«Ah mi pare lungo la costiera…»
«Sì in Costiera amalfitana» dico.
«Fate bene. E ora di che vi occupate?».
Ma come, non sa che faccio l’architetto e che mi ha apostrofato lui stesso come prof?
Non riesco a mettere a fuoco perché lui parla, parla. E’ come una mitragliatrice.
«Prof. Datemi un vostro biglietto, così quando mi trovo in Costiera ci facciamo una mangiata di pesce a Cetara».
«Non ho biglietto. Vuoi il cellulare?»
«Ecco, sì. Va bene».
Gli compito il numero. Lui lo trascrive rapidissimo.
E si deve ricordare anche il mio nome perché non me lo chiede.
Poi, come se prendesse una decisione importante.
«Prof, per ricordo vi voglio dare il mio campionario».
Non so perché non fisso la parola «campionario» nella mia mente. La scambio, in maniera del tutto involontaria, per «catalogo» che più si addice a un ex-allievo di architettura, un catalogo di progetti, di realizzazioni che ha fatto con la sua ditta. E sì, mi fa piacere averlo.
Mi conduce al sedile di retro della sua macchina. Apre lo sportello. Ne cava fuori una busta me la affida da tenere con le due mani. Ci infila dentro una busta di plastica nella quale vedo, ben piegata una specie di giacchetta scura e poi ci infila una borsetta.
Io non capisco. Mi sento come un cretino.
«Ma che devo fare con questa roba?» gli chiedo.
«Per quanto vi prego, prof. Io sono felice che la teniate come mio ricordo».
Poi, prima che io possa dire una parola, mi abbraccia e mi bacia sulle guance da un lato e dall’altro. Mi stringe la mano con calore.
«Che piacere incontrarvi dopo tanto tempo. Uno di quei piaceri rari».
Io sorrido. Ma devo avere la faccia del fesso. Quasi quasi me ne rendo conto.
Non capisco.
«Ci dobbiamo vedere a Cetara. Una spasella di alici fritte e polpetielli…».
Io sorrido come uno che non capisce e non sa che fare.
Lui indugia. Fa per andarsene. Poi come se gli venisse in mente in quel momento.
«Prof vi devo chiedere un aiuto per la benzina».
Così, abrupto, non capisco.
Poi mi rendo conto. Il tizio vuole dei soldi.
Per fortuna nella tasca della camicia, in petto, ho dieci euro.
Gliele passo, giustificandomi.
«Mi dispiace. Ho solo questo. Ma con dieci euro di benzina hai voglia di caminar…».
Non mi fa finire.
«Uhà, prof, solo dieci euro? E non avete altro?».
E mentre dice così mi guarda come scusandomi ma come uno che allora deve prendere un provvedimento perché la cifra è proprio bassa e mi sfila, con rapidità e destrezza ,la busta dalle mani. Che, tra l’altro, io volentieri gli cedo perché mi brucia tra le dita come fosse incandescente. Sono felice di liberarmene.
«Prof allora ci vediamo a Cetara. Ci dobbiamo fare una panza di alici».
Monta in macchina e se ne va veloce. Sparendo alla mia vista.
Io rimango come un cretino. Felice, però, di essermene liberato per solo dieci euro.
Uno spettacolo che vale più di quanto mi è costato. Una bravura incredibile quella del tizio, nel prendere in giro i gonzi come me.
E non riesco ad arrabbiarmi. Anzi comincio a ridere come un idiota, mentre rientro al Brin per prendere la mia auto e tornarmene a casa.
Se qualcuno vi chiama da un auto e non lo conoscete, ovviamente non fermatevi.
Ringraziate con gentilezza, fate finta di non capire e andate via.
Vedreste questo spettacolo. Che è bello se raccontato da altri e fa anche divertire.
Ma vi assicuro che se ci capitate di persona, un po’ presi per il culo poi vi sentireste.
Ed è sempre meglio farne a meno.
Come?
Se avete pazienza, ve lo spiego. Anche perché così farete in modo di non capitarci pure voi.
Ero all’ingresso del parcheggio Brin. Ci avevo depositato l’automobile un paio d’ore prima. Avevo sbrigato le mie commissioni a Napoli e mi apprestavo a tornare a casa.
Mentre entravo per ritirare la macchina, ho sentito un clacson scampanellare allegro e persistente. Mi sono voltato. E ho visto una macchina bianca con un tizio che da lontano si sbracciava per salutarmi.
In genere non mi fermo per strada. Ma spesso lo faccio perché incontro miei ex-allievi. Ed è sempre una festa. Uno dei pochi vantaggi di aver insegnato per tutta la vita. Spesso si tratta di ragazzi diventati uomini, irriconoscibili nel passaggio dalla giovinezza all’età matura.
Il tizio dalla macchina bianca ha aperto la portiera e ha detto «Professore, che piacere!».
E’ una specie di parola d’ordine. Se avesse detto «architetto», «ingegnere» o «signore» con eleganza, ma fermo, lo avrei mandato a quel paese. Perché odio gli attacca-bottoni.
Ma la parola «professore» è un passepartout del mio cuore. Incontrare un ex-allievo è sempre una festa, un ricordo, uno scambio di parole d’affetto. Quando una persona si ferma per strada per salutare un suo ex-professore lo fa perché ne ha un buon ricordo e dunque è una bella occasione per scambiare due chiacchiere. Si riesce, anche se in poche battute, a raccontarsi la propria visione del mondo. Mirabile sintesi dovuta alla fretta e al ricordo.
Il tizio mi viene incontro. L’aspetto dell’ex-fuoricorso invecchiato ce l’ha tutto. Camicia bianca, barba lunga, viso tondo e panza che trasborda dalla cinghia. Capelli corti e occhiali quadrati da intellettuale un po’ passatello. Il tipico allievo che ora è preso dal lavoro e dai problemi.
Si avvicina e mi tende la mano.
«Professore, a parte gli occhiali, lei è rimasto tale e quale, dopo tanti anni. Dio mio quanto tempo è passato».
Gli faccio la domanda di rito.
«Chi sei? Sai, siete in tanti, che non mi ricordo di tutti, non è possibile…» mi giustifico.
«Ma come, io sono il figlio dell’ingegnere Peppino Gentile. Non vi ricordate di me?».
Come succede sempre la mia mente insegue i ricordi. Ma di questo ingegnere Gentile non trovo traccia. Però, lo sapete meglio di me, quando la nostra memoria fa difetto, ci sentiamo sempre in colpa e abbozziamo. Facciamo finta di ricordare anche se, andando indietro, non troviamo proprio nulla.
Niente. Il vuoto più assoluto.
«Ma fammi ricordare» incalzo, «quando tempo fa?»
Spero che, come fanno gli altri, mi ricordi l’anno accademico, il corso tra i tanti che ho tenuto, negli anni, che magari mi ricordi all’epoca di chi ero assistente.
«Scusate prof ma voi adesso di cosa vi occupate? Non vi ricordate?».
Non capisco. Ma mi viene in mente un simpaticissimo mio collega geometra, quando facevo il disegnatore per il professore De Luca, mio maestro amatissimo. Il pensiero corre. Cerco di trovare somiglianze. Volendo, quella faccia irsuta e occhialuta che mi sta davanti potrebbe essere il figlio di Franco. Ma Franco, simpaticissimo e caro collega disegnatore, non era un ingegnere. Era un disegnatore meccanico. C’è qualcosa che mi sfugge. Sono confuso.
Ma lui mi travolge.
«Ah, prof, non sono più a Napoli. Mi sono trasferito a Milano. Ora siamo qui, con il mio gruppo, perché ci stiamo occupando del Grande Albergo d’Oriente e della Sala Paradiso. E’ un lavoro complesso. E poi il ritorno in questa città di merda…».
Lo guardo interrogativo.
«Che ti è successo?» chiedo.
«Niente. Faccio fare il pieno e invece del diesel mi fanno il pieno di super. La mercedes buttata. Mi hanno dato questa caccavella» e indica la macchinetta bianca, con una bella botta avanti sul parafango.
Non so perché ma il fatto di infilare il tubo della pompa di super nell’imboccatura del diesel mi pare strana. Non c’è un anello che lo impedisce, a prova di sbadataggine del rifornitore di carburante? Pensiero involontario, il mio. Ma in queste cose, sono una frana. Forse ricordo male.
«Prof e voi dove abitate?» mi chiede incalzando.
«Io a Furore».
Lui fa uno sforzo. Ci arriva
«Ah mi pare lungo la costiera…»
«Sì in Costiera amalfitana» dico.
«Fate bene. E ora di che vi occupate?».
Ma come, non sa che faccio l’architetto e che mi ha apostrofato lui stesso come prof?
Non riesco a mettere a fuoco perché lui parla, parla. E’ come una mitragliatrice.
«Prof. Datemi un vostro biglietto, così quando mi trovo in Costiera ci facciamo una mangiata di pesce a Cetara».
«Non ho biglietto. Vuoi il cellulare?»
«Ecco, sì. Va bene».
Gli compito il numero. Lui lo trascrive rapidissimo.
E si deve ricordare anche il mio nome perché non me lo chiede.
Poi, come se prendesse una decisione importante.
«Prof, per ricordo vi voglio dare il mio campionario».
Non so perché non fisso la parola «campionario» nella mia mente. La scambio, in maniera del tutto involontaria, per «catalogo» che più si addice a un ex-allievo di architettura, un catalogo di progetti, di realizzazioni che ha fatto con la sua ditta. E sì, mi fa piacere averlo.
Mi conduce al sedile di retro della sua macchina. Apre lo sportello. Ne cava fuori una busta me la affida da tenere con le due mani. Ci infila dentro una busta di plastica nella quale vedo, ben piegata una specie di giacchetta scura e poi ci infila una borsetta.
Io non capisco. Mi sento come un cretino.
«Ma che devo fare con questa roba?» gli chiedo.
«Per quanto vi prego, prof. Io sono felice che la teniate come mio ricordo».
Poi, prima che io possa dire una parola, mi abbraccia e mi bacia sulle guance da un lato e dall’altro. Mi stringe la mano con calore.
«Che piacere incontrarvi dopo tanto tempo. Uno di quei piaceri rari».
Io sorrido. Ma devo avere la faccia del fesso. Quasi quasi me ne rendo conto.
Non capisco.
«Ci dobbiamo vedere a Cetara. Una spasella di alici fritte e polpetielli…».
Io sorrido come uno che non capisce e non sa che fare.
Lui indugia. Fa per andarsene. Poi come se gli venisse in mente in quel momento.
«Prof vi devo chiedere un aiuto per la benzina».
Così, abrupto, non capisco.
Poi mi rendo conto. Il tizio vuole dei soldi.
Per fortuna nella tasca della camicia, in petto, ho dieci euro.
Gliele passo, giustificandomi.
«Mi dispiace. Ho solo questo. Ma con dieci euro di benzina hai voglia di caminar…».
Non mi fa finire.
«Uhà, prof, solo dieci euro? E non avete altro?».
E mentre dice così mi guarda come scusandomi ma come uno che allora deve prendere un provvedimento perché la cifra è proprio bassa e mi sfila, con rapidità e destrezza ,la busta dalle mani. Che, tra l’altro, io volentieri gli cedo perché mi brucia tra le dita come fosse incandescente. Sono felice di liberarmene.
«Prof allora ci vediamo a Cetara. Ci dobbiamo fare una panza di alici».
Monta in macchina e se ne va veloce. Sparendo alla mia vista.
Io rimango come un cretino. Felice, però, di essermene liberato per solo dieci euro.
Uno spettacolo che vale più di quanto mi è costato. Una bravura incredibile quella del tizio, nel prendere in giro i gonzi come me.
E non riesco ad arrabbiarmi. Anzi comincio a ridere come un idiota, mentre rientro al Brin per prendere la mia auto e tornarmene a casa.
Se qualcuno vi chiama da un auto e non lo conoscete, ovviamente non fermatevi.
Ringraziate con gentilezza, fate finta di non capire e andate via.
Vedreste questo spettacolo. Che è bello se raccontato da altri e fa anche divertire.
Ma vi assicuro che se ci capitate di persona, un po’ presi per il culo poi vi sentireste.
Ed è sempre meglio farne a meno.