Ripubblico una serie di saggi, riflessioni e articoli che mi sembrano ancora validi.
Dò inizio con un saggio-racconto che fece da introduzione a un'idea un po' folle della CLEAN edizioni di organizzare una passeggiata in tram per illustrare tutte le opere moderne che si incontravano lungo il percorso calssico del tram, dal Dazio di Bagnoli a Poggioreale, un attraversamento complessivo di tutta la città da occidente a oriente. Bellissima esperienza, simpatica, divertente, a tratti comica. I passeggeri erano i fruitori del lungo discorso che alcuni di noi tennero lungo il percorso, parlando dal megafono. Un'esperienza veramente singolare. Magari da ripetere.
Napoli dal Tram
Una passeggiata con incontri fuori dell’ordinario
“Il tram? E chi lo prende più!” pensavo
prima di stendere le note che seguono. Il tram,
infatti, sembra un mezzo di trasporto e
comunicazione definitivamente tramontato. Chi, nel millennio venturo del
trionfo telematico, utilizzerà più questo aggeggio in acciaio, lamiera e motore
elettrico, sferragliante e scampanellante, legato al suolo per via delle rotaie
ed all’aria dall’ alimentazione che corre su fili? Se mai avrà un periodo di
nuovo splendore, sarà, soprattutto, perché trasformato in mezzo “rapido”,
sfrecciante e in viaggio quasi
sempre al buio, in galleria, sottoterra.
Ma, allora, in queste condizioni, quale Napoli potrà mai apparire al futuro
viaggiatore?
Ma, nonostante tutto, il tema mi affascinava, forse
proprio per la sua inattualità; per il fatto che il tram è una specie di
residuo di quella “modernità antica” – del tipo della Torre Eiffel, del ponte
sul Garigliano, delle pensiline con colonnine in ghisa delle stazioni
ferroviarie che sono, ormai, quasi tutte distrutte, delle decorazioni floreali
dei negozi di Gay Odin e così via – non foss’altro che per la sua stretta
parentela con le carrozze e perché all’inizio, anch’esso, era tirato dai
cavalli. E, forse, per queste sue radici nell’ottocento, il tram finisce per
assumere il valore di una metafora per osservare l’architettura moderna con occhi disincantati.
Ma si trattava pur sempre di un debole pretesto
vagamente letterario, poca cosa per fare da bordone al compito affidatomi.
Sennonché qualcuno ci aiuta sempre quando ci sentiamo perduti. Magari in sogno,
proprio come è capitato a me.
Sotto la suggestione
dei ricordi infantili legati al tram, sognai di trovarmi dalle parti di
piazza Sannazzaro, all’uscita della grotta. Me ne stavo lì ad appuntare le
prime osservazioni che avrei riportato
nelle brevi schede che m’ero impegnato a stilare, quando vidi un tram proveniente da Fuorigrotta
uscire dal tunnel scampanellando. Un tram desueto di colore verde, più piccolo
di quelli oggi in circolazione, proprio come quelli che, negli anni
cinquanta, scorrazzavano avanti ed
indietro da Poggioreale al Dazio di Bagnoli. Si fermò vicinissimo a me. Provai a salirvi ma non so
per quale motivo non ero capace di arrampicarmi sui gradini troppo alti. Non ci
sarei riuscito se una fine mano inguantata di bianco non fosse venuta in
mio soccorso tirandomi su.
Feci per ringraziare il mio gentile soccorritore e
quale la mia sorpresa nel vedere il principe in persona con il suo più bel sorriso
dissimmetrico e smagliante augurarmi “Buongiorno” togliendosi la bombetta,
scotoliandosi nelle maniche troppo larghe e lunghe del “fracchesciasse”,
impostando un piede in avanti ed uno indietro in segno di un’appena accennata
burattinesca riverenza così mostrando, al di sotto dei pantaloni a zompafuosso
troppo larghi, uno splendido paio di calzini bianchi che fuoriuscivano da
eleganti scarpe nere di vernice. Mentre per la sorpresa e il piacere di
rivederlo in carne ed ossa, non riuscivo
a proferir parola, lui, con la massima naturalezza, mi invitò a sedere su di
uno scranno di legno come quelli che una volta c’erano sui tram, proprio
accanto al suo compare di sempre, con baffetti, cappello da “cafone” incasato
fino alle tempie, ed un pacchettino di paglia intrecciato ben stretto sottobraccio. Peppino mi fece un
gran bel sorriso. Girai lo sguardo
intorno e riconobbi molti di quelli che erano seduti nella vettura e mi
guardavano sorridendo. C’era Vittorio con i suoi baffi grigi in alta uniforme
da maresciallo dei carabinieri, e, più in là Federico, con il un bel mantello
scuro e la lobbia che mi salutò garbatamente con il suo pacato accento romagnolo,
e, tra i tanti altri, al posto di guida, distinsi la grande mole del
manovratore. Mi guardava con il suo faccione con doppi e tripli menti e borse
enormi sotto gli occhi, lo sguardo bovino, borbottando incomprensibili parole.
- Aldo, vai, parti – gli disse il principe e, poi, rivolto
a me:
- Sì – mi prevenne – lei sta sognando. E che male
c’è? Tutti noi - e indicò i passeggeri
del tram che annuirono soddisfatti - lo facciamo sempre. Anche voi, quaggiù,
dovreste farlo più spesso. Mi hanno
detto, caro Ricci, che lei è in
difficoltà con questa faccenda dell’architettura “moderna” e del tram. E, così,
visto che lei è stato, fin dai tempi del Teatro Nuovo, un mio sincero
ammiratore, mi sono permesso di approfittare dell’occasione per incarrettare un
po’ di amici e fare questa passeggiata. Sa – proseguì con il suo sorrisetto ammiccante – è molto
tempo che manchiamo da queste parti e
molti di noi erano ansiosi di rivedere Napoli e qualche bella donnina, ih, ih,
ih….- Mi tirò una gomitata di complicità. Riprese: - E, poi, mi permetta, ma che cosa vogliono
capire lei e i suoi contemporanei di tram, carrozzelle e architettura “moderna”
o “modernista” che dir si voglia, tanto è l’istesso. –
Approfittai al volo dell’occasione che mi si
offriva: - Vuol dire che sarà lei, principe, a farmi da Cicerone? –
- Noi tutti, a turno – e indicò i suoi compagni di
viaggio. Lasci fare, lasci fare a noi
che siamo “uomini di mondo”, di cinema e spettacolo e ne sappiamo molto delle
città, quelle finte intendo, quelle di cartapesta, quelle dei sogni, insomma. –
- Quelle di cartapesta – intervenne Federico – sono
più vere, non le sembra? Proprio come i ricordi, quelli veri sono inventati di
sana pianta. Io, almeno, in ogni mio film ho fatto sempre così… -
Assentii, ormai tranquillo. Avrebbero pensato a
tutto loro ed io avrei potuto godermi in santa pace quella passeggiata senza
nessuna preoccupazione. E al diavolo le schede e la mania di raccogliervi le
cose degne d’interesse che è propria della nostra epoca in un impeto da piccoli
collezionisti che si accontentano di catalogare come se ciò volesse veramente
dire possedere, comprendere intendo.
- So – intervenne Peppino come se mi avesse letto nel
pensiero - che gli organizzatori dell’itinerario le hanno fornito un elenco
delle opere più rimarchevoli. -
- Si – gli risposi, frugandomi nelle tasche alla
ricerca della busta con il foglietto dattiloscritto con il breve elenco di
opere.
- Noi non ci atterremo strettamente a queste
indicazioni – disse il principe – Sa, a dirla con franchezza, a tutti noi la
maggior parte dell’architettura “moderna” non dice molto…
- Anzi – aggiunse Aldo ad alta voce dal fondo mentre
avviava il tram lentamente – per me è proprio truce! –
- Ma – feci preoccupato – non mi combinerete scherzi?…
- Si, lo sappiamo – mi interruppe Peppino – Gli
architetti sono quasi peggio delle prime donne e delle loro lotte per il nome
sulle locandine. A parlarne male si
rischia di vedersi cadere addosso strali, fulmini e maledizioni. –
- Sa – dissi – mi trovo in una posizione delicata,
non vorrei creare difficoltà agli organizzatori, all’editore…, sono tutti miei
cari amici … -
- Suvvia, saremo soltanto un po’ piccanti… quel
tanto possibile – aggiunse il principe battendomi affettuosamente con la mano
sulla spalla.
- Vedrà che non la deluderemo – disse Peppino.
- Ma, insomma, per noi il tempo stringe - intervenne
d’autorità Vittorio – e per lei, Ricci, le pagine scarseggiano. Vogliamo
andare? –
- Io inizierei questo itinerario dalla Stazione di
Mergellina. – intervenne Federico -
Inviterei i nostri visitatori a guardare con attenzione soprattutto le
pensiline in ferro, il prospetto interno
che si affaccia sul parco binari, le colonnine in ghisa, i pavimenti di
marmo, il legno delle biglietterie. E’ un luogo dal quale è bello partire ed
arrivare. Da qui la città appare pulita,
ordinata, discreta, moderna ma allegra. Una stazione che sembra un vero e
proprio salotto.
- E, poi, scendendo giù, verso piazza Sannazzaro –
aggiunse Peppino – ci sono alcune cose da osservare come, ad esempio,
l’edificio di Arata nella sua bella soluzione d’angolo verso il corso Vittorio
Emanuele. E’ di un eclettismo contenuto e questo ne accentua il valore formale.
- Ahò, anvedi er cafone come s’è piazzato – gridò,
tra le risate di tutti, Aldo dalla grande mole dal suo posto di manovratore.
- Cafone sarai tu! – si stizzì Peppino – Che vuoi
capire di Napoli, tu che vieni da Roma e ti ritrovi qui soltanto perché sei
l’unico capace di manovrare un tram! E poi, ricordati, in più di un’occasione,
nel cinema, non sei andato al di là dell’aspetto e del ruolo di pescivendolo! –
- Ma insomma – intervenne il principe – se
cominciamo così diamo un brutto spettacolo – Poi, guardando fuori dal
finestrino aggiunse – Siamo quasi arrivati alla Torretta. –
Per la via di Mergellina mi fecero notare lungo la
strada un bell’esempio di edifici in cortina; soluzione tipica dell’edilizia
“storica” napoletana, ci disse Vittorio, che si sarebbe riproposta, nella sua
bellezza, per tutta la lunghezza della Riviera di Chiaia.
Alla Torretta il tram si fermò per far salire un
ritardatario della comitiva. Nino, era lui quello in ritardo, salì sorridendo con la sua paglietta a tre
punte facendosi precedere da una bruna signora dalla scollatura vertiginosa che
attrasse immediatamente l’attenzione di tutti i presenti. Poi, e non poteva
essere diversamente, cantò a squarciagola il “Tram della torretta” e concluse
con “Ciccio formaggio”. Finito che ebbe, dopo aver ringraziato per gli applausi
scroscianti che seguirono la sua esibizione, mi tese la mano.
-Quello è l’edificio della torretta – mi disse.
-Non le sembra finto? – mi fece Federico – Comprende, ora, che cosa
intendevo dire prima? Sembra tagliato nella carta, una costruzione di cartone
come se non avesse spessore…-
- Ma questo – aggiunsi timidamente – può essere anche un pregio… -
- Sì, in un film certamente. Ma nella realtà? –
Il tram, intanto s’era avviato verso la Riviera.
- Qui le cose cambiano – mi informò Vittorio – Ci sono due belle
costruzioni “moderne” da vedere, anzi da
intravedere nel verde. –
Vittorio si riferiva all’edificio del Club del
tennis e a quello del Circolo della Stampa. Opere semplici a due livelli,
vetrate verso il mare, geometrie senza alcun fronzolo, verde in abbondanza
all’esterno per nascondere in gran parte le pareti. Sobrietà ed eleganza.
- Sono tra gli esempi più belli del razionalismo– mi confessò Federico –
che incontreremo lungo il percorso. Semplicità come eleganza quasi si trattasse
di un’assoluta mancanza di stile. Come dire? Lo stile è quello della necessità,
una necessità alta, quasi un bisogno spirituale, trasparenza al sole ed alla
bellezza del mare, all’aria e assoluta discrezione nell’inserimento
urbanistico. –
- State zitti ora – ci disse Peppino – Siamo giunti alla nostra tappa
importante. –
Il tram si fermò. Aldo ci fece scendere tutti e
s’avviò, poi, verso piazza della Vittoria,
il principe si allontanò dicendo che si andava a preparare mentre noi
visitavamo l’edificio del Circolo della Stampa e la bella scala interna. Dopo
un po’ Peppino mi disse:
-Venga, venga Ricci, le
abbiamo preparato una sorpresa – e mi prese sottobraccio conducendomi fuori,
verso la Cassa Armonica di Alvino. S’era
radunata, intorno alla costruzione di ferro e vetro, una gran folla. Provai un grande senso di
stupore: per la bellezza di quell’architettura che ogni volta che la
guardo mi avvolge in una specie di
brivido di piacere mentre gli occhi non possono fare a meno di scorrere lungo
le esili e slanciate colonne in ghisa fino al grande aquilone di ferro e vetri
verdi e gialli che costituisce il cappello di copertura con il cono centrale a
punta e la visiera laterale con il suo lieve impennarsi verso l’alto. Ma fui
meravigliato anche dalla folla che c’era: damine con grandi vestiti dalle gonne rigonfie di pizzi e merletti e
cappellini con trine e nastrini colorati; uomini in vestiti gessati o bianchi,
cappelli e pagliette; bambini che correvano in tondo con palloncini rossi e
blu, girandole, bandierine, trombette e stelle filanti; e, ancora, signori
anziani in doppio petto e gilè dai vivaci colori, a righe, a pois, a stelline
verdi, arancio, lampone; e venditori di ogni cosa, bruscolini, taralli,
candidi, frutta secca, bibite, granite e grattate di menta, limone e fragola,
verde-bandiera, bianco e
rosso-vermiglio, in uno slancio patriottico rinfrescante e alla buona.
E lì, sul podio della cassa armonica, l’orchestra,
in verità una banda al completo, che aspettava il suo maestro. E questi non si
fece attendere: tra gli applausi scroscianti il principe, al secolo “maestro
Scannagatti”, che s’era cambiato d’abito vestendosi da pazzariello, una bacchetta
nelle mani, diede subito inizio al concerto più bello della sua fulgida
carriera, aiutato da violini grattanti, bassotuba irriverenti, pernacchie,
mosse del corpo e delle mani, movimenti ritmici della testa di qua e di là,
lingua da fuori e occhi stralunati e, poi, le mani a simulare fuochi
d’artificio, tricchi-tracchi, castagnole, bengala, razzi e fuia-fuia.
E, finalmente, al suono della fanfara dei
bersaglieri, tutti di corsa per la Villa Comunale, lui avanti che girava
attorno agli alberi e le aiole, saliva e scendeva dai prati, s’infilava in
porte e porticine dell’acquario in un complicatissimo percorso a spirale verso
piazza Vittoria e noi altri dietro, orchestra, trombe, sassofoni, grancassa,
Vittorio in alta uniforme che affannava e bestemmiava tra i denti per non fare
brutta figura e Nino che gridava “Managgia a vita mia” seguito dalla sua
splendida sciantosa sculettante che s’era tolte le scarpe con i tacchi e
correva di buona lena. Io tra gli ultimi, sudato e affannato, ma felice,
seguito da Peppino che con una mano teneva ben stretto il pacchettino di paglia
e con l’altra si manteneva il cappello, ansimando e borbottando tra i denti,
furioso come non mai: “Questo caspita di compare mio non cambia mai, neanche
all’altro mondo!”.
Arrivammo, non si sa come, alla fine della Villa. Si
trattò di una di quelle corse liberatorie che possono avere luogo soltanto in
sogno – o in un film – ché a farle davvero ci si rimetterebbe, con il caldo che
fa dalle nostre parti, la pelle in men che non si dica. Ci sedemmo tutti in
terra ridendo quasi fino alle lacrime e aspettando che sulla sinistra facesse
il suo ingresso, da un momento all’altro, Aldo con il suo tram. Federico, che
se l’era presa comoda a passo lento sotto gli alberi giunse proprio in quel
momento:
- Stanchi, eh? Approfittatene e guardate verso
l’alto, proprio a fianco dell’edificio della Nunziatella, sul monte Echia di
fronte a voi potete ammirare un’opera “moderna” di un certo rilievo, l’edificio
della Sip progettato da Pakanowsky, un bell’esempio di corte alberata aperta
verso il mare…
Peppino, ancora affannato, ebbe la forza di dire:
- Bello, sì. Ma ti darebbe la forza di correre e ti
trasmetterebbe tutta la gioia come è successo ora con la Cassa Armonica di
Alvino? -
- Certo che no…
- Ecco il tram – interruppi io, temendo commenti più
azzardati e compromettenti. Il tram apparve scampanando. Ripartì subito verso
la galleria della Vittoria non appena fummo tutti saliti e la folla ci salutò
sbracciandosi e gettando in aria i cappelli. Il principe dal finestrino sul
retro ringraziava scappellandosi a più non posso e inviando baci con entrambe
le mani. Immediatamente usciti dalla piazza si giunge all’ingresso della
galleria, una soluzione studiata e progettata da Roberto Pane, dopo aver vinto
il secondo grado del concorso ma, come precisò Vittorio, la realizzazione si
discosta molto dalla previsione di progetto, anche se Pane, molto apprezzato
come storico, critico ed intellettuale
non ha goduto di altrettanta fama come progettista.
- Devo dire di amare gli uomini creativi ma di
vedere di malocchio gli intellettuali. Nei miei film ho sempre riservato loro
una brutta fine – aggiunse Federico. Cominciai a sudare, temendo battute più
pepate. Come Dio volle ci tuffammo nel buio della galleria e così anche questi
commenti furono troncati sul nascere. All’uscita, onde evitare il peggio, presi in mano la situazione e dissi:
- Cari amici, da quest’altra parte della galleria le
opere monumentali della Napoli antica e storica sono così pregnanti e cariche
di significato che, credendo di anticipare ogni vostro giudizio, quelle
“moderne” non possono che, per così dire, “sfigurare” tranne rare eccezioni. Ma
è nella forza delle cose. L’architettura moderna, checché se ne pensi (e credo
che, molte volte, come sostiene Aldo , finisca, nella sua crudezza, anche per
diventare truce) ha un indice di adeguamento ai tempi, alla loro pressione,
allo stesso spirito dell’epoca “nuova” che è quello dell’assoluta negazione del
superfluo, dell’aderenza ai flussi di denaro, ai bisogni di grandi masse di
uomini. E, dunque, permettetemi di segnalare ai nostri visitatori i pochi
luoghi eccezionali e il solido “mestiere” che incontreremo lungo la strada… -
Furono, grosso modo, d’accordo con me. Si trattava,
insomma, precisò Vittorio, di un passo indietro, verso il “neorealismo” e,
anche lui, nei suoi film, aveva gettato via qualsiasi compiacimento formale,
per parlare al fondo dell’anima, per scovare, al di sotto del “povero”, del
“brutto” e del “marginale” il senso della vita.
- Molte opere che incontreremo lungo la via Marina –
proseguii, soddisfatto per la piega che le cose avevano preso - appartengono a questa logica anche se di
stili formali diversi: la stazione marittima, il palazzo ad angolo di piazza
municipio di Canino, l’edificio del collocamento e così via. Sono opere
importanti ma non ci si deve aspettare da esse cose che non promettono, voli e
leggerezze che non era nelle intenzioni dei loro autori.
Naturalmente, proseguii, analogo era il discorso per opere
che non erano direttamente sul nostro cammino ma che, con un po’ di buona
volontà un visitatore avrebbe fatto bene a raggiungere come l’Hotel Vesuvio
e il Continental sul lungomare di via
Partenope. Mi sentivo di segnalare, ad un visitatore, anche la galleria Umberto I che, nonostante fosse un’opera pienamente
ottocentesca secondo una rigorosa classificazione cronologica, poteva
considerarsi “moderna” in tutto e per tutto per l’idea che rappresentava e per
l’uso splendido dei materiali ferro e vetro che costituivano una linea rossa
vivissima di modernità all’interno dell’ottocento interrotta troppo
prematuramente dall’uso massivo del cemento armato.
- E quali sono le eccezioni di cui lei prima
parlava? – mi chiese Federico.
- Sono due: una è il mercato ittico progettato da
Cosenza ad appena ventiquattro anni, un’opera geniale per impianto e
concezione, perfettamente legata all’esperienza razionalista “classica” che a
quel tempo si andava maturando in Europa della quale si dovrebbe parlare molto
ma il tempo a nostra disposizione pare sia ormai per scadere e l’altra, alla
quale sono particolarmente affezionato, è opera di quello che è stato il mio
maestro, un’opera semplice e, per questo, altrettanto geniale, la stazione
della Circunvesuviana di Giulio De Luca…
- Questa la conosco bene – interruppe il principe –
Me ne hanno parlato: una “tettoia” in cemento che è un miracolo d’equilibrio
dove le masse si contrastano secondo principi chiarissimi e generano la forma…
-
Eravamo arrivati quasi alla fine del nostro
percorso, quando con voce indisponente Aldo se ne uscì:
- A professo’ e quer coso che pare un disco… si
insomma, un disco volante che s’è infizzato su er palo? – e fece cenno verso il
porto ad una costruzione molto appariscente dal punto di vista formale, con
larghe superfici e volumi di rotazione in aggetto come “vassoi”, corpi vetrati
e piloni a tutt’altezza.
Quello che temevo era successo, proprio in chiusura!
Aveva ragione Peppino, il comportamento indisponente di Aldo lasciava molto a
desiderare. Dovevo assolutamente tentare un aggiustamento. Tutti mi guardavano
divertiti in attesa di come me ne uscissi da quell’impiccio.
- Si tratta di un’opera molto particolare, ed
assolutamente inconsueta nel panorama napoletano antico e moderno. Certo … è,
come dire…, insolita, curiosa ecco! Ma mostra una forte ricerca linguistica, uno
sperimentalismo avanzato e assolutamente innovativo. E, comunque, vi piaccia o no, l’architettura
moderna è anche questo. Certo, appartiene ad un modo di esprimersi molto …
soggettivo… e …
-Basta, basta… - mi mise a tacere il principe e,
poi, rivolto agli altri che avevano assistito divertiti al mio discorsetto –
Però, il pover’uomo se l’è cavata. – E di nuovo rivolto a me:
- Caro Ricci,
non c’è bisogno di giustificare niente e nessuno. Ognuno è libero, almeno
finora, di seguire la sua strada. Anche se, ad onor del vero, una casa dovrebbe somigliare ad una casa, una
strada ad una strada e una piazza ad una piazza e lo sperimentalismo dovrebbe,
alla fine, approdare a risultati
stabili, come dire?, classici… –
- Ma il suo tempo è scaduto! - mi salvò definitivamente Vittorio.
Fecero fermare il tram. Eravamo nei pressi del Ponte
della Maddalena.
- Se vi allungate più avanti – dissi – potrete visitare
anche la Stazione Centrale. E’ un edificio di ampio respiro; vi hanno lavorato
i migliori.
- Sarà fatto – mi disse il principe, stringendomi la mano – A ben
rivederci… - Rivolto agli altri – Ragazzi salutate – Seguì un “arrivederci” di
tutti in coro. Il principe, poi rivolto
a Peppino, mentre scendevo:
- Oh, giovanotto, penna, carta e calamaio, su. Sei
pronto? –
Peppino si era aggiustato alla meglio per scrivere
sotto dettatura.
- Signorina, veniamo, noi, con questa mia
addirvi…una parola. Scusate se sono poche, … ma settecentomila lire, a noi ci
fanno specie che quest’anno c’è stata una grande morìa delle vacche come voi
ben sapete, punto, due punti. Ma sì, abundandis
in abundandum …Che dica che noi siamo tirati, cafoni … -
Vidi Peppino con sguardo malinconico stringere il
pacchettino di paglia sotto il braccio, quasi a piangere l’abbandono forzato di
quel piccolo tesoro. Poi si sporse dal finestrino e me lo passò con un sorriso,
dicendo:
- Professo’, non si offenda, noi avevamo pensato che
le facesse piacere… -
La porta si chiuse e il tram se ne partì scampanellando
allegramente.
Mi avevano pagato, per un mio lavoro! Allora mi resi
conto che si doveva trattare per forza di un sogno. E mi svegliai subito.