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ebook di ArchigraficA

lunedì 29 dicembre 2014

Nascere genio




di Claudio Cajati


Sono nato che ero già un genio. I miei genitori, invece, due cretini. Come è possibile che da due cretini nasca un genio? È proprio un bel salto. Ne ho concluso che è errata l’affermazione “Natura non facit saltus”. Invece li fa i salti, e il mio caso ne è una dimostrazione esemplare.
Tanto cretini i miei genitori, che non volevano farmi nascere. Dicevano a se stessi e ai rispettivi suoceri e suocere che non era ancora il momento giusto, che loro non si sentivano maturi abbastanza per fare un figlio. Solo che, bestie libidinose e malaccorte quali sono, tanto si sbatterono a letto che bucarono il preservativo. Ed eccomi qua, figlio non voluto, figlio eccezionale. Il che sta a dimostrare, ancora una volta, la saggezza di Lao Tse: “Non tutto ciò che è bene, è bene; non tutto ciò che è male, è male”. Bucare il preservativo è male, farne nascere un genio è bene. Siete d’accordo?
Ho imparato a camminare a un mese. A parlare e a scrivere a due mesi, e facevo già delle frasi di senso compiuto. Il primo racconto l’ho scritto a un anno. Il primo manuale di tecnologia a tre anni. Ho preso la laurea in Ingegneria Meccanica a 10 anni, quella in Ingegneria Elettronica a 11 anni, quella in Architettura a 12 anni e quella in Filosofia a 13 anni. Sono Ordinario in tutte e tre le Facoltà.
Il campo in cui brillo maggiormente è quello delle invenzioni. Sono talmente straordinarie e talmente tante che, per senso della misura (“Est modus in rebus” dicevano gli antichi Romani) ne presento qui soltanto un’estrema sintesi, nel numero e nelle spiegazioni.
Ho inventato il ciucciotto autopulente: se si sporca, non occorre che la madre lo lavi perché ha un serbatoio di acqua e amuchina che entra automaticamente in funzione.
Ho inventato il lettino basculante a velocità variabili: quando ero neonato, notai che mia madre mi cullava facendo oscillare il lettino sempre alla stessa velocità, il che magari era rassicurante ma anche molto noioso.
Ho inventato lo spazzolino da denti programmato e semovente: dotato di un minuscolo software, è una specie di acrobata che, senza la guida della mano, si arrampica sopra e sotto, davanti e dietro la chiostra dentaria.
Ho inventato la posata unica coltello-cucchiaio-forchetta: si consegue in tal modo un consistente risparmio, sia nel numero di posate che nel loro lavaggio.
Ho inventato un’auto che usa la pipì come carburante: è necessario soltanto che il guidatore beva molta acqua, così gli basterà orinare in un apposito pitalino collegato al motore, e sarà libero dalla ricerca, talvolta angosciosa, di una pompa di benzina vicina e aperta.
Ho inventato un robottino che emette un verso a metà fra miao e baubau, cioè biao: questo ha il potere di far diventare amici, per sempre, cani e gatti, di qualsiasi razza, taglia ed età. Il detto “Fare come cani e gatti” scomparirà per obsolescenza.
Ho inventato un profumo per sedurre le ragazze. Tutte, disponibili o ritrose, sposate o zitelle, eterosessuali o lesbiche, religiose o atee… tutte insomma, si lasciano andare ed è possibile possederle, perfino in luoghi pubblici. Però, la durata dell’effetto è limitata, fra una e due ore a seconda del soggetto. E quindi bisogna, all’occorrenza, avere lo spray a portata di mano e fare un’altra abbondante spruzzata.
Molto grave, soprattutto in un Paese come il nostro che invecchia, il problema delle donne che non riescono a rimanere incinte. Con i connessi problemi della fecondazione eterologa, sì o no, e le infinite polemiche etiche e politiche che ne seguono. Ebbene ho risolto: ho inventato un additivo, da aggiungere al momento allo sperma, per avere gravidanze sicure. Le boccettine con il mio additivo vanno a ruba, ma io mi prendo solo 100 euro che poi devolvo ai bisognosi. E lo faccio in segreto, in modo che il popolo, comunque criticone, non lo venga a sapere.
Ho inventato un apparecchio, una specie di macchina della verità evoluta a cui è impossibile mentire. L’ho pensata soprattutto per i nostri politici, esperti in piccole e grandi menzogne, in promesse che già sanno di non poter mantenere, in omissioni oculate che sfuggono al povero cittadino impegnato a sopravvivere, in insinuazioni insidiose che sono invece spudorate calunnie. Al mio apparecchio, che funziona a base di vino ad alta gradazione, la verità non sfugge: come dice il proverbio, “In vino veritas”.
Ma. Ma c’è un ma: pure noi geni abbiamo qualche cruccio.
A scuola. Già alle elementari, e poi alle medie, al ginnasio, al liceo, all’università, la mia genialità induceva reazioni estreme. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con me, anche i cosiddetti amici, si sono divisi in due gruppi: quelli che mi frequentano e mi adulano sperando chissà quale geniale ricompensa; quelli che si allontanano e mi evitano perché li faccio sfigurare e provare invidia.
Le donne. Vengono con me, anche quelle restie, già fidanzate o sposate. Il mio profumo magico per sedurle è infallibile. Del resto non sono brutto, e a letto me la cavo, anche se non sono un grande amatore. Ma poi, svanita l’azione del profumo (non posso spruzzarlo all’infinito!), se la svignano. Loro preferiscono gli uomini cretini o, al massimo, normali, con cui mettere in pratica la famosa parità dei generi. Purtroppo con un genio non c’è parità possibile. A meno che la donna non sia anche lei un genio. E qui in paese di genî ce n’è uno solo. Io. I miei genitori, i cretini doc, vorrebbero aiutarmi. Ogni tanto se ne escono con frasi del genere: “Leonardo, tu cerca di nascondere che sei un genio, fai la parte di quello normale, e anzi ogni tanto fai qualche fesseria, di’ qualche scemenza… Tutti, uomini e donne, non vogliono uno come te, vogliono uno al loro livello, sennò si mortificano, finiscono per trovarti insopportabile…” A questo punto è meglio se sto zitto: che gli dico a fare che io sono quel che sono, e non mi va di fingere?
Poi ho il problema che molti, diffidenti o invidiosi, sostengono di non credere a tutto quello che ho inventato e so fare. E, di bocca in bocca, nel paesino procede il tamtam micidiale: anche quelli disposti all’inizio a darmi un minimo credito, si convertono in critici impietosi. Allora mi è toccato mettere di nuovo in funzione il mio geniale cervello: dopo aver soppesato varie alternative, ho pensato di inventare uno spray che ubriacasse le menti e le costringesse a credermi, perfino se mi saltava in mente di buttare là una fesseria. Ma, stranamente, ho fatto flop.
In paese intanto si sono ormai coalizzati contro di me. Mi perseguitano quotidianamente, con sfottò, grida, calunnie, spintoni, sgambetti, lancio di pietruzze (“Ehi genio, da quale lampada sei uscito? Da quella di Aladino?” ”E faccele vedere tutte queste invenzioni, su, che siamo curiosi” “Se sei un genio, facci diventare genî anche a noi” “Sul cervello ci hai fatto un’assicurazione, nel caso si guasti? Ma quello è già guasto!” “Sei un genio e quindi ci guardi dall’alto, ma noi che ti guardiamo dal basso vediamo che le palle non ce l’hai!” “Ad Halloween, dopo che hai dato i dolcetti, cosa gli hai fatto alle bambine, eh sporcaccione?” “Anche fosse vero che sei un genio, resta il fatto che a noi sembri soltanto un poveraccio isolato e asociale”).

Ho dovuto rifugiarmi in casa. Loro credono di avermi sconfitto. Ma non sanno che la solitudine aguzza l’ingegno, soprattutto quello del genio. Ogni tanto mi affaccio alla finestra e mi faccio vedere stanco, demotivato, abbattuto, addirittura depresso. Mando perfino, di tanto in tanto, qualche gemito e qualche singhiozzo. Loro pensano di avermi proprio annientato, di essersi liberati finalmente di quel presuntuoso bugiardo che si vuole far passare per un genio. E non sanno niente dell’ultima invenzione che sto mettendo a punto. Una super bomba per farli fuori tutti. Allora sì che sarò veramente solo.

domenica 28 dicembre 2014

Gemelli poco gemelli




di Claudio Cajati


Se dico che io, Giuseppe, e Gaetano, mio fratello, siamo gemelli, cosa vi viene subito da pensare? Che tutte le conseguenze sono ovvie?
E no! Se siete persone almeno un poco istruite, dovete fare una domanda fondamentale: gemelli omozigoti o eterozigoti? Vi risparmio le definizioni scientifiche di ‘omozigote’ e ‘eterozigote’ perché contengono termini di ardua comprensione – anche per me – come ‘diploide ibrido’, ‘aploide’, ‘alleli’… Ciò che qui mi interessa ricordare è semplicemente che i gemelli omozigoti sono molto più simili fra loro, rispetto a quelli eterozigoti.
Ebbene, io e Gaetano siamo gemelli omozigoti. Siamo, come si dice, due gocce d’acqua: uguali i lineamenti, la complessione fisica, l’altezza, la carnagione, i capelli, gli occhi, il naso, la bocca, i gusti alimentari, i vestiti che ci piacciono, il carattere estroverso, l’autostima, la Facoltà a cui ci siamo iscritti, Architettura, la passione per le donne, la precoce arte amatoria, il tifo per la stessa squadra di calcio, il Napoli, la loquacità… alt, stop!
Qua spunta l’unica, drammatica, differenza. Siamo sì entrambi loquaci, degli inguaribili chiacchieroni, ma quale abissale differenza linguistica fra noi! Io sfoggio un linguaggio da letterato raffinato; Gaetano si abbandona a una parlata rozza e popolare, per di più nel dialetto napoletano, che in lui assume un tono volgare, sbrigativo, menefreghista o protestatario.
Questa differenza ha comunque una sua utilità: noi due siamo talmente uguali fisicamente, che per riconoscere chi è Gaetano e chi è Giuseppe, tutti, perfino i nostri genitori, debbono sentirci parlare. Alcuni pensano che è stata proprio la nostra indistinguibilità a spingerci a differenziarci almeno in un aspetto. Il linguaggio appunto. Ma io non accetto questa tesi. Infatti, se ben ricordo, e ricordo bene, sin dalle prime frasi nell’infanzia io e Gaetano ci esprimevamo con linguaggi agli antipodi. Mi piace pensare piuttosto che ciò dipenda dalla legge del karma: le nostre vite precedenti devono essere state molto diverse, da cui due ben distinti karma, nonostante che siamo gemelli. Quando esposi la mia tesi a Gaetano, la sua reazione fu spicciativa e brutale: “Siente, Giuse’, a vuò fernì e me sfruculiare cu cheste parole streuze? Karma: ma che vuò dicere? O fatto è ca tu liegge nu cuofano e libri e t’ammocchi tutte e fessarie ca nce stanno scritte.” Avrei voluto spiegargli, con calma ed educazione, tutta la teoria della reincarnazione. Ma mi rendevo conto che con lui sarebbe stato fiato sprecato.
Alla scuola media, nell’ora di ginnastica, era una vera noia. Le nostre prestazioni non potevano che essere le stesse: 1 metro e 30 nel salto in alto; 4 metri e 10 nel salto in lungo; i cento metri in 13 secondi, e così per la pertica, la corda, il quadro svedese, il cavallo e qualsiasi altro esercizio a cui il prof ci sottoponesse. E allora cresceva in noi la smania di sconfiggere la natura che ci aveva fatto fisicamente uguali, cercando ognuno di prevalere sull’altro. Io dicevo a Gaetano, con il mio stile raffinatamente didascalico: “La letteratura sull’argomento dei gemelli omozigoti afferma che l’uguaglianza fra loro finisce per diventare una sorta di ossessiva prigione, da cui prima o poi tentano di evadere superando l’altro in qualche prestazione: la nostra opportunità è ora nel salto in alto, nel trovare uno slancio marginale che permetta il sorpasso verticale. E io assolutamente voglio tentare di sorpassarti.” Gaetano faceva un sorrisino e ribatteva alla maniera rozza sua: “Giuse’, accuntientate e pareggià, si cca nce sta fra nuje uno ca po’ vencere, chillo songo io. Tu si capace a parlà, ma io tengo comme a nu razzo into culo e si l’appiccio pozzo zumpà cchiu e te. Vulisse verè?” Nonostante baldanzosi propositi e spacconate, continuavamo a saltare entrambi il solito, 1 metro e 30.
Quando in Facoltà facciamo una prova ex-tempore di prospettiva o assonometria, Gaetano fa talvolta dei disegni scombinati (perfino più dei miei), tanto assurdi che sembrano il parto di un incubo. Io gli voglio bene, e allora cerco di sdrammatizzare. Gli dico, alla mia maniera: “Gaetano, fratello mio, l’inadeguato risultato della tua prova grafica non va ascritto a qualche tua eventuale carenza tecnica, bensì a ciò che sostanzia il tuo carattere, quella proclività all’esuberanza emozionale che fiacca il controllo razionale e ti consegna, inerme, agli attacchi dei fantasmi irrazionali di una mente pirotecnica, come appunto risulta essere la tua…” Lui, che da un po’ mi guardava storto, prontamente ribatte: “Giuse’, ma che staje a dicere? Io a te non te capisco. Nun è cchiu’ facile dicere ca chistu disegno che aggio fatto è propeto na chiavica?”
A parte questo episodio di diversa inefficienza nel disegno, anche nel carattere siamo come due cloni. Ci piace la polemica, siamo aggressivi e, se pensiamo di avere ragione contro qualcuno (lo pensiamo praticamente sempre), siamo capaci di vomitare parole su parole per riassumere e, al tempo stesso, approfondire i termini del conflitto. Ma quale differenza plateale fra noi due nell’esprimerci!
Faccio un esempio. Parcheggiamo la nostra Ford Ka, perfettamente centrata rispetto alle strisce bianche che delimitano lo stallo. Arriva uno con la sua auto e parcheggia alla nostra destra, ma così vicino che Gaetano non può uscire dal suo lato. Mi precipito fuori dal posto di guida e aggredisco a parole il deficiente (deficiente anche perché così facendo si è chiuso anche lui!): “Senta, egregio signore, due sono le ipotesi: Lei sa come si parcheggia in questi stalli, ma non l’ha fatto perché non sa guidare, oppure Lei sa guidare ma ignora che in questi stalli non basta parcheggiare entro le strisce bianche, bensì bisogna tenersi a uguale distanza dalla striscia a sinistra e da quella a destra, per non incorrere nell’inconveniente da Lei causato a mio fratello e, addirittura, a se stesso. Dica ora Lei, per favore, quale ipotesi è quella giusta.” Il tipo non ha il tempo per ribattere, ché già ha cominciato Gaetano: “Ne uè, scurnacchiatone, o si sciemo o si cecato. Si si sciemo, nun ce sta niente ra fa’, ma si tu si cecato, pecchè nun te vaje a fa nu paro e lente? Eh? Verennote meglio n’faccia, so sicuro che si sciemo e cecato… ma mammà e papà comme hanno fatto a fa na fetecchia comme a te? Smamma, vattenne e pressa, e capito o no?” Il tipo non è giovane né robusto, e ha difficoltà a uscire dall’auto: non ha nessuna voglia di litigare. La sua faccia esprime soprattutto lo sbigottimento per due gemelli tali e quali nell’aspetto, ma che parlano in maniera così differente. Mette la marcia indietro e va a parcheggiare altrove.
A tutti e due, poi, ci piacciono assai le donne. E facciamo molte facili conquiste. Dopo siamo soliti, chiusi in una stanza lontano da orecchie indiscrete, raccontarcele reciprocamente. Anche nei minimi dettagli. Una volta c’è capitata una belloccia proprio ninfomane, che ha voluto stringere commercio carnale sia con me che con Gaetano. Al tempo stesso, un triangolo insomma. Siamo rimasti entrambi molto soddisfatti, con una gran voglia di raccontarci quello che avevamo provato. Io ho detto a Gaetano: “Finora non ci eravamo mai esercitati in una situazione triangolare a prevalenza maschile, due uomini e una donna, e, sulla ovvia implicita competizione fra noi due nel ricavare e fornire piacere a lei, ha prevalso la totale immersione eterosessuale, con colei che si è rivelata una degna rappresentante di quella femminilità che avvolge, esalta, sublima, conducendo ad un piacere dilagante che spoglia il partner dai suoi legami egoistici ed egocentrici… la sua vulva sa compiere contrazioni sapientemente rallentate, quasi fosse una seconda bocca pigramente viziosa; le labbra della sua bocca si dischiudono per accogliere il membro con la stessa maliziosa grazia con cui un fiore si apre e si arrende ai raggi penetranti del sole…” Gaetano ha sbuffato, poi si è precipitato a interrompermi: “E comme a fai longa! Io te pozzo dicere ca chesta è na zoccola schiavona, nun è na puttana ma è meglio. M’ha fatto nu’ bucchino accussì doce che nun l’aggio pruvato maje, e dinto a fica soia io nce vulesse stà pe sempe!”
Però siamo lentamente maturati: niente più donne facili, o proprio ninfomani. Ci siamo fidanzati con due brave ragazze, anche loro gemelle omozigote. Tanto promettenti e affidabili che i nostri genitori hanno voluto fare una grande festa per il fidanzamento ufficiale. Non si è badato a spese e sono stati invitati tutti i parenti e amici. Prima del taglio di una torta speciale, diciamo una torta ‘gemellare’, io e Gaetano siamo stati invitati a fare un breve discorso. Quello che ha sorpreso e sconcertato gli invitati è stata la tremenda diversità fra i linguaggi. Io ho detto: “Dopo un vano e frivolo vagabondare nel bosco oscuro e insidioso della femminilità impura, io e Gaetano siamo finalmente usciti alla luce su un prato rigoglioso e candido, illuminato, più che dal sole, da due stelle fanciulle, due stelle che brillano di luce propria e riscaldano i cuori freddi di noi poveri maschi. Brindiamo allora a questo felicissimo incontro che una provvidenza generosa ci ha voluto regalare… Viva le donne, viva il fidanzamento e il matrimonio!” Gaetano è subito subentrato e ha detto: “E mo che v’aggia dicere? Io n’aggio canosciuto e guaglione, ma nisciuna pulita, ‘ntelligente, carnalona, brava, acconcia e nnammurata comme a chisti ddoje sciuri che io e Giuseppe stammo pe cogliere, proteggere, cura’ per tutta a vita. Evviva e nnammurate, evviva e future spose!”
Occorreva fare qualcosa per rimediare allo scandalo: un gemello che parla forbito in italiano, e l’altro che parla sguaiato in napoletano. Ho pensato, riflettuto, ipotizzato, valutato. Alla fine, ho avuto un’idea brillante per diventare finalmente due gemelli perfetti. Siccome non avevo nessuna speranza di convincere Gaetano a parlare in un italiano come il mio, mi sono messo a studiare di buzzo il napoletano. E ho scoperto che non merita di essere considerato un dialetto: è una vera lingua, ricca, vibrante, ironica, creativa.
Dopo un lungo appassionato studio, un giorno all’improvviso mi sono rivolto a lui così: “Aita’, nuje amma fernì e parlà ddoje lengue spari, comme fussemo ddoje scanusciuti. Nuje simmo gemelli, e e gemelli anna parlà a stessa lengua. Rinto la vita ce vo cazzimma. Me so fatto curaggio e aggio pigliato o capo in mano: me so mparato o napulitano! Te fa piacere ca facimmo e chesta manera?” Gaetano ha spalancato gli occhi, mi ha sorriso, mi ha abbracciato forte forte. E, prima di mettersi proprio a piangere, ha gridato: “Mo sì ca simmo propeto gemelli!”


sabato 27 dicembre 2014

hashtag (??)



Mi viene in mente che non amo molto FB. Ma che è strumento del quale non si può fare a meno. E che odio, con tutte le mie forze, Twitter. Non ne ho mai voluto fare uso. Non so perchè. Per un fatto istintivo, oscuro. Una paura, insomma. 
La ragione? Perchè tende a assimilare il discorso fonologico (quello costruito trascrivendo con segni i suoni contenuti nelle parole, cioè il nostro) in iconico-simbolico, cioè fatto di simbolini funzionali che rappresentano le cose nominate. 
Se vi leggete qualsiasi trattatello di linguistica scoprite che le possibilità combinatorie del primo basate su un certo numero di segni sono praticamente infinite. Quelle del secondo, per quanto i segni tendano ad aumentare in maniera incontrollabile, sono praticamente quasi nulle, al di là della pura agnizione. Che vuol dire nominare le cose solo per il loro uso. 
Una riflessione banale ci fa capire che, nati in questo modo, i vari linguaggi dell'uomo si sono trasformati. Da agnitivi-funzionali in espressivo-riflessivi. 
Da nominare le cose concrete in inventare i concetti astratti. 
Come dire da: «capra», «latte», «mazza», in «sentimento», «Amore», «idea», «Bellezza». 
Bene. Un hashtag fa il contrario. Trasforma un'idea astratta in un simbolo.  
Cioè tenta di trasformare il linguaggio fonetico in un linguaggio strettamente funzionale. E questo, per me, significa attentare alla libertà di pensiero degli uomini. C'è chi sostiene che la libertà degli uomini, la vera libertà, il pensiero, la formulazione dei concetti astratti sia l'essenza della loro umanità. La fonte della vita intellettuale, del pensiero. Bene. Che cosa fanno gli hashtag (o come cazzo si chiamano) se non trasformare una parola in un'icona? Io scrivo «aria» e questa parola fonica (musicale) apre un universo di significati (ma soprattutto di allusioni, associazioni involontarie, fantasticherie) nella mente di chi legge. Scrivo #aria e immediatamente FB, twitter, Instagram e tutti gli altri social,  la trasformano in icona, in un simbolo che non significa più un cazzo, che soprattutto non apre nella mente di chi legge nessuna associazione, nessuna fuga (in senso musicale, Bach per intenderci). Ma nemmeno in un simbolo matematico, che una sua logica ce l'ha e come. E' un cartellino, un'etichetta, un cazzariello che mi svuota (ci svuota) della potenza eversiva del linguaggio. Meditate, gente, meditate. E' la più grande fregatura ordita ai danni dell'homo sapiens sapiens da tempi immemori. 
Siamo fottuti e ancora non lo sappiamo. 
Che ne direste di cambiare le regole? E tornare alla dialettica, al discorso, alle argomentazioni, alla poesia che, come dicevano Rilke, Heidegger e altri, rappresenta la ricerca del luogo del significato? Ne è la continua rifondazione? Contro la pura agnizione? Lottare  per la riconquista del significato, per il senso, il luogo dove la parola giace. Quella terra nascosta e profonda dove le parole incontrano i sentimenti e la ragione e fanno dell'uomo la splendida creatura pensante, artista, poeta, filosofo, inventore che è? Alla faccia di tutti i linguaggi piattamente funzionali?
Non ci leggete una profonda rivoluzione politica in tutto ciò?
Una lettura di Una teoria della prosa di Victor Sklowskij farebbe molto bene a tutti, visto il punto in cui siamo.

Io ti seguirò








di Claudio Cajati



È stata una lunga agonia, ma scontata. L’avevi provocata tu con la tua testardaggine nel farti del male.
T’hanno vestito di tutto punto, chissà perché si usa così, come se dovessi andare a una festa impegnativa. Impeccabile, t’hanno adagiato nella bara e, fra pianti sinceri o magari falsi, sono riuscito a farmi largo per darti l’ultimo saluto: una lunga leccata sul viso, ormai freddo e rigido, a cui la tua mano non ha potuto rispondere con una calda carezza. Poi due uomini mi hanno costretto a scostarmi – ho cercato di resistere ma erano minacciosi e determinati - hanno poggiato il coperchio e l’hanno avvitato.
Adesso sto accucciato in un angolo della stanza da letto. Il letto che dividemmo amorosamente, anche se d’estate dicevi che ero troppo caldo e non mi dovevo mettere sul tuo stomaco, ma ai tuoi piedi; anche se ti agitavi e ti rivoltavi un po’ troppo per i miei gusti, ma ero comprensivo. Ogni volta, la cosa importante era starti vicino, vicino al mio amato.
Sono tre giorni che sei morto, e sono tre giorni che non tocco cibo né acqua. Tua sorella, che è un tipo premuroso, mi vuole per forza far mangiare e bere, e mi porta le due ciotole, cibo appetitoso e acqua fresca.
Ma io non accetto niente, resto testardamente fermo nel mio angolo. Come se dovessi scontare una pena, come se la tua morte fosse anche colpa mia. E invece no. Io anzi ho cercato di fartelo capire che l’alcool ti avrebbe fatto molto male e avrebbe accelerato la tua fine (Ho cercato perfino talvolta di nasconderti le bottiglie di whisky o di gin, ricordi?, ma tu tanto cercavi che le trovavi, e poi mi facevi anche un gesto come a dire “Ah briccone, me le volevi nascondere!”).
Ecco tua sorella che torna all’attacco. Non riesce a rassegnarsi al fatto che non voglio mangiare e bere. Sembra più preoccupata di farmi star bene, che addolorata per la tua morte. E certo che mi ricordo alcuni vostri bisticci, spaventosi, non degni di un rapporto fra fratello e sorella. Ma in fondo non mi meravigliavo poi tanto: nella mia lunga vita – quattordici anni – ho imparato che gli umani non sono migliori di noi cani. Anzi.
Voi umani sapete fingere e mentire, mantenere il rancore e covare la vendetta, concepire il male e metterlo in atto, non disdegnate la violenza, anche gratuita, e sapete perfino concepire il gusto di uccidere. Cose che noi cani non facciamo e non sapremmo mai fare. Eppure ci leghiamo a voi, ad uno di voi, che diviene il nostro sacro padrone, e accettiamo rimproveri, trascuratezze, molestie, botte, offese (“figlio di un cane”, per esempio). Noi siamo sicuramente i vostri migliori amici, ma non si può dire che voi siete sempre i nostri migliori amici.
Tu però facevi eccezione: mi davi sempre il cibo migliore, magari quello che avevi cucinato per te, mi carezzavi e mi facevi le coccole, mi sussurravi paroline gentili all’orecchio, mi portavi dal veterinario appena stavo un po’ male, mi spazzolavi per farmi fare bella figura accanto a te per strada, mi portavi a passeggio regolarmente e capivi quando dovevo fare i miei bisogni, non mi strattonavi e tiravi come fanno tanti altri padroni, bestie che sono!
Perciò la tua morte è stata particolarmente dolorosa per me.
Stamattina finalmente ho accettato cibo e acqua. Ma non è un’interruzione del mio lutto. È solo perché voglio venire a trovarti, e perciò devo stare in forze, credo che il percorso possa essere lungo e insidioso.
Non so dov’è il cimitero in questa grande città. Ma con il mio potentissimo olfatto mi orienterò e lo troverò. E non ci sarà guardiano che possa impedirmi di entrare, o minacciarmi fino a farmi scappare fuori. Troverò il cimitero e troverò te.
Resisti, allora, non lasciare che la terra impietosa ti soffochi e abbia il sopravvento. Intanto già mi sono messo in marcia, nel traffico caotico che tenta invano di ostacolarmi. Presto sarò da te.

Alla fine ho trovato il cimitero, e nel cimitero ho trovato te. Non tanto con l’olfatto, quanto con la vista: la tua foto, una foto da giovane – come eri carino – che tua sorella ha fatto mettere sulla tomba. E lì mi sono accucciato, ancora con il fiatone, poi tranquillo. Con le orecchie tese come se dovessi cogliere la tua voce, quella con cui mi chiamavi e guidavi.
Sono rimasto così per ore, credo. La gente mi guardava strano. Il guardiano è passato, severo, e ha fatto la mossa di cacciarmi. Ma poi ha visto i miei denti e ha rinunciato.
Infine sono tornato a casa. Dove tua sorella, preoccupatissima, mi aspettava da tempo. Mi ha chiesto dove mai ero andato. Ho cercato di farle capire. Ma non ha capito. Non immagina. Siete un po’ ottusi voi esseri umani.

Sono giorni che torno, quotidianamente, a trovarti. Sono ormai una presenza usuale nel cimitero, e il guardiano mi guarda con compassione più che con fastidio. Forse ha perfino capito.

Adesso so che oggi sarà diverso. Non tornerò a casa da tua sorella. Perché rimarrò con te. E sarà per sempre: finalmente, come te, con te, troverò pace.