di Claudio Cajati
È
stata una lunga agonia, ma scontata. L’avevi provocata tu con la tua
testardaggine nel farti del male.
T’hanno
vestito di tutto punto, chissà perché si usa così, come se dovessi andare a una
festa impegnativa. Impeccabile, t’hanno adagiato nella bara e, fra pianti
sinceri o magari falsi, sono riuscito a farmi largo per darti l’ultimo saluto:
una lunga leccata sul viso, ormai freddo e rigido, a cui la tua mano non ha
potuto rispondere con una calda carezza. Poi due uomini mi hanno costretto a
scostarmi – ho cercato di resistere ma erano minacciosi e determinati - hanno
poggiato il coperchio e l’hanno avvitato.
Adesso
sto accucciato in un angolo della stanza da letto. Il letto che dividemmo
amorosamente, anche se d’estate dicevi che ero troppo caldo e non mi dovevo
mettere sul tuo stomaco, ma ai tuoi piedi; anche se ti agitavi e ti rivoltavi
un po’ troppo per i miei gusti, ma ero comprensivo. Ogni volta, la cosa
importante era starti vicino, vicino al mio amato.
Sono
tre giorni che sei morto, e sono tre giorni che non tocco cibo né acqua. Tua
sorella, che è un tipo premuroso, mi vuole per forza far mangiare e bere, e mi
porta le due ciotole, cibo appetitoso e acqua fresca.
Ma
io non accetto niente, resto testardamente fermo nel mio angolo. Come se
dovessi scontare una pena, come se la tua morte fosse anche colpa mia. E invece
no. Io anzi ho cercato di fartelo capire che l’alcool ti avrebbe fatto molto
male e avrebbe accelerato la tua fine (Ho cercato perfino talvolta di
nasconderti le bottiglie di whisky o di gin, ricordi?, ma tu tanto cercavi che
le trovavi, e poi mi facevi anche un gesto come a dire “Ah briccone, me le
volevi nascondere!”).
Ecco
tua sorella che torna all’attacco. Non riesce a rassegnarsi al fatto che non
voglio mangiare e bere. Sembra più preoccupata di farmi star bene, che
addolorata per la tua morte. E certo che mi ricordo alcuni vostri bisticci,
spaventosi, non degni di un rapporto fra fratello e sorella. Ma in fondo non mi
meravigliavo poi tanto: nella mia lunga vita – quattordici anni – ho imparato
che gli umani non sono migliori di noi cani. Anzi.
Voi
umani sapete fingere e mentire, mantenere il rancore e covare la vendetta,
concepire il male e metterlo in atto, non disdegnate la violenza, anche
gratuita, e sapete perfino concepire il gusto di uccidere. Cose che noi cani
non facciamo e non sapremmo mai fare. Eppure ci leghiamo a voi, ad uno di voi,
che diviene il nostro sacro padrone, e accettiamo rimproveri, trascuratezze,
molestie, botte, offese (“figlio di un cane”, per esempio). Noi siamo
sicuramente i vostri migliori amici, ma non si può dire che voi siete sempre i
nostri migliori amici.
Tu
però facevi eccezione: mi davi sempre il cibo migliore, magari quello che avevi
cucinato per te, mi carezzavi e mi facevi le coccole, mi sussurravi paroline
gentili all’orecchio, mi portavi dal veterinario appena stavo un po’ male, mi
spazzolavi per farmi fare bella figura accanto a te per strada, mi portavi a
passeggio regolarmente e capivi quando dovevo fare i miei bisogni, non mi strattonavi
e tiravi come fanno tanti altri padroni, bestie che sono!
Perciò
la tua morte è stata particolarmente dolorosa per me.
Stamattina
finalmente ho accettato cibo e acqua. Ma non è un’interruzione del mio lutto. È
solo perché voglio venire a trovarti, e perciò devo stare in forze, credo che
il percorso possa essere lungo e insidioso.
Non
so dov’è il cimitero in questa grande città. Ma con il mio potentissimo olfatto
mi orienterò e lo troverò. E non ci sarà guardiano che possa impedirmi di
entrare, o minacciarmi fino a farmi scappare fuori. Troverò il cimitero e
troverò te.
Resisti,
allora, non lasciare che la terra impietosa ti soffochi e abbia il sopravvento.
Intanto già mi sono messo in marcia, nel traffico caotico che tenta invano di
ostacolarmi. Presto sarò da te.
Alla
fine ho trovato il cimitero, e nel cimitero ho trovato te. Non tanto con
l’olfatto, quanto con la vista: la tua foto, una foto da giovane – come eri
carino – che tua sorella ha fatto mettere sulla tomba. E lì mi sono accucciato,
ancora con il fiatone, poi tranquillo. Con le orecchie tese come se dovessi
cogliere la tua voce, quella con cui mi chiamavi e guidavi.
Sono
rimasto così per ore, credo. La gente mi guardava strano. Il guardiano è
passato, severo, e ha fatto la mossa di cacciarmi. Ma poi ha visto i miei denti
e ha rinunciato.
Infine
sono tornato a casa. Dove tua sorella, preoccupatissima, mi aspettava da tempo.
Mi ha chiesto dove mai ero andato. Ho cercato di farle capire. Ma non ha
capito. Non immagina. Siete un po’ ottusi voi esseri umani.
Sono
giorni che torno, quotidianamente, a trovarti. Sono ormai una presenza usuale
nel cimitero, e il guardiano mi guarda con compassione più che con fastidio.
Forse ha perfino capito.
Adesso
so che oggi sarà diverso. Non tornerò a casa da tua sorella. Perché rimarrò con
te. E sarà per sempre: finalmente, come te, con te, troverò pace.