di Claudio Cajati
Mio
padre era un grande falegname. Stupendo era tutto ciò che costruiva. Ma il suo
cavallo di battaglia era la bara. Tanto che ben presto fece fallire tutti gli altri
costruttori di bare della città.
Lui
avrebbe voluto che da grande facessi anche io il falegname. Ma presi un’altra
strada: il caso volle che a soli sette anni assistessi alla deposizione di un
morto in una delle nostre bare. Scoprii che non la bara in sé mi affascinava,
bensì la coppia morto-bara. E capii subito – ero un ragazzino sveglio – che
avrei fatto il becchino. Quella era la mia vocazione.
Così,
appena maggiorenne, ho aperto un’agenzia di pompe funebri. Nonostante la viva
disapprovazione di mio padre che, forse anche per questo dispiacere, si è
ammalato. E ci ha lasciato a soli cinquant’anni.
Voglio
spiegare le mie sensazioni quando metto un morto nella bara. Perché non si
creda che io sia un inguaribile pervertito, tanto più che lo sarei stato, cosa
ancora più grave, sin da ragazzino.
Ebbene,
due durezze si confrontano e si integrano: quella del legno stagionato della
bara, quella del corpo del morto ormai preda del rigor mortis. Accomodare con garbo e sapienza la salma nella cassa
mi fa sentire un bravo cristiano, rispettoso dei trapassati come, o perfino ancor
più che dei viventi.
E
poi c’è anche una sinergia di odori. Se tutti sanno e accettano la gradevolezza
dell’odore del legno stagionato - larice, ciliegio o altri – pochi o nessuno
forse vorrà ammettere che una salma ha un suo profumo delicato, che non va
camuffato e mortificato con fiori o deodoranti.
Mia
madre sta dalla parte di mio padre e, ora che lui ci ha lasciati, lei
moltiplica i rimproveri, come se fossero a nome di tutti e due. Non può fare a
meno di protestare: fare il falegname invece che il becchino sarebbe stato più
dignitoso, i becchini sono sempre malvisti, e i falegnami, inoltre, guadagnano
anche di più.
Io
difendo la mia scelta. Anche se so che le mie parole non avranno mai la sua
approvazione: “Mamma – le dico sfrontatamente – io voglio bene ai morti. Solo
loro rispetto sempre e comunque. I morti non pettegolano, non progettano e non realizzano
il male, non tradiscono, non deludono. Fra tanto chiasso che fanno i vivi con
la bocca, i morti, giudiziosi, tacciono. E il loro silenzio è d’oro.” Mia madre
mi guarda storto, nella bocca una smorfia di disgusto. Ma io concludo: “Quella
loro faccia immobile, distesa, serena mi dà pace e conforto, non vorrei mai
smettere di guardarla. E mi dispiace che a un certo punto, come è purtroppo
inevitabile, devo mettere il coperchio e avvitarlo.”
C’è
sempre molto lavoro per me, per fortuna.
Quando
è arrivata la Crisi, poi, ho incrementato molto il mio business con i suicidi,
artigiani falliti, operai licenziati. I vecchi poveri, morti in anticipo.
Per
non parlare dell’ultima moda, il femminicidio: anche nella mia città donne
fatte fuori da ex fidanzati o ex mariti o semplici conviventi. E mettiamoci
pure il contributo di ubriachi e drogati che falciano i pedoni perfino sulle
strisce pedonali.
Infine
una mano me la danno anche le faide fra famiglie malavitose con i loro
sbrigativi ammazzamenti, e i tumori dovuti ai rifiuti tossici che hanno
sotterrato in discariche abusive.
La
Crisi è finita, purtroppo. O almeno molta gente ci crede. Tutti si attaccano
alla vita, non si lasciano andare. Se imprenditori, artigiani e operai non
vogliono morire più come prima, non li si può certo convincere. Se i maschi
cominciano a rinunciare al femminicidio (non va più di moda?); se le famiglie
della camorra hanno siglato una lunga tregua; se la medicina e la chirurgia si
dilettano ad allungare a dismisura l’esistenza e la malasanità perde colpi, chi
ci va per sotto? Io, che faccio il becchino e vivo della morte altrui.
I
miei affari insomma da un po’ vanno male. Scendo nel magazzino e guardo tutte
quelle bare che mi ero preoccupato di comprare in grande quantità, e che ora mi
rimangono sconsolatamente vuote.
L’altro
giorno, che non sopportavo più di vederle tutte inutilizzate, e mi sentivo
molto stanco, mi sono calato in una. Anche per vedere se era comoda come
sostiene quello che me le vende (si chiama Filippo, da un po’ si è messo in
proprio, ma la gavetta l’ha fatta nella bottega di mio padre). Devo dire che
proprio comoda non era. Ma poi ho riflettuto che per un morto deve essere
diverso. I morti non pretendono, non sono schizzinosi.
Intanto
ormai io e tutta la mia famiglia ci siamo abituati a un certo tenore di vita:
Nunziata, mia moglie, vuole sempre rinnovare il guardaroba, soprattutto con
capi dai colori luminosi e allegri per compensare di essere maritata a un
becchino; i ragazzi, Gaetano e Annarella, mi credono un padre benestante, pretendono
una paghetta consistente e corrono appresso ad ogni novità tecnologica; io
stesso, lo confesso, ho i miei vizietti costosucci, non ultima Natascia, giovanissima
aiutante ucraina.
Che
fare, allora? Dovrei forse suicidarmi? Ma figuriamoci, sono un ottimista, io. Non
mi resta che aspettare che riprendano quota le ragioni e le occasioni per
uccidere, per suicidarsi, per morire.
Confido
soprattutto nei nostri politici, tanto insipienti e inaffidabili da riuscire a
vanificare questa timida ripresa e alimentare piuttosto una nuova devastante
Crisi, sicura dispensatrice di morti.
E
allora ciò che tutti subirebbero come una rinnovata sciagura, io potrei invece
salutare come la manna dal cielo: non più tristemente vuote le mie bare, non
più pigramente vuote le mie giornate, non più desolatamente vuote le mie
tasche.