di Claudio Cajati
Ho fatto una carriera
fulminante. Ho cominciato un anno fa come portiere di un palazzotto scalcinato
abitato da medioborghesi ridottisi a piccoloborghesi. Qualche sparuta mancia,
qualche sorriso imbarazzato e malinconico, lavoretti umili eseguiti a regola
d’arte, le pretese assurde di qualche inquilino arrogante, una bella ragazza
che nemmeno mi salutava. Una vitaccia insomma.
Però nel quartiere si è
sparsa la voce che ero bravo, affidabile, puntuale, sempre pronto a
intervenire, mai invadente o pettegolo. Due mesi dopo, un giorno l’amministratore
di un palazzone elegante è venuto a trovarmi e mi ha detto che ero sprecato in
quello squallido palazzotto, che come portiere del suo palazzone avrei avuto un
ambiente rispondente alla mia statura professionale, e avrei anche guadagnato
molto di più. Accettai subito. E pensai che avevo ormai raggiunto il limite
delle mie possibilità. Ma mi sbagliavo.
La mia fama correva
veloce di bocca in bocca. Passarono soltanto altri tre mesi, e mi si presentò,
elegante, solenne e tutta ingioiellata, un’anziana signora che mi sembrava una
nobildonna. Infatti lo era: Donna Maria Gabriella de Miccolis e de Cajanis.
“Senta, signor Stellone (io mi chiamo Silvestro Stellone)” cominciò lei
disinvolta “ora che la vedo da vicino, penso che lei può fare proprio al mio
caso. Abito in una villetta liberty che immancabilmente attira le attenzioni e
gli appetiti malevoli di ficcanaso e delinquenti. Ho invero un portiere ma,
anziano com’è, non è in grado di assicurarmi quella protezione anche fisica di
cui ho assoluto bisogno. Vedo che lei ha un bel personale, da giovane
palestrato: potrebbe quindi svolgere benissimo il doppio ruolo di portiere e di
guardia alla mia villetta. Naturalmente le verrebbe corrisposto uno stipendio
adeguato, appunto doppio. Cosa ne dice della mia proposta?” Accettai
immediatamente. E questa volta pensai che avevo davvero raggiunto il limite delle
mie possibilità. Ma, ancora una volta, mi sbagliavo.
Nella mia vita sono
sempre stato molto fortunato. La nobildonna non mi aveva detto di essere stata,
fino a una decina d’anni prima, un’attrice di teatro e di cinema. Un giorno,
dopo circa altri tre mesi, venne a trovarla e omaggiarla un importante
produttore di Cinecittà. Mi vide, e mi guardò come incantato. Poi, rompendo gli
indugi, mi chiese se ero interessato a fare la comparsa e qualche cammeo in
alcuni film, nonché la guardia del corpo, a turno, di ognuna di un nutrito
gruppo di attricette emergenti. Se non avessi avuto sin da piccolo una sfrenata
passione per il cinema, non avrei certamente accettato. Nella villetta della
nobildonna ci stavo molto bene. Ma la nuova esperienza e avventura che mi
veniva offerta, anche se non comportava un maggior guadagno, era troppo
allettante per rifiutarla. Accettai di corsa. E questa volta pensai che, senza
alcun dubbio, avevo raggiunto il limite delle mie possibilità. Ma, perbacco, ancora
una volta mi sbagliavo.
La mia vita a Cinecittà
era frenetica e ricca di appetitose occasioni. Saltavo da un set all’altro,
imparavo con fatica, ma con la giusta concentrazione, le particine dei miei
cammei, recitavo con mille paure, però poi mi buttavo e venivo incoraggiato e
perfino lodato dai registi. Ma i bocconcini più gustosi erano le attricette a
cui dovevo fare da guardia del corpo: molte di loro intendevano la cosa nel
senso di occuparmi del loro corpo anche in orizzontale. Su un letto o su una
scrivania o proprio sul nudo pavimento. Cosa avevo io di tanto attraente?
Chissà. Ma queste piacevolissime distrazioni non inficiavano il mio compito ufficiale.
In questo campo avevo fatto molti passi avanti, mi ero specializzato. E la mia
fama correva adesso per tutta Cinecittà. C’è bisogno che dica che pensavo di
aver raggiunto il limite delle mie possibilità e invece mi sbagliavo, come al
solito?
La sera, come si può
facilmente capire, ero stanco. Anzi, proprio stracco. Stavo nella mia stanzetta
coricato sul letto, pronto a farmi fagocitare da un sonno ristoratore. Qualcuno
bussò con energia alla porta: era un uomo anziano, distinto e autorevole. “Mi
scusi, signor Stellone, per l’ora tarda” esordì con accento americano “ma avevo
urgenza di parlarle. Mi presento innanzi tutto, sono Jonathan Smith, press
agent di Scarlett Drake…” Ebbi un sobbalzo, scattai giù dal letto: Scarlett
Drake, nientemeno, la grande giovane attrice statunitense! “La Drake” continuò
lui imperterrito “ha bisogno di una nuova guardia del corpo, perché quella
attuale ha interpretato il ruolo in maniera, diciamo, troppo intima, e lei
questo non lo vuole: lei, come ormai si sa, preferisce le donne…” Pensai alle
mie avventure con le attricette, e che anche io non ero la guardia del corpo
adatta. Ma, pur di avere l’onore e il privilegio di stare accanto a Scarlett
Drake, ebbi fulminea una bella idea. Fingermi effeminato, senza esagerare però.
Vidi un sorriso aprirsi sul volto del press agent. La cosa era dunque fatta.
Avevo il cuore in brodo di giuggiole.
Scarlett aveva più o meno
la mia età. Sotto i trenta. Tonda, morbida, flessibile, di un rosa chiaro nella
carnagione, non era molto alta ma perfettamente proporzionata. Dalle movenze
feline, procedeva come una dea, ma una dea che non si compiace della sua
natura. La mimica mobilissima del viso passava trionfante dal sorriso al
corruccio, dall’ira alla paura, dal riso al pianto, dalla perplessità
all’illuminazione, dall’ingenuità alla scaltrezza, dalla bontà alla malignità.
Sapeva essere desiderabile, sempre senza volgarità, goffaggine, cadute di stile.
All’inizio avevo sentito l’impulso di farmi avanti, di tentare una disperata avance, ma avevo presto rinunciato: ci
tenevo a non rovinare tutto, a rimanerle accanto. Perciò continuavo, con
misura, la mia commedia dell’effeminato. Scarlett mi aveva studiato a lungo,
perplessa o forse perfino sospettosa; ma poi si era convinta che ero innocuo. E
innocuo veramente diventavo io man mano che scoprivo la gioia dei soli sguardi:
mi deliziava guardarla qualunque cosa facesse, si vestisse, si spogliasse, si
lavasse, si sedesse, si coricasse, parlasse al telefono, mi chiamasse, mi
congedasse, facesse le prove prima dello spettacolo, recitasse, ricevesse nel
camerino i fans… Io stavo sempre lì, ombra fedele di tanta luce, forte della
mia recita.
Dopo pochi giorni che
lavoravo per lei, venne a trovarla una giovane amica, Lara Winehouse. La sua
compagna. Non persero tempo, andarono subito a letto. Ma anche io subito avevo
trovato il modo, inserendo una zeppa di carta, di non far chiudere bene la
porta della stanza di Scarlett, da cui già mi giungevano sommessi lamenti
amorosi. E poi avevo imparato, con lunghi allenamenti, a muovermi senza fare il
minimo rumore: avanzai verso la stanza, aprii la porta di quel poco che mi
permetteva di vedere le due lesbiche a letto. Loro erano talmente eccitate e
impegnate nei loro strofinamenti e leccaggi che non si accorsero affatto di me.
Io mi scoprivo eccitatissimo: per un eterosessuale vedere fare sesso due
lesbiche è piacevole. Ma lo spettacolo di quei due corpi teneramente avvinghiati,
curve con curve che si inseguivano e intrecciavano, era incantevole. Qualcuno
riderà di me se lo dico, ma lo dico lo stesso: guardare quelle due non era meno
piacevole che trombarle. Anzi, in assenza del lato fisico, si raggiungeva un
godimento più puro.
Sono passati mesi e mesi
di questo paradiso inaspettato. Guardavo Scarlett mattina, pomeriggio, sera e
notte (lei non se ne accorgeva, o così mi piaceva pensare). Era come un film no
stop, dove io recitavo sempre lo stesso ruolo, il ruolo del guardone. Ma un
guardone speciale, un guardone che non si abbassava a masturbarsi, che sapeva
elevarsi alle altezze del bello. Gli spettatori vedevano Scarlett recitare,
Lara ci faceva l’amore, io semplicemente la guardavo. Questa volta sentivo, ne ero
sicuro, che avevo raggiunto il limite, il culmine delle mie possibilità. E
invece, come al solito, mi sbagliavo.
Un giorno la svolta
traumatica. Jonathan Smith viene a trovarmi, sorriso smagliante e voce
emozionata. Prorompe a dirmi: “Signor Stellone, una bella notizia per lei: il
grande regista Bill Gaynor vuole offrirle una parte da protagonista nei suoi
film…” Io quasi balbetto: “Una parte importante… ma che parte?” Lui mi squadra
con un sorrisetto ammiccante, e con voce carezzevole mi dice: “Vede, qua a Cinecittà
le voci corrono rapide di bocca in bocca. Tutti ormai sanno che lei è la
guardia del corpo perfetta per Scarlett, che non rischia di essere licenziato
come quello di prima, quel maschiaccio impertinente che si è permesso… E poi la
sua bella presenza, le sue movenze che interpretano con la giusta misura la sua
scelta sessuale… insomma ne fanno il soggetto ideale per i film gay di Bill
Gaynor…”
Mi viene la voglia di
interromperlo subito e di chiarire che io fingo di essere gay ma invece tutto
il contrario. Poi però mi rendo conto che così perderei il posto di guardia del
corpo di Scarlett, e questo assolutamente non lo voglio. Mi affretto a cercare
una via d’uscita: “Scusi, signor Smith, io non ho mai fatto l’attore. Se
rifiutassi…?”
La faccia di Jonathan
Smith cambia immediatamente espressione. Delusione ma anche imbarazzo per la
risposta. Infatti resta in silenzio alcuni secondi, che a me sembrano minuti,
prima di parlare: “Vede, signor Stellone, Cinecittà ha una sua logica e un suo
regolamento. Quelli che entrano a lavorarci si dividono in due categorie:
quelli che avranno sempre le stesse mansioni, e quelli che sono destinati alla
scalata, a nuovi emozionanti impegni. Lei appartiene, a giudizio di tutti noi,
press agent, registi, produttori, alla seconda categoria. Lei deve accettare e
andare più in alto. Se rifiuta, dovrà andare via da Cinecittà. Dura lex sed lex, come dicevano gli
antichi Romani.” Mi domando se in questi film gay dovrò essere ‘attivo’ o
‘passivo’: una bella differenza. Ma non è questo il fatto più importante. Io
non voglio perdere Scarlett. E allora accetto.
Non starò qui a descrivere
cosa comporta il mio ruolo in questi film. E cosa mi tocca provare. Sono cose
che preferisco tacere. Ma continuo impavido nella mia vita di attore gay pur di
mantenere il posto di guardia del corpo di Scarlett. Vivo l’inferno e il
paradiso. E mai mi stanco.