logo

logo
ebook di ArchigraficA

lunedì 27 febbraio 2012

Un'improbabile utopia

note a proposito di Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione

di Giacomo Ricci




Questo libro è, in qualche modo, il proseguimento del mio Pietre di Fuoco. I personaggi sono gli stessi, il professore De Luca, Nunziatina, don Gaetano, Rosetta. Sono gli stessi ma sono diversi. Sono, forse, frutto di una maggiore attenzione. O forse mi sono avvicinato di più al loro mondo. Certamente voglio loro più bene.
Innanzitutto il protagonista, la “voce narrante” di Pietre di Fuoco ha finalmente un nome. Si chiama Jack ed è un bastardo, mezzo napoletano e americano. Viene dagli States, dalla Columbia University, antropologo che lavora sul campo, alla ricerca dei caratteri tipici del lazzaro napoletano. Alla ricerca della sua storia possiamo dire, delle sue radici.
Un carattere autentico, biografico mi collega a lui. Perché il suo nome è quello di mio padre, il mio padre vero, Jack Leslie Doughtie. Jack, mio padre, venne qui nel ‘44. Sbarcò con gli americani. S’inna­morò di mia madre Anna. E da questo loro amore nacqui io. Poi lui partì e non tornò mai più. Ho creduto che mi avesse abbandonato. Mia madre l’ha sempre creduto. Ma, poi, quest’inverno, dopo una vita intera, sotto le pressioni di mia moglie e dei miei figli, con l’aiuto dell’amico Francesco e di John, suo amico, militare americano, l’ho cercato e l’ho trovato. Non c’è più. C’era da aspettarselo, almeno che non avesse avuto quasi cent’anni. Ma quello che ho scoperto è che era morto giovanissimo, dopo pochi mesi che era tornato dalla guerra nella sua Cleburne nel Texas.
Medico, colonnello, aviatore, luogotenente di un ospedale militare, bello, come un attore americano di un film western, texano, alto, con gli occhi neri e profondi e lo sguardo dolce. Morì d’embolia a trentacinque anni. Una conseguenza dei suoi voli, immagino. Ce n’è di che pensare e fantasticare. La morte quando è così sgarbata, quanno nun tene crianza, diciamo a Napoli, fa pensare, ci fa provare un senso di profonda pena. Il vecchio che muore fa tenerezza. Ma è nel gioco della vita. È cosa scontata. Il giovane che muore fa una pena senza fine. Non ce l’aspettiamo.
Una sua foto che mi è stata davanti agli occhi per una vita assume tutto un altro significato. Gli voglio bene pur non avendolo mai conosciuto. Una strana sensazione profonda, che non avrei mai pensato di provare.
Ho scoperto, dopo tanto tempo, che non mi aveva abbandonato. Non aveva avuto il tempo di pensare e scegliere. Perché era già sposato in America (con un piccolo figlio) quando partì per la guerra, venne in Italia, a Napoli, quando amò mia madre, in un paese straniero.
E ho scoperto di avere un fratello, più grande di me di due anni, che si chiama Jack Leslie Doughtie, come lui. Come me, potrei dire, perché mia madre voleva chiamarmi Jack. Poi, non potendolo fare, perché una legge di allora impediva di dare ai propri figli nomi stranieri, optò per l’italiano Giacomo. Il mio nome sarebbe potuto essere Jack Leslie Doughtie e non Giacomo Ricci. Ricci è il cognome di mia mamma, ovvio.
Romanzando, cambiando, infilando fantasie e immaginazioni, ho costruito una storia che, per quanto inventata di sana pianta, è, nei sentimenti, molto più autobiografica di quanto possa sembrare.
Il quartiere di Sant’Anna di Palazzo che ricordo fin da piccolissimo, i suoi elementi, la gente, le parole, il gergo, le inflessioni, le situazioni, le convinzioni, il modo di fare sono tutti veri, autentici, vissuti. I personaggi e le situazioni, al contrario, sono frutto della mia fantasia. Nessun riferimento, come si dice, a persone o fatti realmente accaduti. Ogni coincidenza è puramente casuale. Ma al di là di questo, l’evoluzione della storia è puramente fantastica come chi legge capirà.
L’evoluzione della trama verso il finale è un desiderio che mi porto nel cuore, un riscatto per il popolo napoletano che adoro. Alla lettera. Lo adoro perché ci sono vissuto dentro, perché, bastardo generato dalla guerra, mi ha accolto come figlio suo. Perché è splendidamente tollerante. Perché per il popolo napoletano non esiste il “diverso”. Perché è il popolo stesso a essere “diverso”, dal mondo, dal potere, dalle regole stupide che servono solo a chi non sa regolarsi di suo, perché ha memoria che le “regole” sono sempre imposte dai dominatori di tut­te le epoche per metterglielo a “quel servizio”. Ne ho interiorizzato la dolcezza, anche quella che si può leggere al di sotto della disperazione, del cinismo, della strafottenza, dell’apparente arroganza, della ostentata volgarità. Come ha scritto Curzio Malaparte, lo scrittore che, a parere mio, in assoluto con Axel Munthe, è quello che più ha compreso a fondo, intuito la maledetta grandezza, l’infinita splendida miseria di questa gente, il popolo napoletano “è infelice, meraviglioso”. “Nessuno sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Ma non maledice nessuno, neppure la miseria. Cristo era napoletano”. Così scrive Malaparte.
Non so se Cristo fosse napoletano. Forse no. Certamente è di casa qui, nei suoi vicoli più bui e umidi. Sta negli anfratti più nascosti. È vicino a chi soffre. Il popolo qui si sacrifica, è oppresso e disprezzato. Anche se può sembrare che qualcuno vesta firmato e abbia una bmw. Quelli sono i traditori di tutte le razze, gli sciocchi, i violenti, quelli che si accontentano di poco. Sono quelli prodighi di dolore per gli altri. Quelli sono i “fuochisti” della storia.
Il popolo napoletano c’è, patisce, come ha sempre fatto, sta nascosto, per non farsi vedere. Perché ha vergogna. Quella vergogna che ha sempre avuto, che gli oppressori di tutte le razze gli hanno gettato addosso. Quella che descrive Munthe quando cammina, nei giorni del colera, per i fondaci più luridi. Quella che vede Malaparte quando passeggia con il suo amico Jack, militare, americano, letterato, colto e pulito, e osserva il popolo con gli occhi dello straniero, pieni di meraviglia. Quel popolo, oggi nascosto da sembrare sparito, soffocato sotto la spazzatura. C’è ancora. E soffre infinitamente. Ma è capace di risorgere. È capace di risollevarsi anche dalle spire di confusione e depravazione in cui la società contemporanea con i suoi bassi miti di consumo l’ha sprofondato.
La storia che ho scritto vorrebbe avere una morale. Chi è nella merda non ha niente da perdere, solo le sue catene. Tutt’è che prenda coscienza della sua grandezza. Sta tutta là, deve solo afferrarla. Come si vede, non si tratta di una novità. Qualcuno l’ha già detto almeno 150 anni fa. Qualche altro, più grande e più umile, addirittura duemila anni or sono.
Il mondo che gira attorno al protagonista è un misto. Una natura bastarda e mescolata.
La ragione, il senso viene fuori solo dalla mescolanza. Noi gente del sud, figli di arabi, saraceni, turchi, marocchini, normanni, qualche longobardo, sanniti, albanesi, greci, pirati e sbandati del Mediterraneo di tutte le razze lo sappiamo bene. È dalle profonde ibridazioni che può venire il riscatto, altro che razze pure. Razza bastarda, come la mia, com’è sempre stato dentro di me e non l’ho mai approfondito più di tanto: la chitarra, lo slang, i terrazzi di Napoli, i gatti, il brooklynese, la lingua napolitana, la musica, il ballo da tarantati, il jazz, nero da dentro e da fuori, i Lazzari, il Settecento. Il re Nasone, San Gennaro, i pellerossa, Tom Mix, le fantasie di celluloide, a cavallo di una mazza di scopa, caracollando sui basoli sporchi di verdura dei mercati.
Sono tutti materiali che si devono essere rimescolati nei miei geni, provenendo da mondi diversi e lontani, come quando imparai, da piccolo, a suonare armonica e chitarra, come l’amore per la lingua inglese che ho poi abbandonato, come il senso di appartenenza che mi dà il palazzo reale di Napoli, le sue statue dei re che sono i miei re, la nostra storia di sole e mare, libertà e corsa pazza. Il sole che bacia le navi di Carlo III in partenza verso la Spagna, il più grande re del popolo napoletano. Il nostro re partito via, strappato via alla sua gente.
E amo i briganti, perduti sulle montagne, patrioti di un regno finito, sterminati dalle razze invasori, senza pietà. E Franceschiello, ultimo re, e la sua grandezza d’animo.
Le parole più belle che possono sintetizzare questo mio sentire le ho riportate in alto. Le ha scritte Mark Knopfler. Il nostro è un cuore d’oro, il cuore popolare napoletano è d’oro, lucente come il sole. Come l’aria e il mare che ci hanno tolto.
La storia che ho scritto pretende di essere letta in un fiato. Ma le interruzioni critiche, anche se si tratta di un giallo, non sono stato capace di evitarle. Il lettore così sarà paziente se, in alcuni punti, indugio troppo sulla storia di Masaniello.
Troppo tragica ed eroica per sembrare tutta vera, almeno per un napoletano. Sfora direttamente nel mito. I napoletani, nella vulgata corrente, quando non sono brutti, sporchi e cattivi (come dice Bocca) sono certamente dei lazzari e tutto sole, mandolino e putipù. Evidentemente così devono aver pensato i critici più blasonati, arrampicandosi sugli specchi per tentare di spiegare la cosiddetta “pazzia” di Masaniello, lasciando a Lady Morgan e Alexandre Dumas l’interpretazione più ovvia, che il capopolo fosse stato avvelenato per volere del viceré Conte D’Arcos. Bisogna dire che facevano fatica a riconoscergli una dignità, una compostezza, un rigore. E che, un popolano può mai avere dignità? Può mai dalla merda decantare la manna? Il fatto è che, a leggere la storia con il cuore e con il cervello, di tutte le spiegazioni della pazzia di Masaniello, quella dell’avvelenamento è la più razionale e plausibile. Sembra insomma la più vera. E molto probabilmente lo è. Per conto mio ne sono certo.
E così è sembrata a chi, nella trama di Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione, ha ordito le sue vendette contro i moderni oppressori. Ma di più non posso dire perché si tratta di un giallo e la fine, per definizione, non si può raccontare in anticipo. Intrighi, carte, pergamene, ombre di passati spadaccini, morti accoltellati, riunioni segrete, sospetti che vagano nell’aria, sono gli elementi che rendono spessa e consistente la storia nella quale assieme al professor De Luca, anche Jack, che racconta, assume un ruolo di primaria importanza. Una storia costruita con rigore e attenta alle conseguenze di ogni azione, di ogni eventualità. Come un giallo che si rispetti, mantiene unità di azione, tempo e luogo. Ma sotto questa scorza di necessaria razionalità, la storia è scappata, in più punti, dalle mie mani verso il cielo come un uccello che fugga dalla sua gabbia. Un’ansia surreale la permea in ogni tratto.
I lazzari, al di là di tutta la miseria della loro condizione, rivendicavano una totale anarchia di fondo, un vivere liberi di cui oggi abbiamo perduto completamente il significato. Anche se, a sprazzi, poeti isolati e vagabondi irresponsabili come Pino Daniele e Massimo Troisi, mostrano di averlo capito a fondo.
Aitano, lazzaro, suonatore ambulante, poeta è il lazzaro moderno, il personaggio-chiave di questa storia. È tutto da scoprire perciò non ne anticipo nulla. E Mario Varriale, cui questo lavoro è dedicato, è l’ultimo vero contadino del Vomero, il testimone di un’epoca antica e felice, la possibile via di riscatto (l’unica che vedo) per l’immediato futuro della città di Napoli. Quella di un ragionevole ripensamento critico dei nostri modelli di vita, abbracciando un’utopia del grande ritorno al passato, ai suoi valori, alle sue tecniche, alla terra e al rispetto della natura, rivedendo molte delle cosiddette conquiste della “modernità”, rifiutandone tanti falsi vantaggi. Un mondo lontano dalle abiezioni della produzione contemporanea che divora il pianeta e le sue limitate risorse.
Ma questa è veramente un’improbabile utopia.

giovedì 23 febbraio 2012

Lazzari secondo Vittorio Losito



di Vittorio Losito




Questo testo è ben più di un “noir”: è un viluppo di ricordi e di emozioni che, pur non dichiarandolo esplicitamente, tende a restituire una visione radicale della realtà facendola derivare da una civiltà di appartenenza e da memorie ed esperienze personali di vita, sedimentate e feconde.
Alla lucida analisi dell’antropologo alla scoperta di strutture di aggregazione e di meccanismi sociali, si sostituisce, come contraltare consapevole, l’adesione “ingenua” e, dunque, poetica al mito del popolo “lazzaro”, unito in sé, altra faccia del mondo contadino (che sorride dalle pendici di San Martino), che alza la testa e mette da parte la sua rassegnazione e fa “giustizia”, la sua giustizia che scorre e deborda fuori dagli argini della cosiddetta «società civile»: perché il popolo “lazzaro” non vi si riconosce anzi la conosce solo nelle sue degenerazioni.
L’estrema dignità nella povertà estrema (punto di agglomerazione del modo di pensare dei borghesi impoveriti, alla Umberto D.) nasconde qui miracoli terribili e sanguinosi. Il mondo virulento e sotterraneo dei “lazzari” vive a contatto con una borghesia che, anche se colta, è sfiancata e mediocre, e degli ultimi residui d’una nobiltà schizofrenica e preda di atavici sensi di colpa: il senso di un’azione di ribellione ritrovato in antichi libelli, la meschinità della cultura istituzionale, disegnano lo spazio sociale e la collocazione dei “colti” che affiancano il popolo “lazzaro” e lo guidano nelle sommosse attraverso segrete società di incappucciati. Si riposerà infine nella vagheggiata saggezza contadina, che a Napoli è un vero sogno e un evanescente ingenuo mito.
Una bella favola corrusca, che tuttavia nasconde la vera disperazione del presente, della contemporaneità che si rivela indomabile anche dalle categorie culturali più raffinate. Un populismo sognante che poggia su un lessico intrecciato e non scontato, una galleria di ritratti che rivela ancora una profonda fiducia nella natura umana che riuscirebbe a conservare intatte e incontaminate radici anche all’interno di vite poverissime e abiette.
Ma questo testo, e questo è vitalissimo e commovente, è anche una ricerca d’identità personale, una ricerca di radici e uno scavo nelle memorie lontane, un raccontarsi la propria storia, nella disarmante fiducia che «siamo sempre gli stessi ad ogni età» e che, felicemente, non si cresce più oltre l’adolescenza.
Tutto questo è un grumo di emozioni avviluppato attorno ad una mai dimenticata esperienza di vita e di luoghi, rimasta ardente e viva, incancellabile come la verità.
E tutto questo fa superare di slancio alcuni limiti di secondo piano come quello che a me sembra un uso un po’ standardizzato del dialetto napoletano, un’accentuazione del “colore locale” forse pleonastica, l’uso di generalizzazioni che s’identificano come “colte” (lo stare, di fatto, dalla parte dei “colti” contro la “cultura”, un Nietzsche troppo facile, gli incappucciati in fila, i troppi camorristi in Borsalino e occhiali neri, i professori che “tramano nell’ombra”). Ma questi a me paiono dettagli secondari rispetto all’efficace rigore dei dialoghi e monologhi interiori, che sono il filo rosso del libro e che sostengono robustamente la narrazione. 
Il sogno sorridente della terra madre e dell’ultimo contadino di San Martino, vagheggiamento di un improbabile riscatto al di fuori della contemporaneità, affonda le sue radici mitiche e pulite  nella nuvola rosea dell’illusione, ma anche nel sottosuolo scavato e vuoto di Napoli.
Il libro si caratterizza come opera dai molteplici aspetti non sempre distinguibili, con guizzi rocamboleschi e ripiegamenti interiori: un’opera felicemente barocca, una bella favola noir e una mascherata sorridente e dolente insieme.