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ebook di ArchigraficA

mercoledì 25 luglio 2012

Ancora su studio, mestiere e prospettive















di Maurizio Zenga


Dopo aver letto con attenzione lo scritto di Maria Grazia e i commenti successivi, mi permetto di aggiungere una breve considerazione personale alla discussione e una esortazione finale rivolte a Maria Grazia.
Premetto che la mia età e la mia esperienza lavorativa mi consentono di fare alcune deduzioni di carattere generale che confermano in parte le sue considerazioni.
Nulla è cambiato sotto il cielo di questo sventurato  paese da quando, studente di Architettura nel 1975, rimasi affascinato dalla passione con la quale un giovane assistente affrontava la platea degli studenti della Facoltà di Napoli, trasmettendo quella forza delle idee che ancora oggi  distingue  i suoi scritti e le sue opere grafiche  ma anche deluso dalla mortificazione che le stesse idee espresse con convinzione al limite della veemenza, da me completamente condivise, dovevano  costantemente subire grazie ad un sistema di potere che ha estromesso, emarginato, umiliato le forze migliori del nostro apparato scolastico, dalla scuola dell’obbligo fino all’Università, da quell’epoca lontana fino ad oggi.
Parlo ovviamente di Giacomo Ricci architetto e studioso, artista e libero pensatore della cui amicizia mi onoro e a cui la mia vita di studente e poi di architetto mancato, di insegnante ma anche di grafico e di creativo, deve molto.
Perché parlo di Giacomo, commentando lo sfogo di M.G.? Perché le cose che dice lei sono le stesse che avrei detto io quasi quarant’anni fa, le stesse che con Giacomo  abbiamo discusso mille volte. Nulla è cambiato, come dicevo, perché a nessuno interessa realmente che nelle nostre scuole e nelle nostre Università si insegnino cose che poi possano essere applicate coerentemente e utilmente nella realtà del lavoro quotidiano. Tuttavia, la presenza in questo desolato panorama culturale, di persone capaci di stimolare una riflessione, una discussione, in grado di ascoltare, approfondire, commentare, progettare  ciò che potrebbe essere questo paese se ci fosse consentito di contribuire, per ciò che siamo capaci, realmente alla sua crescita culturale, economica, politica, sociale ecc. ci fa bene e ci dà forza sufficiente per resistere e sperare.
Ognuno di noi Maria Grazia è una piccola stella di un firmamento straordinariamente complesso che può brillare di una luce propria e costituire una guida nello spazio buio e profondo del nulla  nel quale siamo immersi tutti. Io cerco di fare con i miei alunni oggi ciò che Giacomo ha fatto per me nei lontani anni ’70 ( sono architetto ma insegno nella scuola media ). Cerco di essere un esempio e uno stimolo per pensare e parlo, gioco, disegno, suono, canto, dipingo, rido, piango, mi commuovo, mi arrabbio, strillo, mi prendo in giro e godo dei momenti di sincera comunicazione, quando si realizzano, tra me e questi poveri ragazzi privi di qualsiasi struttura, ignoranti come mai se ne sono visti sul pianeta, insensibili, violenti ma anche ingenui e generosi, pieni di speranze mal riposte, vivo il mio lavoro e la mia vita non pensando più  al mio ruolo professionale ai miei studi ai destini del mondo e dell’architettura ma semplicemente al bene, piccolo piccolo, che posso fare al mio prossimo ( nel mio caso in primis i miei alunni ) con una parola o un’azione che stimoli un cambiamento, uno sviluppo positivo, una speranza. Per questo mi servo di tutte le mie competenze professionali e di tutte le mie risorse creative che nel tempo ho affinato e rafforzato e sarò sempre grato a chi, nel mio percorso formativo mi ha dato generosamente e senza infingimenti una parte di sé e del proprio sapere.
Non mi importa nulla dell’Architettura,  e del fatto che io non posso svolgere il ruolo professionale per cui ho tanto studiato e  speso energie perché, come tutto il resto, sarà macinata da questa terribile macchina mangiatutto che è diventata la politica, la finanza, il mercato globale. Mi interessa solo chi sono e cosa posso fare per trasmettere ad altri quello che ho capito e quello che so fare, grazie anche al mio percorso di studi, che non rinnego e che rifarei pur di rincontrare le stesse persone e le stesse esperienze  che oggi mi consentono di dirti che hai ragione ma che puoi fregartene delle difficoltà e delle frustrazioni perché si può essere estremamente utili al mondo e a se stessi e raggiungere la felicità anche coltivando le olive e producendo olio come solo i grandi architetti sanno fare…
Prova ne sia il fatto che Giacomo, uno dei migliori intellettuali di questo paese, grazie alla sua formazione e alla sua straordinaria creatività, ci delizia certamente con i suoi scritti, i suoi disegni  e le sue interessanti riflessioni  ma anche, e direi soprattutto, con i prodotti  del suo fantastico orto a strapiombo sul mare più bello del mondo…
Resisti Maria Grazia e se un giorno, magari un geometra , ti dovesse chiedere di pulirgli le scarpe oltre che gli occhiali e ti dovesse uscire per l’esasperazione una esclamazione del tipo: “piuttosto vado a zappare la terra!”  Ascolta un vecchio collega…
Vacci.

venerdì 20 luglio 2012

E alla fine ... la fine non arriva


 di Maria Grazia Sabella

Una costante del mio percorso di studi è stata la frase: “un altro po’ e ho finito, un altro piccolo sforzo e ce l’ho fatta, l’ultimo sprint e poi ho chiuso definitivamente e potrò iniziare finalmente a lavorare a 26 anni e guadagnare i primi soldini!”.
Questo l’ho detto per il mio ultimo esame di laboratorio, credendo che si fossero fermati lì i miei sforzi maggiori. Non avevo ancora finito però l’ultimo esame  orale, che è stato estenuante e logorante.
Così l’ho detto una volta finiti tutti gli esami universitari, credendo che la tesi sarebbe stata più semplice da affrontare, in quanto argomento scelto personalmente, e quindi più piacevole.
Non avevo però ancora compreso cosa comportasse  affrontare una tesi universitaria nella mia (e credo in tante altre) facoltà. Per descrivere il percorso di tesi mi vengono in mente gli stessi aggettivi di prima, ovvero “estenuante” e “logorante”, con l’aggiunta di “inutile”.
Così il giorno dopo la mia laurea, con la corona d’alloro poggiata sui due grandi volumi della tesi che ho stampato inutilmente e costate circa 100 euro l’una, e una bruttissima pergamena degna della peggiore università telematica, mi è venuto in mente che non avevo ancora finito. Si avvicinava l’incubo esame di stato.
Essendomi laureata a febbraio ho avuto un po’ di tempo per guardarmi intorno e farmi un’idea dell’ambiente lavorativo, aspettando il mese di luglio per gli esami di stato.
Premessa: vorrei ricordare che, volutamente, ho deciso di tornare nel mio paese lucano una volta terminati i miei studi universitari.
Tramite FORTE raccomandazione sono andata a lavorare in uno studio di ingegneria e architettura, con sede nel mio paese ma con lavori in Campania, Puglia e addirittura Lazio. Pensavo di aver fatto bingo, “finalmente uno studio da cui poter imparare!” pensavo. In realtà dietro il forte nome si celava un ingegnere che procacciava affari e intratteneva pubbliche relazioni con i committenti, e due geometri sotto-sottopagati che facevano il lavoro di ingegneri, architetti, geometri, impiantisti e strutturisti, con risultati banali e poco interessanti.
Dalle 9.00 alle 13.00 circa, avevo un ruolo non ben definito che andava dal ritagliare fogli A4 per farne post-it a progettare l’atrio di un Municipio campano. Cosa peraltro riuscitami abbastanza bene con il beneplacito del committente.
Sempre sotto raccomandazione, nel pomeriggio dalle 15 alle 20.00 circa andavo in un altro studio, dedito alla realizzazione di palazzine residenziali. Qualcosa che non andava dovevo sospettarla, dal momento che, avendo comprato casa da loro, ero rimasta molto delusa da molte cose, ma ho voluto provarci lo stesso.
Sebbene i due ingegneri non ci fossero mai, questa esperienza è stata più gratificante in quanto ho curato l’architettura interna di alcuni appartamenti, ho compilato una SCIA, sono andata sul cantiere, ho conosciuto un geometra competente che mi ha spiegato un sacco di cose, e soprattutto non c’era un ingegnere che mi chiamava “Architè!!” con aria canzonatoria chiedendomi di pulirgli gli occhiali.
Volutamente ho tralasciato l’aspetto economico per un semplice motivo, non ce n’era. Esatto, nessuno mi pagava.
Così dopo tre mesi di lavoro gratis, ho deciso di congedarmi da entrambi con la scusa di dovermi preparare per l’esame di stato.
Altro capitolo.. l’esame di stato!
Non sapevo su cosa esercitarmi, come prepararmi nel modo giusto e in più si aggiungeva una forte insoddisfazione, frustrazione e demoralizzazione in seguito alle esperienze poco sopra descritte.
Avrei preso l’abilitazione alla professione per fare il geometra? Per non essere pagata? Per dover ringraziare qualcuno che mi fa lavorare senza stipendio? Per andare a lavorare dalle 9.00 alle 20.00 dal lunedì al sabato senza avere il tempo di fare una spesa?

Con questo stato d’animo mi metto a studiare per l’esame di stato, che non passo.
Con questo stato d’animo mi metto alla ricerca di un lavoro che possa piacermi, che mi stimoli, che mi giustifichi almeno in apparenza i sei anni di studio che ho appena concluso con la laurea.
Con questo stato d’animo continuo a ripetermi che devo fare un ultimo sforzo, che poi avrò finito, che una volta presa l’abilitazione avrò quel qualcosa in più che mi garantirà un piccolo stipendio per poter pagare il condominio e i croccantini al mio micio senza dover chiedere i soldi alla mia famiglia, che devo stringere i denti e mandare curriculum (e che ci scrivo dentro?!), far conoscere il mio lavoro (quale lavoro?!), e così forse qualcosa all’orizzonte spunterà.
Nel frattempo ho comunque deciso di non accettare lavori non retribuiti. Perché lavorare gratuitamente? Per la gloria? Per l’esperienza? Se dio vorrà dovrò fare esperienza da adesso per i prossimi cinque, dieci anni, e lo dovrei fare forse gratis?

giovedì 5 luglio 2012

Un bel giallo napoletano di Massimo Siviero



di Giacomo Ricci

Caponapoli, come dice il nome, è un luogo di Napoli - della città antica, di origine greca - posto  in alto. Su un promontorio all’interno della cinta muraria che circonda il Centro Antico che s’affaccia, dall’alto delle mura, sul Largo delle Pigne. 
All’epoca di fondazione di Neapolis il largo era un fosso incolto,   paludoso e impervio. Oggi c’è piazza Cavour, affollato luogo storico, circondato da arterie quasi sempre dense di traffico, con un paio di stazioni del metrò. Sulla borbonica via di Foria,  che  attraversa da sopra a sotto la città, lambendo il lato delle mura a nord del Centro Antico, si aprono il Museo Archeologico Nazionale, un certo numero di chiese, una caserma-fortezza, salite che s’inerpicano verso Capodimonte, i borghi dei Vergini e della Sanità,  l’Orto Botanico e, alla fine, il Real Albergo dei Poveri, faraonica opera dovuta all’utopia di Carlo III di Borbone rimasta incompiuta, un re romantico e dal cuore generoso che credeva fosse possibile dare aiuto e soccorso all’umanità derelitta dei suoi tempi. 
Sulla stessa strada s’aprivano almeno un paio di porte d’accesso alla città storica. La porta San Gennaro, oggi soffocata da “nuove” costruzioni  della peggiore speculazione postbellica che abbia caratterizzato la città, avvilenti per il loro aspetto aggressivo e violento, e la non più presente porta di Costantinopoli, proprio di fronte all’Archeologico Nazionale. 
Da Caponapoli,  ai tempi della cultura greca, si vedeva, come dall’alto di un aereo,  la campagna e, lontano, il sito ancora vergine e agreste di Capodimonte. 
La zona oggi ospita un complesso ospedaliero - per l’appunto il Caponapoli cui fa riferimento Siviero -  nel quale confluiscono più strutture storiche. Dallo Spedale degli Incurabili, fondato dalla beata Maria Longo nei primi decenni del Cinquecento,  alle novecentesche cliniche universitarie,  dove ancora alloggia, in  parte,  il vecchio primo policlinico universitario. 
Da questo sito,  ma allargandosi a tutta la città - e anche al suo sottosuolo - prende il suo incipit la storia architettata da Massimo Siviero, giornalista e, per quello che  qui più ci interessa, esperto giallista napoletano. 
Perché la cosa più interessante, a mio modo di vedere,  di questo giallo, avvolto a tratti da un’atmosfera densa e  fosca, anche se quasi sempre dissipata da una sostenuta vena ironico-strafottente tipicamente partenopea, è che  si tratta di un “giallo napoletano”. Cioè si tratta di un genere particolare che solo a Napoli può nascere e prendere vita. Lo si avverte non soltanto nella storia, ma soprattutto nell’ambientazione. La vicenda che narra non si sarebbe potuta svolgere se non per i quartieri tipicamente napoletani della Sanità, Vergini, Centro Antico, Posillipo e, come ho detto,  finanche il suo sottosuolo  più antico che vi ha un ruolo predominante. 
Due i morti, trovati asfissiati con la testa in un sacchetto di plastica. 
Il protagonista Joe Pazienza sembra, per certi suoi comportamenti e dinamicità, strettamente imparentato a un  Lemmy Caution d’annata, interpretato, per chi ne ha ricordo,  dal mitico attore Eddy Constantine, celebre per la sua faccia buttero-schiacciata tipica di chi ha tirato di boxe da giovane ed è cresciuto per borghi di malaffare. E dopo un lungo tirocinio mette a frutto l’esperienza dura maturata,  per un fine nobile, rintracciare esecutori di crimini e complici, con bravura e una discreta dose di cinismo e approfondita conoscenza di bassifondi e gente di malaffare. 
Pazienza mi ricorda Caution per la dinamicità, la sveltezza, l’acume, ma anche per una certa atmosfera blasè che lo caratterizza. Disincantato, ironico, sfottitore, uno che manda il mondo affanculo, come fa spesso. 
Insomma Pazienza è il classico investigatore privato  al quale, da lettore, ti affezioni e ti tira per la storia finché non la finisci. Una costante dei gialli d’azione e di movimento, più quotati a partire, per l’appunto, da quelli che avevano per protagonista Lemmy Caution.
Ma in Pazienza c’è qualcosa in più.  La sua sapienza professionale, per così dire,  discende direttamente dal fatto che è napoletano e che conosce luoghi e storie della città a menadito. 
Perché il racconto, che è ambientato nell’oggi, affonda le sue radici nella storia più antica di Napoli, proprio all’atto della sua fondazione. Non soltanto perché Pazienza-Caution  si trova a transitare per la necropoli dimenticata della Palepoli di Pizzofalcone, tra reperti, anfore, statue e mille altri residui di quella storia antica, ma perché nella vicenda prende corpo, a poco alla volta,  una sorta di improbabile utopia regressiva, nel senso che propone luoghi, organizzazioni, fratellanze, evasioni dal tempo presente che si rifanno proprio all’epoca della fondazione della Neapolis greca. 
Pazienza arriverà, a poco alla volta, alla soluzione del mistero e all’individuazione dell’assassino responsabile almeno di uno dei due  morti che  trova lungo il suo percorso. 
Quello che mi ha colpito sono  “materiali”, per così dire, che Siviero manipola sotto il profilo linguistico-letterario per costruire la sua invenzione narrativa. Materiali che, evidentemente, devono far parte del nostro immaginario collettivo contemporaneo e, in qualche modo, intervenire nei nostri sogni di “liberazione” da una realtà che consideriamo troppo stretta e da un destino tracciato che non piace troppo a noi napoletani. 
Così, assieme ai reperti di epoca greca, troviamo menzionato Ferrante Imperato, speziale attivo a Napoli sul finire del Cinquecento,  e la sua storia di alchimie ed erbe. A Ferrante s’ispira un singolare personaggio, il farmacista Sciortino,  che subissa Pazienza con  i suoi suggerimenti erboristico-arcaici e antiscientifici. Di Ferrante,  Siviero ci racconta del suo monumentale  erbario, sparito non si sa come e perché. 
Di Ferrante, aggiungo io, ricordiamo anche la sua frequentazione con Giovan Battista Della Porta, leonardesco scienziato, alchimista, negromante, uomo di teatro napoletano, inventore della teoria del telescopio prima di Galileo, finito sotto la scure dell’inquisizione per aver fondato l’Accademia dei Segreti, anticipatrice dello spirito empirico dell'Illuminismo settecentesco.
E ricordiamo Tommaso Campanella che,  qui  a Napoli, presso questo cenacolo di intellettuali partenopei, tenne svariate lezioni. E ancora proprio  i medici dello Spedale degli Incurabili,  Iasolino e Severino che, per primi, scavando nel corpo umano, intuirono l’esistenza di una causa oscura delle infezioni - i batteri che sarebbero stati scoperti solo due secoli dopo -   che portavano l’uomo alla morte. E, manco a dirlo, anche Severino finì sotto le grinfie dell’Inquisizione per la sua ricerca scientifica, per la sua ricerca di verità. 
Insomma il giallo di Siviero dischiude la nostra vista sulla storia nobile e intellettuale della città. Una storia che manifesta anche con estrema chiarezza l’aspirazione mancata alla scienza e all’affermazione della libertà del pensiero dell’uomo contro ogni superstizione e angheria dei poteri consolidati, clero bigotto e spagnoli sopraffattori.  
Alla fine ci rendiamo conto che la nostra realtà attuale, storia innegabile di una sconfitta,  ha deviato da un destino che avremmo potuto avere. Un destino di una città che era tra le più belle del mondo e che oggi è ridotta a  recitare un ruolo subalterno e spurio. Luoghi comuni che affossano  la dignità di un popolo che immagina, nel racconto di Siviero,  impossibili evasioni. 
E allora il “giallo napoletano” finisce per portare, ben nascosto tra le righe, un messaggio nobile di raffinata saggezza. Da diffondere e preservare con intelligenza e cura. Quello che al nostro pensiero è riservato ancora un obiettivo da raggiungere per affermare piena consapevolezza individuale e cultura, lontano dagli stereotipi che vogliono la sostanza napoletana ridursi solo all’asfitticità di simboli correnti e stantii come “pizza, mandolino e putipù”, se non solo malaffare e camorra. 
Così Pazienza, nel suo lungo peregrinare labirintico all’interno degli spazi a volte ristrettissimi e claustrofobici, della città che, improvvisamente, s’allargano quasi all’infinito,  procurando un’opposto delirio di agorafobia, s’imbatte alla fine, in una spelonca dei Vergini-Sanità,  in un vero e proprio rituale di fondazione. Lì vede, raggruppata, sotto terra, una folla consistente di persone che credono di poter azzerare la storia, tornare indietro nel tempo e annullare il conto negativo che tutti i napoletani sembrano aver accumulato, in un improbabile sogno di rifondazione di antiche innocenti fratellanze. 
E’ un’illusione, certo. Ce lo dice proprio Pazienza che smaschera il responsabile  dei delitti e della morte di chi lo ha contrastato nei suoi veri piani che sono, manco a dirlo, soltanto speculativi. 
Altro che fratrie, ritorni indietro, innocenti albe di rifondazione urbana e sociale. 
In un contorsionistico capitombolo all’indietro,  tutto torna come prima. La storia e i destini non si cambiano. 
Ma, ripeto, come ha già ampiamente teorizzato e sperimentato in suoi precedenti scritti, la cosa più interessante della  operazione letteraria tentata da Siviero è quella della messa a punto dei caratteri e dello statuto del giallo napoletano, inteso pienamente come genere compiuto, definito,  nel quale la città, la sua storia, i suoi miti, le sue leggende, le fantasie, le visioni e anche le turpitudini, ne sono parte essenziale e di definizione, veri e propri elementi fondativi.
Caponapoli va giù  d’un fiato. Un libro piacevole e impegnato allo stesso tempo:  da leggere.
Lo trovate al link di Amazon:

lunedì 2 luglio 2012

Esiste un giallo napoletano?


 di Giacomo Ricci

Come scrivere un giallo napoletano, è il titolo di un interessante manualetto, scritto da Massimo Siviero nel 2003.
A me interessa parlarne ora per almeno un paio di buoni motivi. Il primo è che Siviero è anche autore, tra le altre cose, di un recentissimo romanzo dal titolo Caponapoli. Intrighi e delitti sotto il Vesuvio (giallo Mondadori n.° 3055, del 2012), giallo che, come recita il sottotitolo, è esplicitamente opera illuminata dal sole napoletano e nascosta dall’ombra del vulcano più temuto degli ultimi anni. Ma la circostanza interessante è che si tratta di libro in formato digitale, un ebook quindi, che ho acquistato da una mezzora circa, da Amazon.
Già tutto quello che finora ho detto rappresenta una specie di rivoluzione direi doppia. Per primo perché si tratta di un genere particolare che potremmo definire, per l’appunto, “giallo napoletano” che viene ufficialmente ospitato in una delle collane più prestigiose di letteratura popolare e di genere, il giallo Mondadori, da cui  ha preso proprio l'appellativo di "giallo".  
Il che rappresenta un vero e proprio avvenimento epocale, di alto significato. E si tratta di definizione importante e intrigante che spiega anche il mio incipit, sul quale tornerò tra poco.
E poi  perché inaugura una procedura che molti come me vanno predicando da tempo: il ricorso al formato digitale, almeno per la letteratura più “svelta” ed estiva per così dire, quella destinata cioè ad accompagnarci dappertutto, in spiaggia, nelle camere d’albergo, al bar, su una panchina di fronte al mare quando si fa sera. Un ricorso all’uso delle nuove tecnologie nella letteratura cosiddetta di “consumo” che, poco da fare, appare immediatamente razionale, efficiente, innovativo.
Non ultime, poi, le agevolazioni economico-funzionali che un tipo di scelta simile comporta: a cominciare dal prezzo, 2,90 euro al posto dei soliti 12-17 euro per un giallo in formato cartaceo. Una differenza nient'affatto di poco conto. 
Taccio di tutto il resto. Cioè del mio lettore Kindle sul quale il libro si è installato in una manciata di secondi, la leggibilità (per me che sono assolutamente cecato) dovuta all’e-ink, alla scalabilità dei caratteri e dei font e, non ultime, le dimensioni fisiche del lettore: 16,5 x 11,5 centimetri, un peso di circa due etti e un quantitativo di libri attualmente immagazzinati pari a 250 (dal Don Chisciotte, la Recerce di Proust, le Memorie di Adriano della Yourcenar, alle Avventure di Sherlock Holmes, se si eccettuano i testi scientifici) con una potenzialità di immagazzinare perlomeno 1500 testi, e un consumo con una batteria che si ricarica ogni 25-30 giorni  con uso intensivo. Lo stesso quantitativo di libri corrisponde a circa un sesto nella mia libreria cartacea  che occupa circa 100 mq di spazio, con librerie, polvere, e tarme da combattere e incubo trasloco – anche solo da stanza a stanza. 
Aggiungo – e qui smetto – che i 1500 libri me li porto appresso e pesano sempre circa due etti e posso  leggerli come voglio e dove voglio, al sole, alla luce di una lampada, proprio come si trattasse di un libro cartaceo e, se sono stanco di leggere,  è lo stesso lettore a leggermeli alla velocità e con la voce che più desidero. Magari quella suadente e calda di una giovane donna. Se non altro rilassante.
E torno all’inizio. Come scrivere un giallo napoletano è testo interessante perché, come il titolo stesso suggerisce, presuppone l’individuazione e  l’esistenza di  una letteratura che possa definirsi, con sufficiente certezza,  “gialla” e “napoletana”.
Alla ricerca efficace e condivisibile di questa definizione è dunque indirizzato il lavoro di Siviero che ne traccia la nascita e le caratteristiche salienti.
“Il giallo napoletano – scrive Siviero – è caratterizzato non soltanto da elementi geografici. Non vanno trascurate le differenze storiche, antropologiche, linguistiche, sociali, psicologiche, topografiche e ambientali”.
Ma si ha di più. Perché un’opera così congegnata, travalicando la cronaca, sempre presente a Napoli in maniera prepotente, sembra funzionare molto bene soprattutto sul piano generale e delle invarianti strutturali della cultura napoletana che riesce a individuare e mettere a fuoco. 
“In una realtà gotica e solare, esoterica e folcloristica, fatalista e razionale, il racconto nel segno del mistero è capace di spiegare”, infatti,  le singolari contraddizioni che da sempre caratterizzano la storia e le vicende locali.
La nascita del giallo napoletano, prosegue Siviero, è da rintracciarsi soprattutto nel vecchio romanzo d’appendice.
E individua il primo autore di un giallo napoletano, fondato cioè sulle caratteristiche specifiche della città di Napoli e le sue origini antropologiche, per così dire. L’autore è, secondo Siviero, Francesco Mastriani, con in suoi La cieca di Sorrento e, soprattutto, Il mio cadavere.
Questa considerazione non è di poco conto, perché permette di stabilire anche, con sufficiente certezza, la data di nascita del giallo all’italiana e, per la precisione, la sua natura napoletana.
“Rimane il dato storico e oggettivo che consente … di definire la primogenitura partenopea sulle origini del thriller in Italia” afferma Siviero.
Cosa, questa,  di non secondaria importanza. Il mio cadavere di Mastriani, è giallo di tipo “psicologico” che presenta non pochi elementi definibili oggi con l’aggettivo horror.
Come bene si comprende questo dato stabilisce un inizio, una vera e propria genealogia per il genere “giallo napoletano”, provvisto di sue specifiche caratteristiche stilistico-strutturali in cui abbondano elementi “grotteschi e barocchi”.
Autori che resero denso di opere e significati questo filone sono Ranieri, il già citato Mastriani, Matilde Serao (magistrale la sua La mano tagliata) e infine lo stesso Salvatore Di Giacomo.
A questi, che possono esser definiti  i padri fondatori, per così dire, si aggiungono, in tempi più recenti, scrittori come Attilio Veraldi, Giuseppe Ferrandino, Salvatore Piscicelli, Peppe Lanzetta, Michele Serio, Luciano Scateni, Antonio Forni, Bruno Coppola, Nicola Quartano, Vincenzo De Falco, Diana Lama, Gaetano Montefusco, Luigi Massa.
Ma si può parlare di uno specifico valore del giallo napoletano? E se sì in che cosa consiste questo valore?
“Il giallo napoletano – scrive Siviero – s’inserisce tra il romanzo sociale, la commedia e il dramma”.
E qui ci vuol poco a leggere  le caratteristiche di fondo della cultura napoletana, letteraria e, soprattutto, teatrale. Viene subito in mente Eduardo e le sue commedie più cupe, come Le voci di dentro, dove il mistero, proprio di natura gialla, viene a configurarsi in una trama  che gira intorno ad un oscuro delitto, sfuggente e inesistente, ma non per questo meno oppressivo e presente nell'animo dei protagonisti della storia che ne sono profondamente turbati anche se del delitto, e soprattutto del presunto morto,  non si riescono a rintracciare le prove. Perchè, poi, come presto si scoprirà, il delitto non c'è stato. Ma tutti credono che sia accaduto veramente. E questo permette ai pensieri più reconditi e nefandi di venire alla luce e ognuno sospetta dell'altro, ognuno è pronto alla dannazione pur di scaricare tutto l'odio represso che prova per il suo simile, per il suo compagno di viaggio in questa vita. Ed è la vita che si scopre nel suo orrore banale di ogni giorno. 
Il mistero si   svela, infatti,  con le orribili fattezze-turpitudini del vivere quotidiano e “normale”, dove il delitto, per quanto immondo, blasfemo e contronatura è sempre presente e praticabile, oltre ogni impedimento etico,  per “aiutare” l’animo dell’uomo qualunque  a sciogliere nodi e contraddizioni che si aggirano negli abissi dell’anima disperata e sola della modernità antica del popolo napoletano.
In ognuno alberga un mostro assetato di sangue, di vendetta e di odio cieco e furiosamente represso. 
Napoli, scrive Siviero, è città di “tufo e di zolfo” e se l’espressione giallo non fosse esistita,  l’avrebbero inventata i napoletani.
E c’è da dire di più. Il giallo napoletano, per tutto quello che s'è detto,   non rappresenta una letteratura d’evasione come si sarebbe portati a credere, ma “d’invasione” delle coscienze. E’ un vero e proprio catalizzatore che sbatte il lettore di fronte alle responsabilità della vita civile e delle sue profonde incongruenze che, in questa metropoli, non tardano ad assumere fattezze metafisiche e da incubo.
“Il thriller calato in una metropoli così densa d’umori, diventa per sua natura un romanzo diverso, ambientato con colore e calore nei meandri della casbah neapolitana. Di questa topografia bisogna saper dare un ritratto originale e veritiero, dal di dentro”.
Interessante e profonda l’operazione critico-ricostruttiva di Siviero, possiamo dire. Perché di un genere identifica la genealogia, l’ambientazione culturale (geo-antropologica) e gli obbiettivi. E che altro ci vuol più per definire non un genere, ma un’area culturale identificata nelle sue possibilità di progetto e nel suo statuto culturale di impegno?
Nel prossimo intervento mi propongo di discutere del giallo Caponapoli.