logo

logo
ebook di ArchigraficA

giovedì 26 settembre 2013

Le bare vuote





di Claudio Cajati



Mio padre era un grande falegname. Stupendo era tutto ciò che costruiva. Ma il suo cavallo di battaglia era la bara. Tanto che ben presto fece fallire tutti gli altri costruttori di bare della città.
Lui avrebbe voluto che da grande facessi anche io il falegname. Ma presi un’altra strada: il caso volle che a soli sette anni assistessi alla deposizione di un morto in una delle nostre bare. Scoprii che non la bara in sé mi affascinava, bensì la coppia morto-bara. E capii subito – ero un ragazzino sveglio – che avrei fatto il becchino. Quella era la mia vocazione.
Così, appena maggiorenne, ho aperto un’agenzia di pompe funebri. Nonostante la viva disapprovazione di mio padre che, forse anche per questo dispiacere, si è ammalato. E ci ha lasciato a soli cinquant’anni.
Voglio spiegare le mie sensazioni quando metto un morto nella bara. Perché non si creda che io sia un inguaribile pervertito, tanto più che lo sarei stato, cosa ancora più grave, sin da ragazzino.
Ebbene, due durezze si confrontano e si integrano: quella del legno stagionato della bara, quella del corpo del morto ormai preda del rigor mortis. Accomodare con garbo e sapienza la salma nella cassa mi fa sentire un bravo cristiano, rispettoso dei trapassati come, o perfino ancor più che dei viventi.
E poi c’è anche una sinergia di odori. Se tutti sanno e accettano la gradevolezza dell’odore del legno stagionato - larice, ciliegio o altri – pochi o nessuno forse vorrà ammettere che una salma ha un suo profumo delicato, che non va camuffato e mortificato con fiori o deodoranti.
Mia madre sta dalla parte di mio padre e, ora che lui ci ha lasciati, lei moltiplica i rimproveri, come se fossero a nome di tutti e due. Non può fare a meno di protestare che fare il falegname invece che il becchino sarebbe stato più dignitoso, che i becchini sono sempre malvisti, e che i falegnami, inoltre, guadagnano anche di più.
Io difendo la mia scelta. Anche se so che le mie parole sono singolari e non troveranno mai la sua approvazione: “Mamma – le dico sfrontatamente – io voglio bene ai morti. Solo loro rispetto sempre e comunque. I morti non pettegolano, non progettano e non realizzano il male, non tradiscono, non deludono. Fra tanto chiasso che fanno i vivi con la bocca, i morti, giudiziosi, tacciono. E il loro silenzio è d’oro.” Mia madre mi guarda storto, nella bocca una smorfia di disgusto. Ma io concludo: “Quella loro faccia immobile, distesa, serena mi dà pace e conforto, non vorrei mai smettere di guardarla. E mi dispiace che a un certo punto, come è purtroppo inevitabile, devo mettere il coperchio e avvitarlo.”
C’è sempre molto lavoro per me, per fortuna.
Quando è arrivata la Crisi, poi, ho incrementato molto il mio business con i suicidi, artigiani falliti, operai licenziati. I vecchi poveri, morti in anticipo.
Per non parlare dell’ultima moda, il femminicidio: anche nella mia città donne fatte fuori da ex fidanzati o ex mariti o semplici conviventi. E mettiamoci pure il contributo di ubriachi e drogati che falciano i pedoni perfino sulle strisce pedonali.
Infine una mano me la danno anche le faide fra famiglie malavitose con i loro sbrigativi ammazzamenti e i tumori dovuti ai rifiuti tossici che hanno sotterrato in discariche abusive.

La Crisi è finita, purtroppo. O almeno molta gente ci crede. Tutti si attaccano alla vita, non si lasciano andare. Se imprenditori, artigiani e operai non vogliono morire più come prima, non li si può certo convincere. Se i maschi cominciano a rinunciare al femminicidio (non va più di moda?); se le famiglie della camorra hanno siglato una lunga tregua; se la medicina e la chirurgia si dilettano ad allungare a dismisura l’esistenza e la malasanità perde colpi, chi ci va per sotto? Io, che faccio il becchino e vivo della morte altrui.
I miei affari insomma da un po’ vanno male. Scendo nel magazzino e guardo tutte quelle bare che mi ero preoccupato di comprare in grande quantità, e che ora mi rimangono sconsolatamente vuote.
L’altro giorno, che non sopportavo più di vederle tutte inutilizzate, e mi sentivo molto stanco, mi sono calato in una. Anche per vedere se era comoda come sostiene quello che me le vende (si chiama Filippo, da un po’ si è messo in proprio, ma la gavetta l’ha fatta nella bottega di mio padre). Devo dire che proprio comoda non era. Ma poi ho riflettuto che per un morto deve essere diverso. I morti non pretendono, non sono schizzinosi.
Intanto ormai io e tutta la mia famiglia ci siamo abituati a un certo tenore di vita: Nunziata, mia moglie, vuole sempre rinnovare il guardaroba, soprattutto con capi dai colori luminosi e allegri per compensare di essere maritata a un becchino; i ragazzi, Gaetano e Annarella, mi credono un padre benestante, pretendono una paghetta consistente e corrono appresso ad ogni novità tecnologica; io stesso, lo confesso, ho i miei vizietti costosucci, non ultima Natascia, giovanissima aiutante ucraina.
Che fare, allora? Dovrei forse suicidarmi? Ma figuriamoci, sono un ottimista, io. Non mi resta che aspettare che riprendano quota le ragioni e le occasioni per uccidere, per suicidarsi, per morire.
Confido soprattutto nei nostri politici, tanto insipienti e inaffidabili da riuscire a vanificare questa timida ripresa e alimentare piuttosto una nuova devastante Crisi, sicura dispensatrice di morti.
E allora ciò che tutti subirebbero come una rinnovata sciagura, io potrei invece salutare come la manna dal cielo: non più tristemente vuote le mie bare, non più pigramente vuote le mie giornate, non più desolatamente vuote le mie tasche.

lunedì 2 settembre 2013

Wikipedia ovvero dei burocrati


Oche, in corso di lavorazione

Spiacevole avventura la mia di quest’oggi.  
Ve la racconto perché dalle disavventure degli altri si può imparare. Soprattutto conoscere gli inganni che ci circondano.
Mi venne in mente, tempo fa,  di mettere il mio profilo su Wikipedia.
«Uha!» direte «E che tieni manie di grandezza?».
No, vi rispondo. Seguo quel principio semplice, che recita che la pubblicità è l’anima del commercio.
Mi spiego. Non voglio creare equivoci.
Io dipingo, disegno e scrivo.
L’ho sempre fatto con un impegno eccessivo. Pensate che l’ultimo mio disegno, quello che ho in cantiere sul tavolo e del quale vi metto lo stato dell’arte sotto, avrà, una volta finito,  circa 280.000 segni elementari. Si avete letto bene: duecentottantamila. Cioè la mia penna si sarà posata sul foglio per duecentottantamila volte.
Il conto è presto fatto, se non ci credete: in un centimetro quadrato ce ne sono circa 40 di segnetti che vanno da un minimo di un tre millimetri a un massimo di cinque di lunghezza  
Non ne siete convinti?  Neanche io l’avrei mai supposto. Ecco il conteggio:

40 x 100 x 70 = 280.000

Ecco perché, poi, alla fine mi vengono i crampi alle mani. Sono certo che mi credete. In più, poiché sono totalmente cecato, ho la necessità di inforcare due paia di occhiali, l’uno sull’altro per avere una visione da vicino come con una vera e propria lente d’ingrandimento. 
«E allora?» direte dopo che si siete ripresi dal peso del numero che vi ho detto.
Allora ho deciso che devo farmi la dovuta pubblicità.
Seguitemi. Vi spiego il perché della mia decisione.
Il mio metodo, lo avete capito, è folle. Mi metto al tavolo da disegno e per tracciare 280.000 segnetti ci posso impiegare un tempo variabile dai 15 giorni al mese. Dipende dalla mia disposizione d’animo ma soprattutto fisica.
Perché un disegno di un metro per settanta, di china, usando un  rapidograph 0.1 (anzi più di uno, perché spesso quello con il quale inizio verso la metà letteralmente si schiatta, si spunta, s’appila, si sbalestra, insomma lo devo buttar via), basato su una prospettiva architettonica e uno studio preliminare  e una serie di schizzetti d’ideazione non è proprio cosa che si può fare a cuor leggero. Richiede fatica mentale e fisica, applicazione, determinazione e costanza e soprattutto pazienza.

Oche, dettaglio del merletto centrale

Io, nevrotico, incazzoso, pazzo furioso (come sono stato con un paio di poveracci,  amministratori di Wikipedia incappato sotto la mia penna infuriata) quando disegno un’opera di questo impegno trovo la mia pace.
Metto le cuffie e Mozart, i concerti per piano e orchestra vanno a palla. E la mia anima rimane sospesa a mezz’aria, come un uccello, come le  oche che disegno, che sono delle vere e proprie macchine per volare.
«Sì, amico mio» starete pensando, «Ma che c’entra Wikipedia con questa tua fatica?».
Su Wikipedia ci sono i premi Nobel, i grandi benefattori. I grandi fenomeni, insomma, mi direte.
Ma ci stanno pure una mappata di grandi cazzimmusi che si fanno pubblicità, vi rispondo io. Non mi fate fare nomi. Ne ho trovati una decina che conosco e che, devo dire, non sono proprio niente di che. Bravi, non c’è dubbio. Ma mica sono premi Nobel, o sanbti o navigatori o poeti. Sono bravi artigiani come me.
Allora, ho pensato, se io appaio su Wikipedia come disegnatore ci sta. Mi conosceranno anche in tanti.
Ci sta per la tecnica che adopero, per la forma dei miei disegni, per l’aria che tengono.
Ma soprattutto perché, in un’epoca di vera merda come quella che stiamo vivendo,  nessuno fa niente per niente. Io invece, che sono un famoso bastian contrario,  faccio tutto per niente.
Non ho mai venduto un disegno, in tutta la mia carriera. No, devo essere preciso,. Un solo acquerello a un’ignota ammiratrice. Chje lasciò l’assegno presso la libreria Clean e non volle che mi venisse svelato il suo nome.
Bello, no?
Ne ho regalati abbastanza. Non moltissimi, per la verità.  Alle persone care. Ho poi venduto dei multipli. Ma in tutto non più di una decina.
Ma quando faccio un disegno così impegnativo, non ho il coraggio di separarmene.
Anche perché ai disegni si legano i pensieri. Non so se a voi succede.
A me sì. A ogni tratto, quando lo rivedo, anche a distanza di anni, si lega un pensiero.
Così  il disegno si trasforma in una mappa dei miei pensieri, una topologia del mio essere interiore. Paure, emozioni, ricordi, sensazioni, incazzature, dolcezze, volti, persone, tutto fluisce nella mia maniera di disegnare. In quell’immensa planimetria  di caratteri elementari che costruiscono, sul foglio, una proiezione dei miei moti interiori.
Ma c’è di più.
Questa è la mia tecnica. Ma è una tecnica limitata, che va a finire.
E già. Non solo perché io finirò. Ma perché, dopo di me,  non ci sarà scuola possibile.
Sono gli strumenti a non esserci più.
Il CAD, la computer grafica stanno distruggendo tutto il mondo passato della rappresentazione tecnica.
E il mio disegno, chiamiamolo così artistico, è una forzatura volontaria e deliberata del disegno tecnico.
Io sono nato come disegnatore tecnico. Disegnatore in studi di architettura. Mi chiamavano la “penna più veloce di Napoli”. Me lo ha confessato su FB un mio caro amico dopo tanti anni. Era voce che girava per gli studi e per la Facoltà.
Rapidograph, graphos, tiralinee, squadre, compassi e balaustrini, cartoncino, fogli bristol, tutto ciò era il mio pane, il mio lavoro.
Poi pensai che ne potevo trarre l’arte.
E con la penna sottilissima ho cominciato a sperimentare. Traccio texture finissime sul foglio bianco che sovrapponendosi l’una all’altra  danno infinite gradazioni di grigio, morbidissime se il tratto è sottile come quello dello 0.1, più audaci e feroci se il tratto diventa più spesso, fino alla violenza dei neri assoluti, passati a pennello o con la penna 1.2, 1.8 o addirittura 2.0.
Bene. Tutto questo apparato tecnico è al tramonto. Definitivo. Inappellabile.
Non si trovano più gli 0.1, non si trova più neanche l’inchiostro di china per rapidograph. Ne ho una collezione di boccette ma sono terrorizzato che finiscano.
Avevo sul mio tavolo una decina di 0.18 comprati da Amodioa Port’Alba, un fondo di magazzino. Se ne sono spezzati sette. Me ne restano tre. Poi dovrò mettermi in giro, per depositi, fondi di magazzini, cercare sul web. Ho visto che Amazon ne vende qualcuno di ricambio.
Forse ancora ce la faccio a disegnare.
Dunque io sono un artista a termine.
Allora avevo pensato che tutto questo mio mondo e anche la qualità dei miei disegni che, bontà vostra, molti di voi apprezzano e me lo comunicano con entusiasmo, fosse degna di Wikipedia. Fosse degna di un’enciclopedia “libera”.
Ma quando mai? Al mio tentativo si è frapposto il burocratese peggiore, un autoritarismo spietato, stalinista. Poco da fare. O fascista se preferite.
Hanno apposto alla mia biografia (scritta da me che candidamente non l’ho mai nascosto) un allert, che avverte della poca “enciclopedicità” della voce. Enciclopedicità dubbia. Questa la sentenza che mi diede poco più di un mese fa un tizio che fa lo sciacquino per Wikipedia.
A parte che la parola enciclopedicità mi suona strana e un po’ falsa e forse forse, è un neologismo di cattivo gusto, ma non c’è stato molto da fare. Nella pagina di discussione ho dato sostegno critico e documentario a ogni affermazione della mia biografia, ho messo i link alle pubblicazioni fatte lungo tutto il corso della mia vita universitaria, e poi i libri, i gialli, il blog di ArchigraficA, le ricerche, i miei interventi continui e soprattutto le mostre e i disegni.
E qui ho subito un vero e proprio affronto.
Io avevo proposto la voce “Giacomo Ricci disegnatore”. Perché sono perseguitato da un mio omonimo, molto più giovane di me, che fa il corridore automobilistico e che si mescola a me in ogni ricerca sul web. Ed è presente, manco a dirlo, su Wikipedia.  
Per tutto quello che vi ho detto finora  ci stava, no?
Bene. Lo sciacquino, d’autorità,  ha cancellato la parola “disegnatore” sostituendola con   “architetto”. Non che mi dispiaccia. Io, alla fine,  architetto sono. Ma, come vi ho detto, nell’affetto, nel cuore, nell’anima sono un disegnatore.  A vita.
E vallo a spiegare al burocrate.
Scrivo, mi dilungo, spiego.
Sapete come si dice a Napoli. Io mi sono sbattuto e prodigato a spiegare.
“Manco po’ cazzo!”.
Parole al vento. Nessuna risposta. Perché loro hanno la filosofia di non risposndere al Trool. Di non trollizzarsi (ma tu vedi che italiano!). Dunque non ti rispondono.
Nessuno mi ha risposto per un mese e più.
Anzi mi danno del vandalo perché inavvertitamente ho cancellato dal sorgente della pagina qualche carattere che non dovevo.
Cerco di parlare con gli amministratori.
Un sistema cavillosissimo quello di Wikipedia. Per ottenere trasparenza assoluta in tutto quello che fanno finiscono per essere totalmente oscuri. Nascosti ferreamente dietro nickname, mail messaggi, simboli, icone. Pagine e pagine di regolamento, norme, regole, divieti, avvertenze FAQ, istruzioni per l’uso. Un vero casino.  
Da far venire il mal di testa.
Sì, avete ragione arrivo alla conclusione.
Oggi, stufato di non aver risposta e di vedere la pagina di “Giacomo Ricci (architetto)”  sempre con quell’imperturbabile allert in apertura, entro, cancello tutto. Cancello la voce per intewro, attento solo a non cancellare i caratteri messi da loro. Ho detto. Voglio vedere se non mi rispondono.
Subito appare il messaggio di un talaltro sciacquino, più indisponente del primo che, in fin dei conti,  è stato assai garbato, che mi dice che la voce non è di mia proprietà e non la posso cambiare. Né tantomeno sopprimerla, camcellarla. E la rimette così tale e quale a prima. Lo stesso allert bene in vista, naturalmente.
Gli faccio notare, allo stupidino, che l’ho scritta io e che solo nei sistemi totalitari non si è padroni di quello che si è scritto.
E faccio un po’ di ironia su olio di ricino, squadrette di punizione e ritorsioni.
Lui s’incazza definitivamente. E,sempre più autoritario e scemo, mi blocca a tempo indeterminato e mi dice che poiché all’atto della sottomissione del testo ho accettato indissolubilmente le regole del gioco (contenute in uno dei cavillosissimi e ineffabili regolamenti a latere) non sono padrone del mio testo e siccome l’ho aggredito di persona (war non so che cosa) mi blocca.
Allora io chiedo a voi. Vi sembra accettabile che un sistema che si sbandiera come democratico e libero non lo sia nei confronti di chi collabora?
Mi devo tenere che lo sciacquino uno mi imponga di fare l’architetto e non il disegnatore?
E’ questa la cultura libera che vogliamo?
Io la mia risposta ce l’ho, chiara. Non so voi. Ma io la grido a piena voce.
Se ne andassero a fare nel culo, loro e la loro enciclopedia.