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ebook di ArchigraficA

giovedì 21 novembre 2013

Giuseppe De Bonito, Carlo III di Borbone


Pensiero diretto a chi confonde l'amore per la patria e la memoria con i localismi. Non ci sarebbe da discutere. Chi fa quest'errore è uno stupido incolto. Solo uno stupido può confondere la ricerca del senso, della memoria, delle radici della nazione napolitana con il localismo. Questo non pregiudica che noi si abbia una visione internazionalista e libera da frontiere. 
Un paradosso? Forse. 
Ma è sui paradossi che nasce il pensiero creativo di noialtri uomini. Perchè la storia è gonfia di paradossi, di apparenti nonsensi. 
Ammettere che l'Italia si sia fatta sul sacrificio violento degli uomini del sud, sul raggiro, sulle ruberie, sulla distruzione della memoria (alla quale ogni popolo ha DIRITTO), sull'emigrazione (esterna e interna), sull'inganno, sul massacro, e che ancora tutto ciò sia in piedi (vedi la terra dei fuochi) NON SIGNIFICA NON VOLER LOTTARE PER UNO STATO UNITO E MODERNO. Non significa che noi si sia neoborbonici senza alcuna riflessione.
Anche se noi meniamo vanto di don Carlos, Borbone, primo re del Regno autonomo del Sud, uomo cauto, aperto e generoso. Il nostro "buon Re". Prova ne siano tutte le architetture che ha promosso per lo splendore della città dei lumi, del suo pensiero e dei suoi intellettuali. Noi, ammettendo le nostre radici, lottiamo per una nazione moderna, l'Italia unita CHE E' LA NOSTRA PATRIA, che vediamo in crisi profonda. Da più parti si dice che lo stato è già fallito, che in capo a dieci anni ci saranno soltanto macerie dello stato unitario. Nel riscoprire il senso della nostra storia, noi gente del sud (e se mi permettete cittadini di Napoli, della sua capitale) lottiamo per uno stato unitario, efficiente, rispettoso dei valori di ognuno, delle differenze, tollerante e aperto, progressista e avanzato, della cultura e della ricerca. Ma non tolleriamo che sulla nostra storia si continuino a dire MENZOGNE e LUOGHI COMUNI. La distruzione della memoria di un popolo è quanto di peggio si possa fare da parte dei vincitori. Ora sarebbe il caso di finirla. Come sarebbe il caso di mettere la parola fine anche alle differenze di valutazione tra nord e sud, e mettere fine alla distruzione sistematica delle nostre terre. E ripartire. Fare un'Italia nuova. Veramente democratica.

giovedì 7 novembre 2013

Una specie di Utopia

Ferdinando IV di Borbone Re delle due Sicilie

di Giacomo Ricci

Voglio raccontarvi in breve la mia utopia. Non credo che sarete d’accordo. Allora mi aspetto il silenzio. Fa nulla. Avrò detto come la penso.
Alla fine credo che noi si sia, niente più e niente meno, che in una fase di completa decadenza di una civiltà. Che potrà durare un tempo abbastanza lungo. La speranza è che, mentre un nuovo ordine si vada maturando, questa “civiltà” del tardo capitaismo globalizzato , nella sua caduta, non travolga tutto mandando a carte quarantotto il pianeta e tutte le sue creature.
Insomma sono molto aderente a quella vecchia idea che una civiltà sia come un essere vivente: nasce, cresce e muore. Questa, a buttare il sangue, ci metterà il tempo che ci vorrà. Ma la cosa che la distingue da quelle precedenti è che ha fatto tutto in fretta, troppo. Ha come una crisi di crescita improvvisa del corpo senza un'adeguata maturazione cerebrale. In questo mio rozzo paragone può essere che, poiché la civiltà del capitalismo è particolarmente stupida, mentre ci mette un po' di tempo a tirare le cuoia, non faccia qualcosa che mandi tutto a quel paese.









 E pare che in questo ci si sia messa con particolare impegno.
        E allora ti saluto pianeta Terra con tutti gli annessi e connessi.
Io credo abbastanza alla forza delle Utopie che sono una specie di guida, un manuale su che fare, come fare e dove dirigersi. Senza che l'utopia si realizzi ma si limiti solo a indicare la strada.
L'utopia che mi gira in testa da un po' di tempo è che il Sud d'Italia si separi dal nord (volutamente con la lettera minuscola), verso il Garigliano, più o meno. Che costituisca un regno del Sud come nella migliore tradizione borbonica. Che il re sia un socialista convinto e che la società produttiva sia organizzata sull'agricoltura, che tutti siano vegetariani (con buona pace di maiali, galline, buoi mucche e affini), che mangino poco (magari una dieta vegana), che si dedichino quello che basta al lavoro (agricoltura, artigianato colto - che è poi quello che salva l'Italia - cultura e educazione, turismo, progettazione, ricerca scientifica) e che, soprattutto, si organizzino in comuni (non istituzioni comunali) ma proprio come la Comune di Parigi e che non ci sia troppa competizione e sia abolito TOTALMENTE il consumismo, TV, pubblicità e tutta la merda simile. Magari rivitalizzando tutti quei piccoli paesi abbandonati per l'emigrazione e ci si organizzi  sul  modello di San Leucio di ferdinandea memoria.
Io credo a quello che disse Goethe, che un poco schizzinoso e scassacazzo era,  e cioè che se Ferdinando IV di Borbone fosse stato un po' più colto sarebbe certamente stato il più grande sovrano dell'Europa.










In fin dei conti mi starebbe bene pagare una corte con il  nostro lavoro collettivo. Mi starebbe bene anche che si autoglorificassero. Ma poi il nostro parlamento non è molto peggio di una corte assolutista? Democrazia? Ma suvvia, mi facciano il piacere, non ci facciano ridere.
Ma la corte che io invoco nella mia utopia dev’essere proprio organizzata come faceva Ferdinando, strafottendosene dell'etichetta, delle convenzioni, dello sfarzo, uno scugnizzo anarchico e ribelle. Un re socialistoide-anarchico. E poi una grande messe di uomini d'intelletto alla maniera dell'abate Ferdinando Galiani e di Genovesi. Un’università degna di questo nome, non quella sottospecie di barzelletta di personaggi più o meno colti (molto meno che più), più o meno preparati (molto meno che più),  che si danno da fare (in tanti, tantissimi) per creare spazio e carriere solo per familiari e compari e non pensano di avere nelle mani una grandissima responsabilità, quella della formazione della coscienza critica, culturale della gioventù: come dire la coscienza del futuro e del possibile sviluppo di una nazione. Già, la nazione. E chi se ne fotte più? Tutti presi e concentrati a pensare ai cazzarielli propri. E che se ne catafottono del futuro, delle generazioni che verranno, dello sviluppo culturale armonioso della società del futuro? 
E poi  soprattutto spazio al teatro, altro che TV, più o meno pubblica!  Un San Carlo in ogni grande città per suonare musica di tutti i generi da Mozart ai Beatles. Ecco quello che ci vuole. 
Musiche di Paisiello, Mozart, Bach, Rolling Stones.
Ma credo che non lo vedrò mai.
Però non posso fare a meno di sperare che l’umanità rinsavisca e si chieda: "Ma a me chi cazzo mo fa' fa' di lavorare tanto, di avere tanti beni che non mi porto appresso quando muoio?".
Una canzone, la pizza e il putipù come i meglio lazzari del regno di Ferdinando, 'o Re Nasone.
E una chitarrella per accompagnarsi mentre si canta a squarciagola lungo il mare.

Affanculo al capitale e chi ancora ci crede nel suo mondo di morte e di miseria.
E, a proposito di musica e godimento, guardatevi, se ne avete il tempo, questa splendida interpretazione del'11° movimento Et incarnatus est della "Grande Messa in Do minore" di Wolfgang Amadeus Mozart. L'ho rintracciata su Youtube. Ne vale la pena:


sabato 2 novembre 2013

Io sono un macho


di Claudio Cajati 
In questo mondo di donne che ci hanno perfino superato di numero. Di donne che pretendono la parità. Di donne in carriera. Di donne che ci comandano addirittura. Di donne che non rinunciano alle loro diaboliche arti erotiche per soggiogarci. Di donne che umiliano la nostra natura incoraggiando in noi dolcezza e affettuosità. Di donne che vanno loro al lavoro e ci lasciano a badare alla casa. Di donne che si arrogano il diritto di darci il voto per le nostre prestazioni a letto. Di donne che giocano a fare le bulle per imitarci e scimmiottano le ruvidezze mascoline. Di donne in comitiva che sghignazzano compiaciute alle nostre spalle. Infine, di donne che si sdegnano e si mobilitano per qualche pover’uomo che perde le staffe e le fa fuori (femminicidio l’hanno chiamato, che parolaccia!).
Ebbene in questo mondo mi vanto di essere un macho: uno che a queste donne vuole togliere il riso e pure il sorriso. Farle piangere un po’, piuttosto.
Ma quello che mi disturba perfino di più è questa succube benevolenza e smaccata tolleranza verso i gay. Viene criminalizzata l’omofobia, ma l’omofobia praticamente l’ho inventata io, sbugiardando, terrorizzando, picchiando decine di froci, in tempi non sospetti. Per ristabilire il primato della virilità.
A queste miserie io oppongo la mia persona. Sono muscoloso e alto, imponente; lo sguardo maliziosamente torvo, la mascella volitiva e squadrata, e un sorriso ambiguo che intriga.
Vado in palestra ogni giorno, perfino la domenica, con la stessa fedeltà di un praticante. Vedere i muscoli crescere, gonfiarsi, è come vedere crescere la mia personalità. E poi, dopo molti giorni di perplessità di fronte agli annunci che promettevano di farlo allungare, di almeno 3 cm, ho ceduto alla tentazione: non c’era inganno! Ora ce l’ho veramente lungo, in sintonia con il resto del gran corpo. Un serpentone affamato, capace di fare la sua bella figura.
Tutto questo ben di dio deve essere presentato come si deve. Ecco allora maglie e camicie aderenti da dentro le quali i muscoli sembrano ansiosi di esplodere; ecco pantaloni capaci all’inguine di disegnare il paccotto prepotente che smania di uscire allo scoperto per dare tutto il suo strepitoso piacere.
E all’appuntamento non ci si può certo presentare con una striminzita scalcagnata berlina: ci vuole un macchinone, del tipo Studebaker per esempio, cabriolet, con le cromature lucidissime, che ci si specchi dentro, come lucidissimi sono i miei bicipiti accuratamente rivestiti di olio di cocco. Mentre sfodero il sorriso più maliardo e spavaldo che ho, faccio rombare a lungo il motore ed è qualcosa come la versione meccanica del mio ruggito leonino.
Le donne non sono mica tutte uguali, ovviamente.
Ci sono quelle che con le loro incontenibili chiacchiere pretendono di tenere testa alla mia superiorità fisica: a queste, con le mie manone robuste, gli tappo la bocca, mi piace sentirle frignare indispettite, e, siccome insistono a divincolarsi, gli faccio assaggiare l’uccellone e così, quasi tutte, si calmano.
Ci sono invece quelle a cui piace subito arrendersi e consegnarsi inermi fra le mi braccia, e non solo le mie braccia. Queste vogliono essere dominate come schiave stupide perché così, incredibilmente, si sentono protette. Alla fine le coccolo e le faccio tornare bambine. Ed ecco che però, come quelle altre, prendono a parlare, parlare, parlare.
Ci sono poi quelle insidiose, in forte aumento: quelle che si mostrano disponibili, ma solo per tirarti dentro situazioni imbarazzanti in cui faranno di tutto per dimostrarsi superiori, ribadire la prevalenza della femmina sul maschio. Alle trappole di queste mi oppongo con un tenace mutismo, come se non fossi in grado di capire.
 Questo è quello che posso fare io. Ma sono solo. O quasi solo: ho difficoltà a trovare seguaci. La situazione nella società si è fatta grave. E a tutti questi flop di uomini imbelli e depressi, a tutti questi ostentati successi di donne rampanti, bisognerebbe opporre un esercito di machi, chiamato a rispondere per le rime, a ribaltare l’andazzo.
E finisce poi che rimani vittima di equivoci fatali. Io su quella ragazza carina dai capelli biondi volevo solo fare colpo, niente di più. Mi è venuto di dirle: “Lo sai che ce l’ho lungo 20 centimetri?” Lei mi ha guardata come a dire: “Che esagerazione! Non ci credo…” Al che io in un istante l’ho tirato fuori e gliel’ho poggiato in mano. E quella subito ha cominciato a gridare come una pazza, gridare tanto e tanto a lungo che qualcuno ha pensato bene di chiamare la polizia. E mi sono visto accusato di atti osceni e tentato stupro. Insomma, per una sciocchezzuola del genere, sono finito dentro.

Ma anche qui in galera se ne accorgeranno, sì che se ne accorgeranno: io sono un macho. Dappertutto!

Ciononostante



 di Claudio Cajati


La mia vita? Bersagliata sin dall’infanzia.
Quando sono nato ero così brutto, a unanime parere dei miei genitori, di parenti e amici, che subito fu deciso di stendere un velo di organza nera sulla culla. E la cosa, per quanto terribile, fu accettata da tutti.
Quando venne il periodo di giocare al ‘dottore’ con le bambine, solo apparentemente pudiche, in effetti sfacciate e disinvolte, loro accettavano di farlo con tutti i ragazzini del rione, tranne che con me. E se mi azzardavo a chiedere il perché, mi lanciavano senza parole uno sguardo di disgusto e commiserazione.
Alla scuola media ero di gran lunga il primo della classe. Questo scatenava la rabbiosa invidia dei compagni mediocri, che non erano pochi: prima mi prendevano in giro per la mia bruttezza, poi mi minacciavano, infine, all’uscita dalla scuola, mi tendevano in gruppo agguati e arrivavano a pestarmi a sangue.
Al liceo m’innamorai di Eloisa, una ragazza bellissima, che mi sembrava anche dolce e comprensiva. Dopo una penosa lunghissima titubanza, mi decisi a rivelarle il mio sentimento. Lei non perse un istante per rispondere: mi guardò stupita, poi sprezzante, e mi disse soltanto, con la sua voce acuta e penetrante: “E tu, brutto anatroccolo, pretenderesti di fidanzarti con una come me?”
Venne l’età in cui sentii il desiderio di accasarmi. Ma tutte le ragazze mi respingevano. Credo fosse sempre per la mia bruttezza, e nonostante facessi di tutto per mostrare quanto ero brillante e arguto, quanto potevo risultare simpatico, quanto ero buono affidabile leale. Infine la spuntai: accettò di fidanzarsi con me Genoveffa, una brava ragazza offesa a una gamba a causa della poliomielite.
All’Università mi laureai in Scienze dell’alimentazione. Avrei voluto fare la carriera accademica, ne avevo il talento, la passione e i titoli. Ma a tutti i concorsi, per quanto originali e dotte fossero le mie prove, regolarmente mi bocciavano. E lo facevano con una sorta di profondo fastidio e sordo disprezzo. Presto mi fecero capire che era meglio se rinunciavo. Quasi una benevola minaccia.
Ero spesso in giro alla ricerca di un lavoro. Un giorno, tornando a casa, trovai mia moglie (Genoveffa l’avevo sposata) a letto con un altro. Ero rabbioso ma non gli feci niente. Anzi fu lui, altissimo e robusto anche se zoppo, a picchiare me. Quando volli chiarirmi a quattr’occhi con Genoveffa, lei mi sparò in faccia: “Io ti ho sposato per compassione, io non ti ho mai amato.” Qualche giorno dopo scappò di casa con quell’energumeno. Io rimasi a fare da padre e madre a nostro figlio Romano.
Svanita la prospettiva della carriera accademica, avevo ripiegato sul commercio, però legato alla mia formazione universitaria. Insieme a un mio amico e collega di studi aprii un minimarket di prodotti bio. Le vendite andavano a gonfie vele. Ma, nonostante il prezzo elevato dei prodotti, la cassa languiva. Ci misi un po’ di tempo però, alla fine dell’investigazione, scoprii che la cassiera rubava, e lo faceva in combutta con il mio socio. Resistetti il più a lungo possibile, ma alla fine fui costretto a chiudere.
Dopo la chiusura del minimarket bio, mi sono arrangiato con vari lavori legati al mondo dell’alimentazione. Ho provato a fare il nutrizionista, ma dopo qualche tempo la clientela si è assottigliata fin quasi a sparire: la gente ormai usa disinvoltamente il computer, anche per cose delicate come l’alimentazione. Io sono un esperto, affidabile, ma sono una figura patetica del passato. Insomma mi sono ridotto economicamente proprio male. Così, per quanto fosse umiliante, ho chiesto aiuto a mio figlio Romano. Lui è benestante, fa il professore ordinario alla Facoltà di Ingegneria. Ebbene si è rifiutato di aiutarmi – mi ha appena invitato qualche volta a pranzo la domenica – accampando la scusa delle sue spaventose spese familiari, la casa, la moglie, i figli…
Non fumo più da decenni, e da allora sono stato anche molto attento a evitare il fumo passivo. Eppure l’altro giorno da un check up di routine è risultato che ho un tumore ai polmoni. Si è fatta la biopsia: il tumore è maligno e, per di più, in uno stadio avanzato. Cedendo alla mia insistenza per sapere, mi hanno diagnosticato dai due ai tre mesi di vita, al massimo.
Ciononostante…
Ciononostante, in tutta la mia vita, il male che non mi ha risparmiato nell‘abbattersi su di me, è andato a vuoto. Come protetto da una cera magica su cui ogni offesa della vita scivolava via. Poteva sembrare che nessuno mi volesse bene, ma io ho avuto un’amica fedele, un’amica che non mi ha mai tradito e abbandonato: la Gioia. Quelli che conoscono cosa è stata la mia vita, non si capacitano che io possa essere sereno e positivo. Ma cosa m’importa? So io questa forza calda e tenace che mi pervade e mi avvolge a dispetto dei colpi che vengono dall’esterno, destinati a essere parati e respinti. Tutto il male che ho ricevuto, sin dalla nascita, non mi ha potuto scalfire: come non si può scalfire un diamante con pietre meno dure.

Io resto splendidamente intatto, stretto abbracciato all’amica Gioia. E così accoglierò, trionfante a braccia aperte, anche la morte.

martedì 15 ottobre 2013

Fine del mondo e dintorni





di Giacomo Ricci


Immaginate che, dalla sera alla mattina, non si sa perché, si esauriscano tutti i combustibili della terra. Petrolio, gas, carbone, tutto finito. Che succederebbe?
Mauro Corona lo racconta ne La fine del mondo storto,  un suo breve racconto-favola allucinato al punto giusto, dal tono profetico  del 2010.
La sua è, a parere mio, una bella intuizione narrativa.
La fine dei combustibili dalla sera alla mattina, porta il mondo moderno al disastro e alla morte, com’è facile immaginarsi.
Tutto accade d’inverno.
Freddo, mancanza di cibo, vanificazione e cessazione forzata di qualsiasi sistema produttivo e di ogni attività, sovrabbondanza di cose inutili, terra inquinata, portano, in poche ore, alla fine del mondo moderno, dei suoi sistemi di governo, allo sterminio della popolazione su scala mondiale e a un drastico, radicale, inusitato ridimensionamento dei sistemi di vita che ritornano indietro, a tempi primitivi antichi e feroci.
L’uomo si trova di fronte alla terra e non sa come fare per sopravvivere.
Nel frattempo, diventate inutili le ricchezze e il potere, tutti si ritrovano uguali di fronte alla morte e alla perdita di qualsiasi difesa.
Il freddo è intenso e assoluto, devastante. Le case non servono più a proteggere. Non c’è luce, non c’è energia. Un modo gelido, brutale, oscuro, notturno, abissale, da incubo.
Si brucia tutto per superare il freddo, prima la legna, poi le porte, gli infissi, l’arredo, i quadri fino alla roba nei musei, Caravaggio, Michelangelo, Raffaello, tutto da ardere per non morire.
E chi se ne fotte dell’arte, chi la capisce di fronte alla morte? Spazzatura, plastiche, opere artistiche, statue di santi, croci, libri, intere biblioteche, tutto a rogo. Non c’è alternativa alla morte per gelo.
Una speranza sono i vecchi montanari, isolati sulle vette che non hanno dimenticato come si fa a sopravvivere con niente, sfruttando quello che dà la natura.
Gli uomini hanno dimenticato tutto e devono imparare.
Si scoprono le vecchie tecniche di sopravvivenza. Si è tutti uguali davanti alla morte e ai morsi del gelo.
Si supera l’inverno, lentissimamente, mangiando  tutto il commestibile, topi, insetti, scarafaggi e, alla fine,  anche i cadaveri.
Una sorta di anarchia forzata governa gli uomini. Non ci sono capi. Tutti collaborano tra loro non per il piacere di farlo ma perché altrimenti è morte certa.
E ci si avvia lentissimamente verso la primavera, la semina, il sole, il tepore.
Con l’estate, con il raccolto, torna negli uomini qualche sicurezza. La speranza compare di nuovo.
Ed ecco, allontanata la disperazione, ben presto tornano anche gli antichi vizi, l’accaparramento, la sete di potere e il dominio dell’uomo sull’uomo. E la storia si ripete uguale a se stessa.
«A questo punto è inulte tirarla lunga» conclude Corona «E’ già chiaro quel che succederà. Un po’ alla volta, tutto tornerà come prima, prima della morte bianca e nera. E sarà il principio di un’altra fine. Finché l’uomo non sparirà dal pianeta, farà di tutto, e ce la metterà tutta, per farsi male e per star male. Poi si estinguerà. Ma sarà colpa sua. L’uomo è l’unico essere vivente ad auto estinguersi per imbecillità».
C’è da credere che le cose si svolgerebbero, nell’ipotesi di un improvviso esaurimento di tutto il  combustibile del mondo, proprio come dice Corona. E credo che abbia anche ragione quando afferma che, con il risorgere della sicurezza, tornerebbero i conflitti e il “piacere” perverso dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del dominio, dell’umiliazione dell’altro.
Per chi crede in Dio, quale che sia,  il Dio dei cristiani, dei buddisti o dei maomettani,  questo mondo così fatto è senza dubbio un’assurdità logica. Come può Dio, nella sua perfezione, aver generato un simile pasticcio, una tale bruttura? Che gli passava per testa quando creò Adamo? Lui perfetto ha generato questo imbecille, spoglio, nudo di fronte alla terra, così arrogante e idiota? Un coglione, dice Corona. Un perfetto imbecille, arrogante proprio perché tale.
Tanto imbecille che pure Dio, nella sua infinita pazienza, perde le staffe.
Riporto il brano perché è singolare:

“Colpa vostra” risponde Dio nelle coscienze dei rimasti vivi. “Vi avevo dato tutto, terra, acqua, foreste, animali, pesci, aria buona. Ma volevate di più. Ogni giorno di più. Avete distrutto ogni metro di terra, rovinato la natura, avvelenato l’aria, inquinato l’acqua, impestato il mondo di oggetti inutili quando a vivere bastava così poco. E vi sarebbe avanzato tempo per godervi l’esistenza che è assai breve. Vi ho dato vita corta apposta. Avevo capito che sareste diventati coglioni. Del resto, cominciarono Adamo ed Eva a essere coglioni, e voi siete di quella pasta. Concedendovi esistenza breve, speravo che la usaste al meglio, proprio perché corta e tribolata. Invece niente. Avete fatto di tutto per farvi male e rovinare quel po’ che vi ho dato. Averlo saputo, era meglio lasciare la Terra senza di voi, solo con animali, pesci e uccelli. E mari, boschi e pianure. Mi avete fatto pentire di avervi creato, ma siccome tutto torna adesso pagate dazio. Siete stati spavaldi e arroganti. I due vizi peggiori che si possano mettere insieme. Poveri diavoli, mi fate pena. Ora vado via per non vedervi, mi date fastidio. Se penso che la gran parte dei signori che hanno distrutto il mondo erano quelli che venivano a messa ogni domenica e a ricevere la comunione, mi vien da prenderli a calci in culo. Ma non posso, ormai sono morti, estinti, finiti all’inferno. Ne resta però qualcuno a pagare il fio e a capire quanto sono stati imbecilli. Quando creperanno, all’inferno anche loro.”

E’ un Padreterno umano e incazzato.  E non gli possiamo dare torto.
Ma ora, la domanda stupida che mi pongo e che vi pongo: “Ma perché l’uomo è così cretino? Avvelena la terra  e non pensa ai propri figli. Pensate alla Terra dei Fuochi, al disastro campano, Altro che Campania felix! Una vista così corta, così miope, per il guadagno immediato? E i sistemi di produzione? Fatti a breve respiro, senza pensare a quello che sarà. Un mercato che si satura – e ben presto lo fa – significa che tutta la produzione messa in piedi se ne va a farsi fottere.  E il consumismo come sistema per dare vita alla produzione, al lavoro e alla gente che di questo vive? Una spirale idiota e miope. E gli ipermercati? E il cibo infetto da additivi chimici e schifezze inenarrabili?
E poi tutta la questione della crisi? Ci dicono balle, una dietro l'altra per confonderci le idee. 
Ma la storia è chiara. 
Tutto è cominciato dalla bolla immobiliare negli States e poi da noi. Case che hanno sempre più aumentato il loro valore e prestito a gogò a tutti. Così i derivati davano false visioni d’interesse.
Ma quando i debitori non  pagano più tutto crolla. Il fallimento della Lehman brothers; è da qui, tutto il disastro nel quale ci troviamo. E le case, che dovrebbero scendere di costo, fuori dalla bolla immobiliare, ma non possono perché il patrimonio nominale delle banche è costituito dal valore delle case che sequestrerebbero in caso di non pagamento e se succedesse questo tutto se ne andrebbe a carte quarantotto. Il fallimento a catena di tutti gli istituti di credito. E dunque del mondo finaziario e di quello reale. La fame per tutti. Pur essendo la produzione possibile e valida, tutto vanificato dalla finanza e dalle sue astruse e truffaldine complicazioni.
Un assurdo di idiozia bella e buona. Un abisso di rozza stupidità. 
Ed è questo che governa il  mondo. 
Una storia complicata ma semplicissima che se salta finisce per avere, sul mondo contemporaneo, lo stesso effetto dell’esaurimento dei combustibili dalla sera alla mattina di cui parla Corona.
Ma siamo così coglioni da aver creato questo sistema assurdo, inconcepibile, stupido e imbecille che ci seppellirà?
Che assurdità, che stupidaggine.
Come fai a non dare ragione al Dio di Corona che se ne va incazzato per non vedere, che ne ha le palle piene?
«Andate a farvi fottere» ci dice e volta le spalle. 
Avevo creduto di trovar un rimedio al debito, con lavoro in più gratuito da parte di tutti. Lo stanno cominciando a fare ma senza la trovata che era quella di costruire una banca delle ore di lavoro, come promessa di pagherò, e dunque valore, meglio dei derivati delle banche. Più solida, più sicura. Come dire, io pagherò il debito pubblico non con denaro o interessi ma con ore lavoro che ho disponibili da qui a vent’anni. E si sarebbe fuori dal casino, in una strada di soluzione. 
Mi diedero del cretino. Poi, proprio ieri a Report,  scopro che il sistema c’è ed è quello che in tempi non sospetti ha portato la Germania fuori dalle peste. Impegno dei lavoratori a lavorare in più gratis. In particolare nella Wolkwagen per evitare licenziamenti in massa. Tutti  a lavorare di più per la salvezza di tutti. E ci vuole tanto a capirlo?
Siamo ancora in tempo. Altro che tasse in più. Maggiore poduzione di un terzo. Tutti allo stesso costo di prima. E vedi come sei fuori in qualche anno. 
Allora con ore si superproduzione extra, di tutta la popolazione ci incammineremmo verso una possibile soluzione. C'è qualche economista  disposto a fare il calcolo di quanto ci vorrebbe per portare il nostro debito pubblico alla soglia del 60% come obbligo? Qualcuno lo sa fare? Usciremmo dal debito? Forse sì. Allora perché non lo si fa?
Perchè ci beviamo le favole sull'abolizione dell'IMU che poi rientra come tares? 
Ma, come dice Corona – in particolare in Italia – siamo particolarmente stupidi, dei coglioni come dice il Padreterno inacazzato.
In particolare i politici. E non aggiungo altro.
Imbecilli insopportabili.
E allora, in mancanza di strade alternative e di intelligenza aspettiamo anche noi la nostra morte bianca e nera, l’invenro che ci metterà in ginocchio.
E chissà se mai ne usciremo fuori.
E sempre per parlare di idee,  bella questa venuta ad Agostino Bossi che me l’ha comunicata ieri a proposito dei migranti. Che ci vorrebbe, invece di metterli in quei lager che chiamiamo centri di accoglienza, ad affidare  loro l’intera dorsale appenninica in quota (a partire dai 600-700 metri) con tutti i paesini abbandonati e il corredo di terre, per fare sfruttare loro, che hanno più sapienza di noi per venire da condizioni di non opulenza,  come facevano i nostri nonni, quei sistemi di produzione e vita che noi, inetti e supertecnologici, abbiamo completamente dimenticato, non non sappiamo più fare? 
Proprio  come racconta Corona della terra e del ritorno forzato alle sue colture. Faremmo due cose buone: daremmo una mano a dei nostri fratelli sfortunati (perché, alla faccia di chi dice di no, Lega Nord in testa e quel grandissimo stronzo di suo esponente chiatto, obeso con gli occhiali, con la sua cravatta verde e la sua volgarissima, stupida arroganza, che non nomino ma che voi individuate bene)  offrendo loro case, sistemi edilizie  e terre. Ma soprattutto sottrarremmo all’abbandono una parte notevole del nostro territorio, destinata al totale sfacelo. E magari queste risorse si rivolgerebbero subito anche a favore della nostra collettività.
Il ritorno alla terra è una delle soluzioni ai malesseri produttivi dell'Italia. 
Non un ritorno indietro acritico e ciabbattone, ma un ritorno colto, raffinato, attento, avvertito, preparato, intelligente. 
Geniale quest’idea di Agostino. Da condividere subito.
Le soluzioni ci sono ma, come dice il Dio di Corona, noi siamo prima di tutto coglioni e poi il resto.
Ed è allora certo che, come nella Fine del mondo storto, non appena fuori dalla crisi  ci ricadremmo subito.
A padreterno mio che hai fatto! Quando hai creato l’uomo e in particolare l’italiano.  Quel giorno quando ti sei messo al lavoro  non ti dovevi sentire molto bene. E la cosa è andata storta.
Amen.