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ebook di ArchigraficA

giovedì 5 luglio 2012

Un bel giallo napoletano di Massimo Siviero



di Giacomo Ricci

Caponapoli, come dice il nome, è un luogo di Napoli - della città antica, di origine greca - posto  in alto. Su un promontorio all’interno della cinta muraria che circonda il Centro Antico che s’affaccia, dall’alto delle mura, sul Largo delle Pigne. 
All’epoca di fondazione di Neapolis il largo era un fosso incolto,   paludoso e impervio. Oggi c’è piazza Cavour, affollato luogo storico, circondato da arterie quasi sempre dense di traffico, con un paio di stazioni del metrò. Sulla borbonica via di Foria,  che  attraversa da sopra a sotto la città, lambendo il lato delle mura a nord del Centro Antico, si aprono il Museo Archeologico Nazionale, un certo numero di chiese, una caserma-fortezza, salite che s’inerpicano verso Capodimonte, i borghi dei Vergini e della Sanità,  l’Orto Botanico e, alla fine, il Real Albergo dei Poveri, faraonica opera dovuta all’utopia di Carlo III di Borbone rimasta incompiuta, un re romantico e dal cuore generoso che credeva fosse possibile dare aiuto e soccorso all’umanità derelitta dei suoi tempi. 
Sulla stessa strada s’aprivano almeno un paio di porte d’accesso alla città storica. La porta San Gennaro, oggi soffocata da “nuove” costruzioni  della peggiore speculazione postbellica che abbia caratterizzato la città, avvilenti per il loro aspetto aggressivo e violento, e la non più presente porta di Costantinopoli, proprio di fronte all’Archeologico Nazionale. 
Da Caponapoli,  ai tempi della cultura greca, si vedeva, come dall’alto di un aereo,  la campagna e, lontano, il sito ancora vergine e agreste di Capodimonte. 
La zona oggi ospita un complesso ospedaliero - per l’appunto il Caponapoli cui fa riferimento Siviero -  nel quale confluiscono più strutture storiche. Dallo Spedale degli Incurabili, fondato dalla beata Maria Longo nei primi decenni del Cinquecento,  alle novecentesche cliniche universitarie,  dove ancora alloggia, in  parte,  il vecchio primo policlinico universitario. 
Da questo sito,  ma allargandosi a tutta la città - e anche al suo sottosuolo - prende il suo incipit la storia architettata da Massimo Siviero, giornalista e, per quello che  qui più ci interessa, esperto giallista napoletano. 
Perché la cosa più interessante, a mio modo di vedere,  di questo giallo, avvolto a tratti da un’atmosfera densa e  fosca, anche se quasi sempre dissipata da una sostenuta vena ironico-strafottente tipicamente partenopea, è che  si tratta di un “giallo napoletano”. Cioè si tratta di un genere particolare che solo a Napoli può nascere e prendere vita. Lo si avverte non soltanto nella storia, ma soprattutto nell’ambientazione. La vicenda che narra non si sarebbe potuta svolgere se non per i quartieri tipicamente napoletani della Sanità, Vergini, Centro Antico, Posillipo e, come ho detto,  finanche il suo sottosuolo  più antico che vi ha un ruolo predominante. 
Due i morti, trovati asfissiati con la testa in un sacchetto di plastica. 
Il protagonista Joe Pazienza sembra, per certi suoi comportamenti e dinamicità, strettamente imparentato a un  Lemmy Caution d’annata, interpretato, per chi ne ha ricordo,  dal mitico attore Eddy Constantine, celebre per la sua faccia buttero-schiacciata tipica di chi ha tirato di boxe da giovane ed è cresciuto per borghi di malaffare. E dopo un lungo tirocinio mette a frutto l’esperienza dura maturata,  per un fine nobile, rintracciare esecutori di crimini e complici, con bravura e una discreta dose di cinismo e approfondita conoscenza di bassifondi e gente di malaffare. 
Pazienza mi ricorda Caution per la dinamicità, la sveltezza, l’acume, ma anche per una certa atmosfera blasè che lo caratterizza. Disincantato, ironico, sfottitore, uno che manda il mondo affanculo, come fa spesso. 
Insomma Pazienza è il classico investigatore privato  al quale, da lettore, ti affezioni e ti tira per la storia finché non la finisci. Una costante dei gialli d’azione e di movimento, più quotati a partire, per l’appunto, da quelli che avevano per protagonista Lemmy Caution.
Ma in Pazienza c’è qualcosa in più.  La sua sapienza professionale, per così dire,  discende direttamente dal fatto che è napoletano e che conosce luoghi e storie della città a menadito. 
Perché il racconto, che è ambientato nell’oggi, affonda le sue radici nella storia più antica di Napoli, proprio all’atto della sua fondazione. Non soltanto perché Pazienza-Caution  si trova a transitare per la necropoli dimenticata della Palepoli di Pizzofalcone, tra reperti, anfore, statue e mille altri residui di quella storia antica, ma perché nella vicenda prende corpo, a poco alla volta,  una sorta di improbabile utopia regressiva, nel senso che propone luoghi, organizzazioni, fratellanze, evasioni dal tempo presente che si rifanno proprio all’epoca della fondazione della Neapolis greca. 
Pazienza arriverà, a poco alla volta, alla soluzione del mistero e all’individuazione dell’assassino responsabile almeno di uno dei due  morti che  trova lungo il suo percorso. 
Quello che mi ha colpito sono  “materiali”, per così dire, che Siviero manipola sotto il profilo linguistico-letterario per costruire la sua invenzione narrativa. Materiali che, evidentemente, devono far parte del nostro immaginario collettivo contemporaneo e, in qualche modo, intervenire nei nostri sogni di “liberazione” da una realtà che consideriamo troppo stretta e da un destino tracciato che non piace troppo a noi napoletani. 
Così, assieme ai reperti di epoca greca, troviamo menzionato Ferrante Imperato, speziale attivo a Napoli sul finire del Cinquecento,  e la sua storia di alchimie ed erbe. A Ferrante s’ispira un singolare personaggio, il farmacista Sciortino,  che subissa Pazienza con  i suoi suggerimenti erboristico-arcaici e antiscientifici. Di Ferrante,  Siviero ci racconta del suo monumentale  erbario, sparito non si sa come e perché. 
Di Ferrante, aggiungo io, ricordiamo anche la sua frequentazione con Giovan Battista Della Porta, leonardesco scienziato, alchimista, negromante, uomo di teatro napoletano, inventore della teoria del telescopio prima di Galileo, finito sotto la scure dell’inquisizione per aver fondato l’Accademia dei Segreti, anticipatrice dello spirito empirico dell'Illuminismo settecentesco.
E ricordiamo Tommaso Campanella che,  qui  a Napoli, presso questo cenacolo di intellettuali partenopei, tenne svariate lezioni. E ancora proprio  i medici dello Spedale degli Incurabili,  Iasolino e Severino che, per primi, scavando nel corpo umano, intuirono l’esistenza di una causa oscura delle infezioni - i batteri che sarebbero stati scoperti solo due secoli dopo -   che portavano l’uomo alla morte. E, manco a dirlo, anche Severino finì sotto le grinfie dell’Inquisizione per la sua ricerca scientifica, per la sua ricerca di verità. 
Insomma il giallo di Siviero dischiude la nostra vista sulla storia nobile e intellettuale della città. Una storia che manifesta anche con estrema chiarezza l’aspirazione mancata alla scienza e all’affermazione della libertà del pensiero dell’uomo contro ogni superstizione e angheria dei poteri consolidati, clero bigotto e spagnoli sopraffattori.  
Alla fine ci rendiamo conto che la nostra realtà attuale, storia innegabile di una sconfitta,  ha deviato da un destino che avremmo potuto avere. Un destino di una città che era tra le più belle del mondo e che oggi è ridotta a  recitare un ruolo subalterno e spurio. Luoghi comuni che affossano  la dignità di un popolo che immagina, nel racconto di Siviero,  impossibili evasioni. 
E allora il “giallo napoletano” finisce per portare, ben nascosto tra le righe, un messaggio nobile di raffinata saggezza. Da diffondere e preservare con intelligenza e cura. Quello che al nostro pensiero è riservato ancora un obiettivo da raggiungere per affermare piena consapevolezza individuale e cultura, lontano dagli stereotipi che vogliono la sostanza napoletana ridursi solo all’asfitticità di simboli correnti e stantii come “pizza, mandolino e putipù”, se non solo malaffare e camorra. 
Così Pazienza, nel suo lungo peregrinare labirintico all’interno degli spazi a volte ristrettissimi e claustrofobici, della città che, improvvisamente, s’allargano quasi all’infinito,  procurando un’opposto delirio di agorafobia, s’imbatte alla fine, in una spelonca dei Vergini-Sanità,  in un vero e proprio rituale di fondazione. Lì vede, raggruppata, sotto terra, una folla consistente di persone che credono di poter azzerare la storia, tornare indietro nel tempo e annullare il conto negativo che tutti i napoletani sembrano aver accumulato, in un improbabile sogno di rifondazione di antiche innocenti fratellanze. 
E’ un’illusione, certo. Ce lo dice proprio Pazienza che smaschera il responsabile  dei delitti e della morte di chi lo ha contrastato nei suoi veri piani che sono, manco a dirlo, soltanto speculativi. 
Altro che fratrie, ritorni indietro, innocenti albe di rifondazione urbana e sociale. 
In un contorsionistico capitombolo all’indietro,  tutto torna come prima. La storia e i destini non si cambiano. 
Ma, ripeto, come ha già ampiamente teorizzato e sperimentato in suoi precedenti scritti, la cosa più interessante della  operazione letteraria tentata da Siviero è quella della messa a punto dei caratteri e dello statuto del giallo napoletano, inteso pienamente come genere compiuto, definito,  nel quale la città, la sua storia, i suoi miti, le sue leggende, le fantasie, le visioni e anche le turpitudini, ne sono parte essenziale e di definizione, veri e propri elementi fondativi.
Caponapoli va giù  d’un fiato. Un libro piacevole e impegnato allo stesso tempo:  da leggere.
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