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ebook di ArchigraficA

giovedì 23 febbraio 2012

Lazzari secondo Vittorio Losito



di Vittorio Losito




Questo testo è ben più di un “noir”: è un viluppo di ricordi e di emozioni che, pur non dichiarandolo esplicitamente, tende a restituire una visione radicale della realtà facendola derivare da una civiltà di appartenenza e da memorie ed esperienze personali di vita, sedimentate e feconde.
Alla lucida analisi dell’antropologo alla scoperta di strutture di aggregazione e di meccanismi sociali, si sostituisce, come contraltare consapevole, l’adesione “ingenua” e, dunque, poetica al mito del popolo “lazzaro”, unito in sé, altra faccia del mondo contadino (che sorride dalle pendici di San Martino), che alza la testa e mette da parte la sua rassegnazione e fa “giustizia”, la sua giustizia che scorre e deborda fuori dagli argini della cosiddetta «società civile»: perché il popolo “lazzaro” non vi si riconosce anzi la conosce solo nelle sue degenerazioni.
L’estrema dignità nella povertà estrema (punto di agglomerazione del modo di pensare dei borghesi impoveriti, alla Umberto D.) nasconde qui miracoli terribili e sanguinosi. Il mondo virulento e sotterraneo dei “lazzari” vive a contatto con una borghesia che, anche se colta, è sfiancata e mediocre, e degli ultimi residui d’una nobiltà schizofrenica e preda di atavici sensi di colpa: il senso di un’azione di ribellione ritrovato in antichi libelli, la meschinità della cultura istituzionale, disegnano lo spazio sociale e la collocazione dei “colti” che affiancano il popolo “lazzaro” e lo guidano nelle sommosse attraverso segrete società di incappucciati. Si riposerà infine nella vagheggiata saggezza contadina, che a Napoli è un vero sogno e un evanescente ingenuo mito.
Una bella favola corrusca, che tuttavia nasconde la vera disperazione del presente, della contemporaneità che si rivela indomabile anche dalle categorie culturali più raffinate. Un populismo sognante che poggia su un lessico intrecciato e non scontato, una galleria di ritratti che rivela ancora una profonda fiducia nella natura umana che riuscirebbe a conservare intatte e incontaminate radici anche all’interno di vite poverissime e abiette.
Ma questo testo, e questo è vitalissimo e commovente, è anche una ricerca d’identità personale, una ricerca di radici e uno scavo nelle memorie lontane, un raccontarsi la propria storia, nella disarmante fiducia che «siamo sempre gli stessi ad ogni età» e che, felicemente, non si cresce più oltre l’adolescenza.
Tutto questo è un grumo di emozioni avviluppato attorno ad una mai dimenticata esperienza di vita e di luoghi, rimasta ardente e viva, incancellabile come la verità.
E tutto questo fa superare di slancio alcuni limiti di secondo piano come quello che a me sembra un uso un po’ standardizzato del dialetto napoletano, un’accentuazione del “colore locale” forse pleonastica, l’uso di generalizzazioni che s’identificano come “colte” (lo stare, di fatto, dalla parte dei “colti” contro la “cultura”, un Nietzsche troppo facile, gli incappucciati in fila, i troppi camorristi in Borsalino e occhiali neri, i professori che “tramano nell’ombra”). Ma questi a me paiono dettagli secondari rispetto all’efficace rigore dei dialoghi e monologhi interiori, che sono il filo rosso del libro e che sostengono robustamente la narrazione. 
Il sogno sorridente della terra madre e dell’ultimo contadino di San Martino, vagheggiamento di un improbabile riscatto al di fuori della contemporaneità, affonda le sue radici mitiche e pulite  nella nuvola rosea dell’illusione, ma anche nel sottosuolo scavato e vuoto di Napoli.
Il libro si caratterizza come opera dai molteplici aspetti non sempre distinguibili, con guizzi rocamboleschi e ripiegamenti interiori: un’opera felicemente barocca, una bella favola noir e una mascherata sorridente e dolente insieme.