di Claudio Cajati
Ora che ho settant’anni, dicono che sono ancora bella. Come lo può
essere una donna con le rughe, con i tessuti cadenti, con le forme ingrossate e
sformate. Ma con due occhi felini verde chiaro e due labbra rosso fuoco anche
senza rossetto: sì, queste, occhi e labbra, sono le mie residue tenaci armi di
seduzione.
Da giovane ero uno schianto. Mio padre, che pure era una brava
persona, mi guardava a volte con uno sguardo inquietante, e le sue carezze
avevano qualcosa che non era tenerezza. Mia madre, che pure era carina, si
lasciava andare talora a qualche sfogo aggressivo verso di me, in cui mi
sembrava di leggere la sua invidia, piuttosto che il suo orgoglio per avermi
generato. Gli uomini poi, anche se badavo a vestirmi con ostinata pudicizia, mi
mangiavano con gli occhi, e facevano anche qualcosa di più. Una volta in un
parco, seduta su una panchina a leggere un romanzo, sorpresi un uomo maturo, in
un cespuglio proprio di fronte a me, a masturbarsi furiosamente, senza ritegno.
Ne fui molto impressionata. E capii quali emozioni, turbamenti, desideri, smarrimenti,
senza che neppure lo volessi, potevo suscitare con il mio corpo.
I miei spasimanti erano una folla, scomposta e impazzita. Quando dovevo
uscire, mio padre pretendeva che mi accompagnasse, come una specie di guardia
del corpo, mio fratello Ruggero. Un tipo deciso, violento, palestrato. Ma, devo
dirlo, anche lui era in balìa di me: ogni tanto, con il fare più disinvolto e
innocente che sapeva, mi metteva una mano sui fianchi, e quella, come per
sbaglio, scendeva sul mio fondo schiena e lo carezzava a lungo. Allora la sua
espressione, di solito tremenda, si scioglieva in una contemplazione inerme,
non dissimile da quella di tutti gli altri uomini. Di ciò mio padre non poteva
rendersi conto, e continuò a farmi accompagnare da lui.
Un giorno c’era una festa a casa di uno della mia classe, la terza
H del Liceo Sannazzaro. Naturalmente mio padre mai e poi mai mi ci avrebbe
mandata da sola. Toccò ancora una volta a Ruggero accompagnarmi: a lui, sette
anni più di me, laureando in Medicina, non garbava per niente una serata in
compagnia di quelli che considerava dei mocciosi con cui non poteva condividere
niente. Mi accompagnò quindi molto di mala voglia. Alla festa circolava molto
alcool e anche molti spinelli: inopinatamente Ruggero, che avrebbe dovuto solo
badare a controllarmi e proteggermi dalla libidine dei tanti maschietti
arrapati, si ubriacò e si fece almeno uno o due spinelli. All’improvviso due ragazzi
mi presero e, approfittando della confusione e della musica ad alto volume, mi trascinarono
in una stanzetta su un letto dove tentarono di stuprarmi. Io misi tutta la mia
forza per resistere. A un certo punto sbucò la faccia infuriata di Ruggero che
si era precipitato buttando a terra i due ragazzi. Gli sorrisi, lui era il mio
salvatore, pensai. Ma un istante dopo era lui sopra di me. E poi dentro me.
Piangevo e strillavo, lui però continuò, stravolto, irriconoscibile. A casa non
dissi niente della cosa ai miei genitori. Ma a mio padre comunicai che non mi sarei
fatta più accompagnare da Ruggero: mi inventai che ormai ero grande e sapevo
come badare a me stessa. Mio padre protestò debolmente, poi smise. Credo che
avesse intuito.
In seguito mi incoraggiò a fidanzarmi: “Mi raccomando, Gloria, con
un bravo ragazzo, uno che ti voglia veramente bene, che non veda in te soltanto
una splendida bambola, uno che capisca la tua natura sensibile, seria,
riservata, prudente… perché tu dentro, nell’anima, sei perfino più splendida
che fuori, io e mamma lo sappiamo bene, ma gli altri no, se non sono speciali…
ecco, ti ci vuole un ragazzo speciale…”
Io intanto mi ero iscritta all’università, ad Architettura. Il
motivo della scelta? Stravagante, si potrebbe dire: mi avevano entusiasmato le
opere di Antoni Gaudì, con le loro morbide sinuosità, convessità e concavità,
con quella geometria che definirei fluidamente sensuale, in cui mi piaceva
vedere una parentela, se non una similitudine, con le forme fluidamente sensuali
del mio corpo. Al primo anno, circondata da una moltitudine di maschi
incantati, continuavo a vestirmi attenta a coprire più che a mostrare tutto
quel bendidìo di cui la natura mi aveva dotato.
Fra la folla di colleghi ho subito notato te, Ernesto: carino,
distinto, educato, misurato, intelligente e talentuoso, ma anche egocentrico,
un po’ spaccone, molto ambizioso. Tu mi avevi già adocchiata - ma questo era
successo a tutti i maschietti, ovviamente – e, appena hai accennato a farti
avanti, siccome mi piacevi, ho deciso che ti avrei incoraggiato. Però con
garbo, non troppo presto, per non fare la figura della sfacciata, della ragazza
facile. Il nostro sodalizio è stato dapprima quasi perfetto. In aula, a letto,
in giro per shopping e monumenti. Eppure c’era qualcosa che non quadrava fra
noi, c’era nel nostro rapporto una grave asimmetria, che però non riuscivo a
mettere a fuoco. Alla fine - siamo stati insieme per tutti i cinque anni del
corso di laurea - sono arrivata finalmente a capire: sei stato con me, e così a
lungo, per due motivi. Uno: sono incredibilmente bona, ti potevi pavoneggiare
in ogni dove accanto a me, suscitando la livida invidia dei maschi, e a letto sapevo
come farti impazzire, di desiderio e di godimento. Due: non so disegnare e
progettare bene come te, e allora rispetto a me potevi sentire ogni volta
ribadita la tua superiorità professionale: questo era per te un fatto prezioso,
la tua compensazione, la tua agognata rivalsa contro lo strepitoso trionfo del
mio sex appeal.
Tutto quello che ho voluto e saputo darti in più, affetto,
tenerezza, premure, finezze, garbate allusioni, prudenti critiche, saggi
consigli, perfino protezione e rassicurazione, ebbene tu l’hai tralasciato o
non l’hai proprio còlto. In definitiva, non eravamo affatto due anime gemelle:
io volavo alto, tu eri terra terra.
Dopo la laurea, mi sono resa conto della mia difficoltà a entrare
in un mondo del lavoro sempre più selettivo. Un’altra ragazza, con la mia
strepitosa bellezza, avrebbe puntato al matrimonio con un buon partito. E
buonanotte alla soddisfazione di lavorare e guadagnare. Ma io non sono fatta di
quella pasta. Non sono stata a compatirmi. Ho studiato per mesi l’inglese e
sono volata a Londra a seguire un Master in Bioarchitettura. Come me la sono
cavata economicamente? Dai miei genitori ho accettato solo gli euro per il volo
aereo e le prime spese – euro che, gliel’ho assicurato, avrei restituito loro
fino all’ultimo. E subito, con il mio aspetto favoloso, ho trovato un lavoro: cameriera
in un ristorante che ha visto un vertiginoso aumento di clienti, tutti maschi,
tutti che volevano essere serviti da me.
Quello che trovava ogni scusa per chiamarmi al suo tavolo e trattenermici
il più possibile eri tu, William, ricercatore del Corso di Laurea in Scienze
Linguistiche: un giovanottone altissimo, magro e ben fatto, biondissimo nei
lunghi capelli lisci, con occhi celesti più di un cielo limpido. Parlavi otto
lingue e, fra queste, un italiano perfetto. Mi facesti una corte serrata,
crescente d’intensità e di fantasia nelle trovate. Credo che m’innamorai
subito. Tu non eri il tipo che si attarda in preamboli romantici. Mi portasti
sparato nel tuo appartamentino. Lindo, arredato con gusto, e con le pareti
tutte tappezzate di poster di femmine nude. Vedesti la mia sorpresa e mi facesti
un largo sorriso. Non eri imbarazzato e non avevi l’aria di uno che sta per
giustificarsi. Allora io ti sorrisi a mia volta, con un sorriso franco e
complice: pensai che mi ero innamorata di uno che ci sapeva fare con le donne.
Niente male, quindi. A letto eri un maestro, perfino più esperto e fantasioso
di me. Ad ogni incontro alzavi l’asticella, come si suole dire. Ti facevi più
ardito, sperimentatore instancabile di nuovi giochi erotici. Dove saremmo
arrivati? Non ci sarebbe stato comunque un limite a questa escalation? Certo.
Il limite un giorno arrivò, ma non mi sembrasti contrariato o preoccupato. Il tuo
viso rimase sereno, occhi maliziosi, sorriso radioso. E annunciasti trionfante:
“Domani ti aspetta una bella sorpresa”.
Il giorno dopo, quando bussai e tu prontamente venisti ad aprirmi,
vidi la porta della camera da letto ruotare. Comparve una ragazza belloccia, rossa
di capelli, prosperosa e perversamente sorridente. Disse: “Sono Jocelyn, qui
per voi.” Ero interdetta, non era certo la sorpresa che mi aspettavo. Era
chiaro cosa significava la sua presenza. Avrei dovuto rifiutare, indignarmi,
protestare e fuggire via. Ma ero talmente innamorata, povera me, che feci di
tutto per dirmi che potevo accettare anche questo. Nell’ammucchiata avrei mostrato
a te, William, e alla tipa che doveva essere una escort, qual era la differenza
fra fare sesso a pagamento e fare sesso per amore. Inutile dire che vinsi io.
Tu invece equivocasti: pensasti che io avevo molto gradito l’incontro a tre. E rilanciasti,
con la tua incredibile faccia tosta. Un giorno mi facesti trovare, assieme a
Jocelyn, un’altra escort, Gilda, non meno procace e perversa. Anche questa
volta accettai la sfida. E trionfai.
Intanto mi ero finalmente resa conto, seppur accecata dall’amore,
che tu eri un inguaribile spendaccione, i soldi non ti bastavano mai, eri
sempre in bolletta. Ed ecco il motivo di quello che avesti il coraggio di
propormi: “Senti, Gloria, la tua bellezza è tanto rara che è un peccato non
farla fruttare a dovere…” Non capivo, chiesi: “Farla fruttare a dovere? In che
senso?” Tu, imperturbabile, continuasti: “La tua avvenenza è tale che potresti
entrare nel mondo del cinema…” Ti interruppi, irritata: “Ma per fare che? Io
non so recitare e non ho la vocazione…” Allora tu mi lanciasti un’occhiata
accattivante e allusiva: “Ma quello che ti propongo non richiede nessuna
capacità recitativa; basti tu come sei…” Ti aggredii: “Se ti spieghi una buona
volta!” “E va bene” concludesti “saresti perfetta a fare film porno…” Ecco la
tua brillante soluzione per non essere sempre in bolletta. Mi venne spontaneo
darti uno schiaffone. Ma già le lacrime scendevano a dirotto, rifiutavo le tue finte
scuse, scappavo dall’appartamentino e da te. Mi avresti incontrata altre volte
al ristorante dove lavoravo, ma mi sarei rifiutata sempre di servirti, avrei
pregato l’altra ragazza addetta ai tavoli di farlo lei.
Finito il Master in Bioarchitettura, partecipai a vari concorsi per
architetto in strutture pubbliche. Partecipai anche, ma solo per scrupolo, a
una selezione per un posto come arredatrice nel Teatro Bolshoi di Mosca. Non so
come, ma vinsi io, pur con i pochi titoli che avevo presentato. Non fu un caso
fortunato. Fu uno scherzo del destino: lì incontrai te, Ygor, danzatore
classico solista. Piccolino di statura, asciutto e scolpito con una muscolatura
frutto solo di allenamento, occhi misteriosi quasi mongoli, pelle scura e
capelli neri e spessi. Alla prima dello Schiaccianoci di Tchaikovsky, lasciati
da parte i miei disegni, ero nel loggione ad ammirarti: leggero come una piuma,
elegante, corretto e misurato nei passi, travolgente nelle rapide rotazioni su
te stesso, disinvolto nel sollevare la ballerina come se a sua volta non
pesasse. Mi colpisti al cuore, una freccia precisa scagliata da un abile
Cupido.
Da quella sera faticai a mandare avanti il mio lavoro di
arredatrice. Appena potevo, venivo a vedere le tue prove. E non mi sedevo nelle
poltrone più dietro, come la gerarchia avrebbe voluto, lasciando quelle di
prima fila al produttore, al regista, al coreografo e insomma a tutti i
principali protagonisti dell’evento artistico. Mi mettevo spavalda in prima
fila e, quando c’era una pausa nelle prove, anche breve, ti guardavo fisso, intensamente,
e cercavo di calamitare il tuo sguardo su di me. Nell’ambiente correva voce
che, come tanti altri ballerini classici, eri gay, che andavi regolarmente a
letto con uomini. Non ci volli credere. Un giorno io, che ero provocante anche
vestita da suora, mi misi addosso pochi panni. Ero più spogliata che vestita, e
venni direttamente nel tuo camerino. Il tuo sorriso fu enigmatico, inquietante.
Per un lungo attimo immaginai che stavi per dirmi: “Sei bellissima, per carità,
ma, forse non lo sai, a me piacciono soltanto gli uomini. Quindi, scusami…” Ma
tu non dicesti questo. Tu non dicesti niente. In un attino mi attirasti a te,
come facevi con la prima ballerina, ma non per un passo di danza: con incredibile
eleganza, anche se con un qualche impaccio, mi spogliasti, ti spogliasti. Avesti
qualche difficoltà per l’erezione, ma riuscisti a portare a termine il rapporto.
Pensai che non eri uno stallone, ma nemmeno un gay. Eri solo molto emozionato,
ti piacevo fin troppo.
Quel tuo modo di fare l’amore, quasi timido e incerto, assomigliava
a quello di un adolescente alla prima volta. Ma avevo equivocato. Quando cercai
di fare di nuovo l’amore con te, tu diventasti sfuggente, chiuso a riccio. Non
capivo il perché. Alla fine te lo chiesi, e tu te ne uscisti asserendo che le
prove di danza erano sfiancanti. Un altro giorno, arrivata alla porta del tuo
camerino, origliai: si intuiva un colloquio burrascoso fra te e un altro dalla
voce femminea. Non capivo bene quello che vi dicevate, ma c’era per mezzo una
scommessa fra voi due. Allora intuii. Quella con me era stata soltanto una
sfida, anzi una scommessa goliardica sulla mia pelle. Tu eri e rimanevi un gay.
Anche se con me ce l’avevi messa tutta ed eri riuscito, per una volta, a
sembrare un eterosessuale. Archiviata la sfida, tu saresti tornato dai tuoi
compagnucci di letto. Io sarei tornata a cercare un amore vero.
La mia attività di arredatrice languiva. Anzi agonizzava dentro una
crisi planetaria che non accennava a finire. Dovevo darmi da fare. L’agonia
materiale e spirituale non faceva per me. All’improvviso, come non averci
pensato prima, mi resi conto che potevo tentare la carriera della top model.
Veramente, avrei dovuto cominciare parecchi anni prima, quando avevo molto meno
di trent’anni. E inoltre non avevo mai avuto il fisico asciutto, quasi
anoressico, di prammatica in questo mestiere. Ma dovevo tentare ugualmente,
cosa avevo mai da perdere? Ripassai il mio francese scolastico, raccolsi gli
ultimi soldini che avevo messo da parte (non volli ricorrere ai miei genitori,
dovevo ancora restituire loro parecchi euro) e con un volo low cost raggiunsi
la favolosa Parigi. In pochi giorni mi feci un giro di tutti i principali
atelier di moda. Ogni volta esordivo con il mio approssimativo francese: “Je
voudrais faire la Supermodel à votre atelier…” La risposta non era a parole. Un’occhiata
sbrigativa, come una concessione e, all’ammirazione per un corpo stupendamente
tornito, seguiva un sorrisetto imbarazzato e ironico. Io capivo subito, e
giravo sui tacchi. Ma, quando stavo ormai per rinunciare e fare un altro
tentativo a Milano, la fortuna mi sorrise.
Il capo del personale dello Studio Élégant Femme, ancor prima che avessi
terminato la mia frasetta di esordio, mi guardò compiaciuto. Come chi sa
apprezzare una bona da schianto. Poi, con voce suadente e un largo sorriso
incoraggiante, disse: “Elle est juste chanceux: nous choisissons généralement
des modéles trés maigre et trés jeune, mais nous avons décidé de lancer aussi
des modéles opulents et trentaine; est une nouvelle cible commerciale qui
devient rapidement connue. Alors nous pouvons passer le test. Ce est bien?” Mi
emozionai talmente che risposi in italiano: “Va bene, va benissimo. Quando si
comincia?” Lui non riuscì a trattenere un sorriso torbido - solo in seguito capii
il perché – e disse: “Même maintenant. Monsier Charles, le couturier et
organisateur de les passerelles, a toujours le temps pour une belle femme, encore
plus pour une femme incroyablement belle…” E mi fece un sorriso libidinoso. Mi
accompagnò con allegra solennità da Monsieur Charles. Entrai nel suo studio
rutilante di schizzi di abiti che tappezzavano tutti i muri. Subito tu,
Charles, ti alzasti da dietro l’enorme scrivania, mi venisti incontro, mi facesti
un baciamano perfetto sfiorandomi appena con le labbra tumide e fissandomi per
un istante, inquisitivo ma cordiale, con i tuoi occhi neri. Eri un signore sui
quaranta, appena brizzolato, di statura media, asciutto, dai lineamenti
finissimi, le mani affusolate come devono essere quelle degli artisti, una
carnagione bruna senza essere abbronzata, agghindato con un completo gessato,
forse disegnato da te stesso, che ti faceva apparire ancora più magro.
“Benvenuta” mi disse in un
italiano dal gradevolissimo accento francese “Non la invito neppure a sedersi,
come vorrebbe la prassi della buona educazione: è che la conduco subito nel
salottino per la prova dei vestiti… lei, nel suo esuberante splendore, è quel
che si dice una taglia forte ma, come deve averle già spiegato il capo del
personale, noi cerchiamo anche femmine strepitose come lei per lanciare abiti
destinati a un pubblico di donne tornite e non necessariamente giovanissime…
pardon, non volevo dire che…” Stavi per mortificarti, io ti interruppi con un
sorriso benevolo: “Ho trent’anni, lo so che normalmente le modelle sono più
giovani…” Tu mi guardasti con riconoscenza, poi sbottasti, allegro e pimpante:
“Beh, non perdiamo tempo, andiamo a provare degli abiti adatti a te, degli
abiti capaci, se mai possibile, di valorizzare la tua rara avvenenza.” Fu lì,
mentre mi spogliavo e mi vestivo che capii in cosa consisteva, anche e
soprattutto, il provino. Tu mi facevi il provino dei vestiti, certo, ma ancor
più eri interessato al provino ‘orizzontale”: con un movimento elegante e
armonioso, prima che mi misurassi un altro vestito, mi ribaltasti su un enorme
letto che fino ad allora, chissà come, non avevo notato. E potetti provare la
sapiente efficacia di un quarantenne molto virile: possedendomi mi esaltasti
invece di umiliarmi, arrivasti più e più volte, sempre con la disinvoltura di
un uomo esperto, misurato, attento al mio piacere. Dopo, non ti addormentasti
come fanno tanti. Mi guardasti con tenerezza e partecipazione, mi sembrò che il
tuo fosse già amore. Il mio certamente sì.
Per molti mesi mi sono abbandonata nelle tue mani magiche. Sfilavo
in passerella con gli abiti raffinati e originali che tu disegnavi apposta per me.
Perché li indossassi io e nessun’altra. Anche se a letto continuavi a
soddisfarmi alla grande, la creazione di abiti solo per me era la
manifestazione, più consona al tuo talento, del tuo amore. Ero innamorata di
te, e credevo che anche tu mi amassi, alla follia. Ma mi sbagliavo. Quanto mi
sbagliavo! Un giorno, nella mia stanzetta privata, pensai di telefonare ai miei
per raccontare loro tutta la mia felicità. Non so quale tasto pigiai
involontariamente, e mi arrivò la tua voce: parlavi con il contabile come fanno
i maschi complici quando si confidano fra loro. Parlavate in italiano e tu
dicevi: “Sono stato proprio fortunato con questa Gloria, mi è arrivata su un
piatto d’argento: bellissima, disposta a tutti i sacrifici che il nostro
mestiere comporta, puntuale e professionale sempre, sa sfilare come una
veterana… ma non basta, me la scopo ogni volta che voglio, e puoi immaginare
che goduria con una così… Sono sicuro che s’è innamorata di me, e le piace
credere che io la ami, figurati! Inoltre mi sta facendo guadagnare un sacco di
soldi, ed ecco un altro buon motivo per tenermela stretta stretta...” Volevo
fuggire, ma le gambe mi tremavano e non mi sorreggevano. Aspettai la sera tardi
per raccogliere nella valigia le mie poche cose (non portai via nemmeno un
vestito disegnato da te) e nella notte scappai via con un taxi. Sapevo che più
tardi mi avresti cercata per un’altra notte di sesso: ma a questo punto, caro
mio, non ti restava che farti una sega.
Tornai a casa dai miei. A loro non raccontai nulla delle mie
cocenti delusioni. Ma loro intuirono che qualcosa di grave mi era accaduto. Mio
padre non poté fare a meno di dirmi: “Sei sempre bellissima, bambina mia…” e
nel suo sguardo, nelle sue carezze, ritrovai quella ambiguità inquietante che
già avevo conosciuto. A casa potevo riposarmi per un poco, ma subito dopo me ne
dovevo andare. Lessi di un importante convegno di Bioarchitettura a Barcellona.
Decisi su due piedi che sarei volata lì, nella città dove tutto, cultura,
turismo, accoglienza, cibo, era ottimale. Negli intervalli del convegno mi
dedicai a visitare molte mostre di grafica e di pittura. Nella Galleria Gaudì
era esposta l’ultima produzione pittorica iperrealista di un catalano
giovanissimo e già affermatosi prepotentemente. Pablo. Un nome che era una promessa
e una garanzia. Pablo, mi soffermai a lungo davanti alle tue opere. Mi
colpirono soprattutto i nudi femminili, perentori, nitidi, coinvolgenti, e mai
volgari. Mentre stavo studiando un quadro, tu ti avvicinasti: avevi un odore di
colori ad olio, misto a un delicato profumo per uomo, occhi verdi acquamarina e
uno sguardo di adolescente adulto, capelli liscissimi castani che ti
fluttuavano sulle spalle, mani affusolate eppure maschie, un sorriso mite e una
gesticolazione speciale, come se stessi dipingendo sempre. Mi sorridesti e
dicesti: “Usted sería para mi una modelo extraordinaria, como nunca tuve.” Era
una sfida, non avevo mai posato nuda. Una sfida eccitante, con un pittore
importante e anche un bell’uomo.
Ti dissi di sì. E la sera stessa, dopo una cena sontuosa con tanti
amici e acquirenti per festeggiare il vernissage, mi portasti nel tuo studio.
Erano le due passate, ma nessuno di noi due aveva sonno: mi spogliasti con
studiata lentezza, mi facesti mettere in posa, prendesti tela colori pennelli
e, in meno di quattro ore - una notte in bianco che non sarebbe stato possibile
dimenticare – mi facesti il ritratto. Nel tuo quadro la mia prorompente
sensualità era esaltata, fin quasi al paradosso. Mi venne spontaneo abbracciarti
e baciarti. Facemmo l’amore con un furore sapiente, persi in un piacere smemorante,
in un abbandono completo che mai prima avevo conosciuto. Eppure non ero una
novellina. Ci appisolammo soltanto verso le nove del mattino. Al risveglio
accanto a te, seppi subito che mi ero innamorata, ancora una volta. Ma tu, tu
ti eri innamorato di me? O per te ero soltanto una femmina stupenda da scopare,
una modella diversa dalle solite che ti dava l’occasione per un nuovo percorso artistico?
I quadri con me nuda non li esponevi alle mostre: pensavi che non ne erano
degni? Ma siccome mi piaceva pensare che eri innamorato di me, immaginai che
eri tanto geloso da non volermi dare in pasto agli sguardi viziosi dei maschi.
Mi aspettava un’incredibile amara sorpresa. Tu mi avevi
rappresentata, nei primi quadri, immersa in piccoli paesaggi in cui ero,
sebbene molto eccitante, soltanto una sommessa protagonista. Poi eri passato a
ritrarmi più in primo piano, isolata da qualsiasi contesto, con un iperrealismo
che esaltava la mia travolgente avvenenza. Pensavo che ti saresti fermato qui. Un
giorno invece mi facesti vedere gli ultimi quadri dipinti senza interruzioni
per una notte intera. Erano tutti dettagli, parti isolate e ingigantite del mio
corpo: un enorme seno, un gigantesco capezzolo, smisurate grandi labbra, un’immane
vagina, un culo mastodontico, un abnorme osceno sfintere anale. Il mio corpo
nel suo insieme non c’era più, non era più possibile riconoscermi. Come pezzi
di carne dal macellaio… Non ci misi molto a fare il punto: tu certamente non mi
amavi. Come corpo intero ti servivo da oggetto per la tua libidine di maschio.
Come corpo smembrato ti servivo per un esperimento artistico. Prima di
abbandonarti e di ritornare alla mia vecchia casa, distrussi tutti i quadri che
mi ritraevano, intera o fatta a pezzi.
Tutti voi, Ernesto William Ygor Charles Pablo, avete adorato il mio
corpo. E come potevate non farlo? Generosa come sono, non mi sono limitata a
concedermi, vestita o nuda, ai vostri sguardi attoniti e rapiti: mi sono
prodigata perché ne traeste il massimo godimento, il tripudio esaltato della
carne soddisfatta. Con la vostra insaziabile fame di sesso, mi facevate perfino
tenerezza, pensate un po’. Mi sembravate bambini viziosi ma comunque innocui.
Sono stata il vostro giocattolo preferito. Non più di uno splendido giocattolo.
Nessuno di voi ha mai sfiorato con me la dimensione dell’amore. Ma non importa.
Io sono riuscita a non rimanere ostaggio della mia prepotente avvenenza. Io l’amore
l’ho conosciuto. Io ho saputo amarvi. E vi ho amati tutti.