di Claudio Cajati
Stamattina
sono stata più del solito a guardarmi nello specchio del bagno. Cercavo di contare
le rughe del viso: avevo la sensazione che fossero aumentate, nientemeno durante
la notte. Alla mia età, ho più di cinquant’anni, uso varie creme anti-age, come si usa dire oggi, e
moltissime mirate proprio a far sparire, o almeno a ridurre, le rughe. I
risultati sono deludenti, sconfortanti. (La chirurgia estetica, poi, non l’ho
mai presa in considerazione: non voglio diventare una maschera stirata che non
può fare un sorriso naturale e assumere tutte le diverse espressioni del volto.)
Se
chiedo a mio marito le sue impressioni in proposito, lui sta zitto come uno che
valuta cosa gli conviene dire. Poi glissa e subito si affretta a squagliarsela.
Se lo chiedo alle mie amiche, loro si sentono in dovere di tranquillizzarmi, mi
dicono che le creme che uso sono portentose, tanto che le mie rughe stanno
scomparendo. Pietose bugie che non mi sollevano.
Stretta
fra il silenzio del marito e le bugie delle amiche, rimango sola con il mio
problema. Lontana dagli specchi che non mi danno tregua. Atterrita all’idea che
con il tempo andrà sempre peggio, e che il mio viso finirà per assomigliare a
una terra arsa e fessurata. Vorrei allora romperli tutti gli specchi,
nascondermi il volto come un’araba, anzi chiudermi in casa e non farmi più
vedere da nessuno… Sciocchezze, bambinate, follie.
Il
futuro è un gigante minaccioso e spietato. Devo rifugiarmi fra le braccia
rassicuranti e benevole del passato. Quando ero giovane. Anzi quando, ragazza
di diciotto anni, partecipai a Miss Italia. Arrivai seconda, a un’incollatura
dalla vincitrice. Molti sostennero, spassionatamente, che era stata
un’ingiustizia, che il titolo spettava a me. E già, ero proprio bella. Come ero
bella!
Chiudo
gli occhi per ritrovare nel buio quella sagoma snella e prosperosa, quel
portamento solenne e grazioso, quella pelle liscia come pesca, quelle movenze e
quel sorriso che incantavano gli uomini, allarmavano le donne. Ma è passato
troppo tempo. Quella fresca allegra eccitante Giovanna non me la ricordo più
bene. Nella mia mente è diventata una sagoma velata dai contorni indefiniti. Come
attraverso gli occhi di un miope.
Allora
mi precipito verso il mobiletto dove conservo gli album di fotografie. Ne tiro
fuori quello della pubertà e della prima giovinezza. Lì ci sta pure la Giovanna
quasi vincitrice a Miss Italia. Per la furia che mi ha preso, l’album mi cade
per terra. E, come per miracolo, balza fuori proprio la foto della premiazione.
Siamo in tre, allineate e apparentemente amiche. La vincitrice fra me e la
terza. Non c’è dubbio, non c’è discussione: la più bella sono io. Sono più
alta, più fine e al tempo stesso più seducente, sfoggio un sorriso malizioso che
non è sforzato, ho occhi luminosi e felini, una chioma bionda vaporosa che mi
scende sulle spalle, e sono perfetta nella postura sapiente come quella di una pin up.
Il
mio obiettivo è stato da allora, per più di trent’anni, quello di rimanere
bella. Contrapporre all’impietoso assalto del tempo uno stile di vita sano,
rigorosamente controllato, forte della mia disperata ma tenace volontà. Nel
cibo e nelle bibite ho evitato tutto quello che poteva danneggiarmi. Dieta
mediterranea in piccole porzioni; niente superalcolici; birre e vini rossi di
bassa gradazione, non più di un bicchiere al giorno; dolci nel senso di una
pasta mignon soltanto la domenica, fritture di alici una volta al mese. E ogni
mattina, immancabilmente, mi sono fatta un’ora tonda tonda di esercizi ginnici.
Prima a casa, poi in palestra perché m’inorgogliva e mi stuzzicava esporre agli
altri il mio corpo ancora perfetto, come un ambito trofeo. Tanto che molti
uomini abbandonavano i loro attrezzi nella sezione maschi e venivano a spiarmi
a bocca aperta.
Qualche
anno dopo ho sentito che era venuto il momento di accasarmi. Fra la folla
sterminata di pretendenti ho scelto Arturo: un tipo posato, quasi bello, ingegnere
in un’importante industria, con un bello stipendio. Ma soprattutto un tipo remissivo
con le donne, che mi dava l’idea di non poter contrastare i miei progetti
estetici, anzi di potermi magari aiutare. Lui da solo era in grado di mantenere
la famiglia, cioè me e lui e basta: io non avevo nessuna intenzione di rimanere
incinta, non volevo sformarmi nemmeno per soli nove mesi. E poi immaginavo che anche
dopo il parto non sarei stata come prima (mi sentivo male al solo pensiero
della pancia che non voleva ritornare bella piatta). Arturo invece lo
desiderava un figlio. Uno almeno. Però ci teneva, anche di più, che io
rimanessi splendida, ammirata e invidiata. I nostri egoismi, solidali, fecero
sì che nessun bambino venisse a interferire nel nostro consolidato trantran.
A
questo punto la mia vita era confinata fra la casa, la palestra, i party e le
passeggiate in cui potevo accogliere, come ribaditi omaggi, gli sguardi
incantati e i commenti arditi degli uomini. Ero orgogliosa di me, ma non
soddisfatta, tanto meno felice. Mi sentivo inutile. Volevo un lavoro, un lavoro
che fosse adatto a me. Ecco, avrei voluto tentare la carriera dell’attrice o
della presentatrice. Oltre che bella, ero spigliata, avevo buona memoria,
faccia tosta. Potevo di sicuro bucare lo schermo. Ma mi faceva difetto una dote
fondamentale in questo campo: la volontà, che permette di accettare ogni
rinuncia e sacrificio pur di riuscire. Quella volontà che invece avevo in
abbondanza se si trattava di difendere la mia bellezza.
Così
sono rimasta casalinga. Una stupenda casalinga. Mi annoiavo, naturalmente. A
poco serviva qualche canasta con le amiche, qualche party nell’ambiente dei
colleghi di Arturo. Ero sempre ammirata, ma mese dopo mese perdevo colpi. Da
bellissima diventai bella, poi una di cui si diceva che doveva essere stata
bella. Per le strade gli sguardi degli uomini erano diventati fuggevoli,
spenti, persi all’infinito. E non mi raggiungevano più quei commenti arditi e
volgari che tanto avevo gradito un tempo. Arturo, da marito generoso senza
fantasia, si ostinava a dire che ero, sempre e per sempre, splendida. Le amiche
mi chiedevano se avevo fatto un patto con il diavolo, per me il tempo sembrava
fermo. Sapevo bene che non era vero. Ne ebbi l’amara conferma in palestra: i
maschi, che prima accorrevano per ammirarmi, adesso se ne restavano nel loro
settore. Così un bel giorno, anzi un brutto giorno, in palestra non ci andai
più.
Anche i party dove mi portava Arturo
cambiarono. Prima ci trovavo anche piacenti giovani donne, che non potevano
certo contendermi la palma della bellezza, ma facevano comunque la loro figura.
Ora invece quelle ragazzotte, tanto più giovani di me, mi avrebbero messo in
ombra, relegata in secondo piano. Perciò Arturo si industriò per portarmi in
party dove c’erano soltanto donne della mia età o anche più mature. E in mezzo
a queste, seppure con le mie crescenti rughe, continuavo a emergere. Era uno
spettacolo, e io ne ero la protagonista, al centro di un’attenzione costante, quella
eccitata degli uomini, quella irritata delle donne.
Ora non sto andando più nemmeno ai party. Mi
sono relegata in casa e ho tolto tutti gli specchi. Arturo è rimasto sbigottito
e solo il suo buon carattere gli ha impedito di farmi una partaccia. Cerco
intanto di riempire in qualche modo le mie giornate. Provo nuove ricette, prese
da un libro di cucina che va per la maggiore. Guardo la televisione dalle sei
alle otto ore, come un’anziana rimbambita. Non telefono alle amiche e, se lo
fanno loro, le sbrigo in pochi minuti, rifiuto le loro proposte di passeggiate
e shopping e faccio capire che non ho voglia nemmeno che vengano a trovarmi.
Nel mio autolesionistico isolamento invecchio più velocemente, le rughe
proliferano, la pelle si guasta. Che resta più della mia bellezza?
È arrivato Carnevale. Mi ha sempre attirato
molto, con i suoi colori, la sua frenesia, la sua anima scherzosa anche nella
trasgressione. Così mi sono decisa a interrompere l’eremitaggio casalingo, a
tentare un colpo di coda per emergere da questa abulia che ormai procede verso
la depressione. Mi sono fermata davanti alla vetrina di un negozio con maschere
originali e molto ben fatte. Sono entrata per chiedere chi ne fosse l’autore.
“Signora, noi non siamo solo commercianti” ha precisato un commesso “le
maschere le abbiamo fatte tutte noi…” Mi sono scusata e ho chiesto: “Ma fate anche
maschere personalizzate, su commissione… per esempio, partendo da una
fotografia?” Subito il commesso ha precisato: “Se la foto è chiara e abbastanza
grande, almeno 10x15, si può fare…” Sono volata a casa, ho tirato fuori
dall’album una foto mia, bella grande, di quando avevo meno di vent’anni. E
sono tornata di corsa al negozio.
Dopo una settimana mi hanno chiamato. La
maschera era pronta. Un brivido mi ha attraversato la schiena: era proprio il
mio volto a quella età. Incredibile e stupendo. Mi è costata molto, ma ho pagato
volentieri.
Le prime prove per vedere cosa succedeva se la
indossavo, le ho fatte con Arturo e con le mie amiche. Arturo ha avuto un
sobbalzo, ha fatto un sorriso sbilenco, poi è sbottato: “Ma sono scherzi da
fare, questi? A volte mi sembri ancora una bambina. Questa tua fissazione per
la bellezza è diventata un’ossessione… non lo sai che ti voglio bene comunque?”
Le amiche mi hanno circondata, festeggiata, quasi portata in trionfo. E l’hanno
voluta provare, a tutti i costi, anche loro.
Ho deciso. Adesso con la maschera uscirò. Mi
presenterò a tutti, senza timori. Con lei sarò di nuovo bella. Come ero bella, e
come lo sono di nuovo!