di Claudio Cajati
Se dico che io, Giuseppe, e Gaetano, mio
fratello, siamo gemelli, cosa vi viene subito da pensare? Che tutte le
conseguenze sono ovvie?
E no! Se siete persone almeno un poco istruite,
dovete fare una domanda fondamentale: gemelli omozigoti o eterozigoti? Vi
risparmio le definizioni scientifiche di ‘omozigote’ e ‘eterozigote’ perché
contengono termini di ardua comprensione – anche per me – come ‘diploide
ibrido’, ‘aploide’, ‘alleli’… Ciò che qui mi interessa ricordare è
semplicemente che i gemelli omozigoti sono molto più simili fra loro, rispetto
a quelli eterozigoti.
Ebbene, io e Gaetano siamo gemelli omozigoti.
Siamo, come si dice, due gocce d’acqua: uguali i lineamenti, la complessione
fisica, l’altezza, la carnagione, i capelli, gli occhi, il naso, la bocca, i
gusti alimentari, i vestiti che ci piacciono, il carattere estroverso,
l’autostima, la Facoltà a cui ci siamo iscritti, Architettura, la passione per
le donne, la precoce arte amatoria, il tifo per la stessa squadra di calcio, il
Napoli, la loquacità… alt, stop!
Qua spunta l’unica, drammatica, differenza.
Siamo sì entrambi loquaci, degli inguaribili chiacchieroni, ma quale abissale
differenza linguistica fra noi! Io sfoggio un linguaggio da letterato
raffinato; Gaetano si abbandona a una parlata rozza e popolare, per di più nel
dialetto napoletano, che in lui assume un tono volgare, sbrigativo, menefreghista
o protestatario.
Questa differenza ha comunque una sua utilità:
noi due siamo talmente uguali fisicamente, che per riconoscere chi è Gaetano e
chi è Giuseppe, tutti, perfino i nostri genitori, debbono sentirci parlare.
Alcuni pensano che è stata proprio la nostra indistinguibilità a spingerci a
differenziarci almeno in un aspetto. Il linguaggio appunto. Ma io non accetto
questa tesi. Infatti, se ben ricordo, e ricordo bene, sin dalle prime frasi
nell’infanzia io e Gaetano ci esprimevamo con linguaggi agli antipodi. Mi piace
pensare piuttosto che ciò dipenda dalla legge del karma: le nostre vite
precedenti devono essere state molto diverse, da cui due ben distinti karma,
nonostante che siamo gemelli. Quando esposi la mia tesi a Gaetano, la sua
reazione fu spicciativa e brutale: “Siente, Giuse’, a vuò fernì e me
sfruculiare cu cheste parole streuze? Karma: ma che vuò dicere? O fatto è ca tu
liegge nu cuofano e libri e t’ammocchi tutte e fessarie ca nce stanno scritte.”
Avrei voluto spiegargli, con calma ed educazione, tutta la teoria della
reincarnazione. Ma mi rendevo conto che con lui sarebbe stato fiato sprecato.
Alla scuola media, nell’ora di ginnastica, era
una vera noia. Le nostre prestazioni non potevano che essere le stesse: 1 metro
e 30 nel salto in alto; 4 metri e 10 nel salto in lungo; i cento metri in 13
secondi, e così per la pertica, la corda, il quadro svedese, il cavallo e
qualsiasi altro esercizio a cui il prof ci sottoponesse. E allora cresceva in
noi la smania di sconfiggere la natura che ci aveva fatto fisicamente uguali,
cercando ognuno di prevalere sull’altro. Io dicevo a Gaetano, con il mio stile
raffinatamente didascalico: “La letteratura sull’argomento dei gemelli
omozigoti afferma che l’uguaglianza fra loro finisce per diventare una sorta di
ossessiva prigione, da cui prima o poi tentano di evadere superando l’altro in
qualche prestazione: la nostra opportunità è ora nel salto in alto, nel trovare
uno slancio marginale che permetta il sorpasso verticale. E io assolutamente
voglio tentare di sorpassarti.” Gaetano faceva un sorrisino e ribatteva alla maniera
rozza sua: “Giuse’, accuntientate e pareggià, si cca nce sta fra nuje uno ca po’
vencere, chillo songo io. Tu si capace a parlà, ma io tengo comme a nu razzo
into culo e si l’appiccio pozzo zumpà cchiu e te. Vulisse verè?” Nonostante baldanzosi
propositi e spacconate, continuavamo a saltare entrambi il solito, 1 metro e
30.
Quando in Facoltà facciamo una prova ex-tempore
di prospettiva o assonometria, Gaetano fa talvolta dei disegni scombinati
(perfino più dei miei), tanto assurdi che sembrano il parto di un incubo. Io
gli voglio bene, e allora cerco di sdrammatizzare. Gli dico, alla mia maniera:
“Gaetano, fratello mio, l’inadeguato risultato della tua prova grafica non va
ascritto a qualche tua eventuale carenza tecnica, bensì a ciò che sostanzia il
tuo carattere, quella proclività all’esuberanza emozionale che fiacca il
controllo razionale e ti consegna, inerme, agli attacchi dei fantasmi
irrazionali di una mente pirotecnica, come appunto risulta essere la tua…” Lui,
che da un po’ mi guardava storto, prontamente ribatte: “Giuse’, ma che staje a dicere?
Io a te non te capisco. Nun è cchiu’ facile dicere ca chistu disegno che aggio
fatto è propeto na chiavica?”
A parte questo episodio di diversa inefficienza
nel disegno, anche nel carattere siamo come due cloni. Ci piace la polemica,
siamo aggressivi e, se pensiamo di avere ragione contro qualcuno (lo pensiamo
praticamente sempre), siamo capaci di vomitare parole su parole per riassumere
e, al tempo stesso, approfondire i termini del conflitto. Ma quale differenza
plateale fra noi due nell’esprimerci!
Faccio un esempio. Parcheggiamo la nostra Ford
Ka, perfettamente centrata rispetto alle strisce bianche che delimitano lo
stallo. Arriva uno con la sua auto e parcheggia alla nostra destra, ma così vicino
che Gaetano non può uscire dal suo lato. Mi precipito fuori dal posto di guida
e aggredisco a parole il deficiente (deficiente anche perché così facendo si è
chiuso anche lui!): “Senta, egregio signore, due sono le ipotesi: Lei sa come
si parcheggia in questi stalli, ma non l’ha fatto perché non sa guidare, oppure
Lei sa guidare ma ignora che in questi stalli non basta parcheggiare entro le
strisce bianche, bensì bisogna tenersi a uguale distanza dalla striscia a
sinistra e da quella a destra, per non incorrere nell’inconveniente da Lei
causato a mio fratello e, addirittura, a se stesso. Dica ora Lei, per favore,
quale ipotesi è quella giusta.” Il tipo non ha il tempo per ribattere, ché già
ha cominciato Gaetano: “Ne uè, scurnacchiatone, o si sciemo o si cecato. Si si
sciemo, nun ce sta niente ra fa’, ma si tu si cecato, pecchè nun te vaje a fa nu
paro e lente? Eh? Verennote meglio n’faccia, so sicuro che si sciemo e cecato…
ma mammà e papà comme hanno fatto a fa na fetecchia comme a te? Smamma,
vattenne e pressa, e capito o no?” Il tipo non è giovane né robusto, e ha difficoltà
a uscire dall’auto: non ha nessuna voglia di litigare. La sua faccia esprime
soprattutto lo sbigottimento per due gemelli tali e quali nell’aspetto, ma che
parlano in maniera così differente. Mette la marcia indietro e va a
parcheggiare altrove.
A tutti e due, poi, ci piacciono assai le
donne. E facciamo molte facili conquiste. Dopo siamo soliti, chiusi in una
stanza lontano da orecchie indiscrete, raccontarcele reciprocamente. Anche nei
minimi dettagli. Una volta c’è capitata una belloccia proprio ninfomane, che ha
voluto stringere commercio carnale sia con me che con Gaetano. Al tempo stesso,
un triangolo insomma. Siamo rimasti entrambi molto soddisfatti, con una gran
voglia di raccontarci quello che avevamo provato. Io ho detto a Gaetano:
“Finora non ci eravamo mai esercitati in una situazione triangolare a
prevalenza maschile, due uomini e una donna, e, sulla ovvia implicita
competizione fra noi due nel ricavare e fornire piacere a lei, ha prevalso la
totale immersione eterosessuale, con colei che si è rivelata una degna
rappresentante di quella femminilità che avvolge, esalta, sublima, conducendo
ad un piacere dilagante che spoglia il partner dai suoi legami egoistici ed
egocentrici… la sua vulva sa compiere contrazioni sapientemente rallentate,
quasi fosse una seconda bocca pigramente viziosa; le labbra della sua bocca si
dischiudono per accogliere il membro con la stessa maliziosa grazia con cui un fiore
si apre e si arrende ai raggi penetranti del sole…” Gaetano ha sbuffato, poi si
è precipitato a interrompermi: “E comme a fai longa! Io te pozzo dicere ca
chesta è na zoccola schiavona, nun è na puttana ma è meglio. M’ha fatto nu’
bucchino accussì doce che nun l’aggio pruvato maje, e dinto a fica soia io nce
vulesse stà pe sempe!”
Però siamo lentamente maturati: niente più donne
facili, o proprio ninfomani. Ci siamo fidanzati con due brave ragazze, anche
loro gemelle omozigote. Tanto promettenti e affidabili che i nostri genitori
hanno voluto fare una grande festa per il fidanzamento ufficiale. Non si è
badato a spese e sono stati invitati tutti i parenti e amici. Prima del taglio
di una torta speciale, diciamo una torta ‘gemellare’, io e Gaetano siamo stati
invitati a fare un breve discorso. Quello che ha sorpreso e sconcertato gli
invitati è stata la tremenda diversità fra i linguaggi. Io ho detto: “Dopo un
vano e frivolo vagabondare nel bosco oscuro e insidioso della femminilità
impura, io e Gaetano siamo finalmente usciti alla luce su un prato rigoglioso e
candido, illuminato, più che dal sole, da due stelle fanciulle, due stelle che
brillano di luce propria e riscaldano i cuori freddi di noi poveri maschi.
Brindiamo allora a questo felicissimo incontro che una provvidenza generosa ci
ha voluto regalare… Viva le donne, viva il fidanzamento e il matrimonio!” Gaetano
è subito subentrato e ha detto: “E mo che v’aggia dicere? Io n’aggio canosciuto
e guaglione, ma nisciuna pulita, ‘ntelligente, carnalona, brava, acconcia e
nnammurata comme a chisti ddoje sciuri che io e Giuseppe stammo pe cogliere,
proteggere, cura’ per tutta a vita. Evviva e nnammurate, evviva e future
spose!”
Occorreva fare qualcosa per rimediare allo
scandalo: un gemello che parla forbito in italiano, e l’altro che parla
sguaiato in napoletano. Ho pensato, riflettuto, ipotizzato, valutato. Alla
fine, ho avuto un’idea brillante per diventare finalmente due gemelli perfetti.
Siccome non avevo nessuna speranza di convincere Gaetano a parlare in un italiano
come il mio, mi sono messo a studiare di buzzo il napoletano. E ho scoperto che
non merita di essere considerato un dialetto: è una vera lingua, ricca,
vibrante, ironica, creativa.
Dopo un lungo appassionato studio, un giorno all’improvviso
mi sono rivolto a lui così: “Aita’, nuje amma fernì e parlà ddoje lengue spari,
comme fussemo ddoje scanusciuti. Nuje simmo gemelli, e e gemelli anna parlà a
stessa lengua. Rinto la vita ce vo cazzimma. Me so fatto curaggio e aggio
pigliato o capo in mano: me so mparato o napulitano! Te fa piacere ca facimmo e
chesta manera?” Gaetano ha spalancato gli occhi, mi ha sorriso, mi ha abbracciato
forte forte. E, prima di mettersi proprio a piangere, ha gridato: “Mo sì ca
simmo propeto gemelli!”