René Magritte, Gli amanti
di Claudio Cajati
Ci
siamo conosciuti sin da bambini. Abitavamo nello stesso viale, un viale corto e
cieco, il viale Malatesta. Ci vivevano pochissime famiglie; le nostre in due
villette contigue, vicinissime. La mia, una grande e bella casa; la tua, una
casa piccola e modesta.
Dirimpettai,
ci affacciavamo da due balconcini. E da lì potevamo guardarci quasi negli
occhi, confidarci a bassa voce. Io, Ernesto, di famiglia benestante, spavaldo e
carino; tu, Gilda, di famiglia proletaria, timida e bruttina.
C’era
molto feeling fra noi. Ci piaceva un mondo scambiarci sfoghi, progetti, paure e
speranze. Tu, mi ricordo, cercavi ogni tanto di portare l’argomento sul nostro
futuro. Forse avresti voluto sentirmi dire che mi volevo fidanzare con una come
te. Anzi proprio con te. E poi, da grandi, addirittura sposarti.
Ma
tu eri bruttina, proprio bruttina. L’intesa fra noi si fermava davanti
all’ingresso, per te sbarrato, del Regno della Bellezza. Allora io cercavo di
cambiare argomento; tu capivi, incassavi, accettavi.
Ricordo
che i miei genitori facevano ogni tanto discorsi in cui non lo si diceva
chiaramente, ma lo si lasciava filtrare: uno carino come me poteva e doveva
aspirare a sposare una carina. Anzi proprio una bella. E io ero d’accordo.
Così,
superata la pubertà, mi sono messo alla ricerca di questa bella alla mia
altezza. E, dopo molti flirt di brevissima durata, mi sono fidanzato con
Barbara. Una belloccia sensuale e disinvolta, abbastanza sciocchina da farmi
sentire intellettualmente dominante, perfino più intelligente di quel che sono
e so di essere.
Io
e Barbara eravamo entrambi studenti a Giurisprudenza. A seguire le lezioni
sempre l’uno accanto all’altra. A me toccava spiegarle i molti argomenti che
lei faticava a capire, o proprio non riusciva ad afferrare. A lei, dopo la mia
paziente prolungata spiegazione, toccava ringraziarmi. Lo faceva senza parole,
a modo suo: con la mano morbida, insinuante, scivolava furtiva fra le mie
cosce. Uno scambio asimmetrico, per me molto piacevole. Lei mi andava bene così.
Belloccia, sciocchina e disinibita. Non pensavo mai a un’alternativa.
In
quegli anni in cui ero preso dagli studi universitari, mi capitava ogni tanto
di incontrarti, Gilda. Con il tuo sguardo vivace e tenero, il tuo sorriso
benevolo e malinconico, e sempre bruttina. Tu non avevi potuto permetterti
l’università, e ti arrangiavi con vari lavoretti. Un tempo la differenza di
classe sociale fra noi era praticamente ininfluente sulla nostra amicizia di
ragazzi. Ora il divario pesava: tu commessa o colf senza prospettive di
miglioramento, io studente universitario e futuro avvocato.
C’era
ancora fra noi la pallida eco del nostro feeling d’un tempo. Ma era un’emozione
fiacca, sempre più sbiadita, quasi amaramente patetica. Anche se tu – me ne
rendevo ben conto nei nostri fugaci incontri – cercavi di rinverdirlo quel
feeling con allusioni discrete che mi mettevano in imbarazzo. Combattuto
com’ero fra passato e futuro. Il passato che ci aveva visti vicinissimi, il
futuro che ci avrebbe allontanati sempre di più.
Quando
mi sono laureato, ho subito aperto il mio battagliero studio di avvocato. Avevo
bisogno di una segretaria, ovviamente. Barbara, ancora mia fidanzata, anche lei
laureata e mia collaboratrice, l’ha voluta scegliere lei questa segretaria. O
meglio, sceglierla lei dandomi però l’illusione di sceglierla io (uno
stratagemma a cui ricorrete spesso, voi donne).
Barbara
voleva innanzi tutto che fosse una brava ragazza bruttina; che fosse
assolutamente improbabile che potesse piacermi. Ma al tempo stesso sapeva che
doveva essere seria, competente, affidabile, puntuale.
Ebbene,
questo non era forse il tuo identikit, Gilda?
Con
grandi sacrifici ti eri intanto diplomata in ragioneria. Ed eri, ancora e
sempre, una ragazza d’oro: riservata, precisa, scrupolosa. Ora lavoravi come
contabile in un minimarket.
Io
ebbi l’dea. La dissi a Barbara. Barbara subito, entusiasta, approvò.
Ti
feci la proposta. Venire a lavorare come segretaria nel mio studio. Pensavo che
ne saresti stata contenta, forse più che contenta: avresti fatto un lavoro di
maggior prestigio. Avresti guadagnato di più. Ma soprattutto saresti stata a
contatto con me: nella tua timidezza, non ti eri mai dichiarata – ma poi, non
tocca agli uomini? – però io lo sapevo, da anni. Tu avevi una cotta per me. Sin
dall’inizio, e mai ti era passata.
Di
questo Barbara non si era curata. Almeno i primi tempi. Però si sa come siete
voi donne. Sempre sospettose e vigili. E quindi allo studio Barbara presto ha
cominciato a essere assidua. Non solo per offrirmi il massimo della
collaborazione nelle pratiche legali – con scarsi risultati devo dire – ma
anche per tenere d’occhio te. Vuoi vedere
che la bruttina timida cova in seno una seduttiva spregiudicata?
Barbara
ogni tanto, per quanto ce la metta tutta, mi combina qualche pasticcio, rischia
di compromettere l’esito di cause anche importanti. Io devo correre ai ripari.
E la cosa si svolge sotto il tuo sguardo attento, d’improvviso allusivo e meno
prudente del solito. Come se volessi dire, anche se non lo dici: “Tu sei intelligente
e bravo; lei, Barbara, è proprio sciocchina e incapace.” Nel tuo sorriso, al
tempo stesso, ammirazione devota per me, sarcasmo sommesso per lei.
Gli
eventi stanno precipitando. Si è prodotta un’accelerazione.
Barbara
si trattiene più a lungo nello studio, cerca invano di dimostrare di essere
brava, non perde occasione per sminuire il tuo lavoro, per metterti se
possibile in cattiva luce, per alludere alla sua superiorità estetica.
Tu,
Gilda, fai finta di non aver capito. E per contro, appena Barbara deve andare
via, mi dimostri che non sei solo diplomata in ragioneria: pur senza studi
universitari, stai imparando il mio mestiere. In un crescendo prodigioso.
Ma
non è solo questo. Ieri, porgendomi una cartellina, hai toccato con la mano la
mia mano. Sembrava casuale, ma non l’hai ritirata subito. Ti ho lanciato uno
sguardo interrogativo; il tuo era sereno, fermo, tenero, caldo.
Sono
rimasto turbato. Chissà, forse non volevi, ma per qualche secondo mi hai fatto
eccitare.
Oggi,
alla fine di una giornata di lavoro micidiale, mi vedi stanco, che appoggio il
volto fra le mani, piego il capo sulla scrivania per concedermi una pausa
finalmente. Barbara intanto non c’è, è andata a fare il suo solito shopping.
Tu
ti alzi. A passi lenti e leggeri, mi vieni alle spalle. Come se fosse un gesto
familiare, mi poggi le mani sul collo. Tremano. È bello, è emozionante sentirle
tremare. Accenni un massaggio ristoratore.
Mi
giro verso di te, sorpreso e, al tempo stesso, grato. Ti sorrido smarrito. Tu
rispondi con un sorriso ampio, radioso. Sorriso di devozione e seduzione.
Ti
osservo e non mi sembri più bruttina. Dagli occhi ora splendidi ti cominciano a
cadere lentamente lacrime di gioia. Sì, di gioia, perché lo sai, ormai lo sai
quello che sto per dire. Quello che pazientemente hai saputo attendere e
preparare.
Lo
dico, senza sapere quello che dico.