Domenico Gargiulo (Micco Spadaro), La punizione dei ladri ai tempi di Masaniello
di Giacomo Ricci
scena quarta: una macchina nella notte
Mi svegliai sudato, il cuore sobbalzava nel petto. Il dolore era aumentato. Come ogni notte. Alla fine dell’effetto delle pasticche. Un fuoco maligno nella caviglia. Anche se meno accentuato persisteva, rodendo la carne. Non realizzai immediatamente di essere sveglio.
Immagini confuse del sonno fluivano ancora nell’aria, scivolavano lentamente sugli oggetti, sulle volute delle lenzuola che giacevano spiegazzate in terra.
I gatti erano scesi dal letto e si erano sdraiati fuori, sul balcone, a cercare un debole filo d’aria.
Maledette pillole. Dilatavano e torcevano la testa. Nel sonno era come cadere, scendere giù, sprofondare all’indietro, vertigine senza fine. Questione disperata riemergere, sempre. Qualcuno mi tirava verso l’alto da quel pozzo senza fondo con un argano che strideva e un cavo che stringeva furiosamente il piede, a spezzarlo.
Ripresi fiato.
Aveva preso a piovere. L’acqua era venuta giù, di colpo, in grande quantità.
I gatti dal terrazzo fuggirono dentro scrollandosela dalle orecchie.
Sete, la gola secca.
Mi sollevai con infinite precauzioni e zoppicando raggiunsi la cucina. Mentre l’acqua scorreva nel lavello, mi sembrò di udire, nel frastuono della pioggia, voci soffocate, nascoste, gemiti trattenuti.
Prestai attenzione. Salivano da sotto, dalla vanella.
Passai nel bagno senza accendere la luce. La finestra della ragazza era proprio sotto il finestrino del mio bagno. La luce era accesa ma, da quella posizione, non era possibile vedere all’interno. Avrei dovuto, contemporaneamente, essere dall’altra parte della casa, nell’ingresso. La vanella faceva, però, da cassa acustica e, in condizioni normali, si udiva proprio tutto.
Ora la pioggia con il suo rumore copriva ogni suono.
La sua voce e un’altra di uomo, decisa, roca, che scandiva volutamente le sillabe con lenta cattiveria. Non riuscivo a decifrare il significato delle parole che pronunciavano in fretta.
Si mescolavano in un brontolio diffuso, sordo, monotono come il rumore di un motore appena acceso. Ogni tanto la sua voce si alzava di tono quasi a diventare acuta.
«Non posso ... non ancora ...» mi sembrò che dicesse.
Restai in ascolto. Un’inquietudine mi aveva assalito senza alcuna ragione. Un rumore secco, improvviso, uno schiaffo o una porta chiusa con impeto.
Poi la pioggia aumentò di violenza.
Nient’altro.
Forse dormivo, sognavo, rincoglionito dal dolore e dai sedativi. E, poi, le loro storie di miseria, miscugli di urla, percosse e bestemmie. Perché meravigliarmene proprio ora?
Ero venuto per studiarli, non per farmi coinvolgere dalle loro passioni. Cavie. Non erano niente di più per un antropologo in vena di scoperte come me.
Trascinando il piede tornai nella stanza da letto. Diedi uno sguardo all’orologio. Le tre.
Notte ancora lunga da passare.
Ma il caldo almeno si era in parte disciolto nella pioggia che continuava a cadere fitta.
Udii, prima di riaddormentarmi, una macchina allontanarsi nella notte sgommando con rabbia.
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