Consigli ai giovani scrittori
un libro di Hanif Kureishi
Hanif Kureishi
di Giacomo Ricci
Ogni tanto mi capita tra le mani e, ogni volta, è una scoperta.
Mi riferisco a un piccolissimo libretto di Hanif Kureishi, dal titolo Da dove vengono le storie?. Un titolo che affascina e invita subito alla lettura, che si fa in tempo rapidissimo.
Una discussione scritta con parole molto semplici che va diritto alla radice del problema e non manca di una sua certa commozione.
La storia è presto detta. Partendo dall’esperienza del padre, pakistano emigrato in Inghilterra e scrittore in nuce, Kureishi sa andare al fondo della questione “perché scrivere” in maniera immediata, essenziale, esemplare.
Innanzitutto il padre e la sua volontà di essere scrittore. “Mio padre - esordisce Kureishi - voleva essere uno scrittore. Non ricordo ci sia stato un tempo in cui non lo abbia voluto. C’erano poche mattine in cui non si mettesse seduto alla sua scrivania - presto, circa alla sei - con indosso uno dei suoi abiti, i polsini chiusi da gemelli, prima di andar al lavoro con la sua valigia insieme agli altri pendolari”.
Inutile dire che lo fa per tutta la vita, sempre frustrato, vedendo i manoscritti dei suoi romanzi rifiutati dagli editori, e sempre di più accanito nel tentativo di scrivere, con i suoi rituali obbligati e ripetitivi.
Agli occhi del figlio, che lo guarda con amore e tenerezza, la sua ostinazione, la sua ossessione, assume un che di eroico e patetico allo stesso tempo. Ma è anche un motivo per interrogarsi sulla scrittura e i suoi paradossi, sul perchè, sul come, sul quando e con quali mezzi si diventa scrittori. E, soprattutto, da dove vengano le storie.
Il punto più delicato della storia del padre è che, forse, era lui stesso a non credere nelle sue possibilità creative e qui, con forte probabilità, c’è la ragione del suo insuccesso. Perchè il problema capitale è quello di “convincere te stesso”, perchè “è solo quando ti darai completamente al tuo lavoro che riuscirai ad andare da qualche parte”.
Ma la questione fondamentale, la domanda a questo punto è: “Come si arriva a quel punto?”. E come si superano i paradossi di una condizione, quella dello scrittore, che deve essere sufficientemente determinato ad andare avanti e a credere nelle sue possibilità, stando attenti a non sbagliare? Uno scrittore non si può permettere di sbagliare perchè ogni fallimento “ti rende ancora più debole”. “Ma se non sbagli non arrivi da nessuna parte”.
Il paradosso è tutto nel fatto che “devi sentirti libero di scrivere male, ma ci vuole fiducia per capire che in un certo senso la cattiva scrittura può garantire la buona scrittura, che la quantità può portare alla qualità”.
Partendo da questa contraddittoria situazione di dubbio Kureishi si muove per capire le ragioni, il complesso di frustrazioni, le motivazioni che spingono un individuo alla scrittura.
Sono le cose più semplici che ti circondano, quelle che lui definisce la “periferia” che costituiscono il background della scrittura. E’ da questo territorio che parte l’esperienza della scrittura e la determinazione a scavare, a indagare. Dove? Dove dissodare sentimenti e pulsioni? Partendo da se stessi, dal proprio inconscio, area pericolosa e turbolenta dove iniziano le nostre pulsioni e i nostri sentimenti. Il che provoca sofferenza.
“Se gli artisti soffrono non è solo perchè il loro lavoro comporta sacrificio e dedizione, E’ perchè viene chiesto loro di avere uno stretto contatto con l’inconscio, E l’inconscio, bruciante di desiderio com’è, è ingovernabile”.
Le pulsioni ingovernabili e represse si nascondono all’interno di ognuno di noi. Lo scrittore deve tentare di conoscerle e governarle. Il che significa anche sperimentare un buon metodo che permetta di scrivere, sulla pagina bianca, il flusso magmatico che viene dal profondo.
Scrivere è un modo per capire e sopportare la solitudine. E credere che quello che stai facendo sia utile a te e agli altri. E' solo se ci credi che gli altri ti prenderanno sul serio. “Ad alcuni scrittori piace immaginare che la difficoltà nel diventare scrittori stia nel convincere gli altri che è questo quello che sei. Ma in realtà il problema è convincere te stesso”.
Kureishi insomma scava tra le pieghe della fantasia e dei dubbi che assalgono chi scrive e, leggendo le sue parole, proviamo un profondissimo senso di identificazione e di comunanza di problemi e domande. Ma la contropartita a questo mondo tormentato di dubbi, ripensamenti e contraddizioni, è affascinante perchè la scrittura “è un modo attivo di prendere possesso del mondo”. Il senso è di sentirsi onnipotente al posto di recitare il ruolo di vittima.
Ma perchè questo miracolo accada e si acquisti consapevolezza del proprio ruolo e del proprio significato c’è bisogno di comprendere che scrivere significa mettere in luce la vita “come qualcosa di cui vale la pena parlare”.
E conclude con un’affermazione che mi sta particolarmente a cuore perchè è una sorta di risposta alla letteratura d’accatto che oggi trionfa.
“E’ per questo che la letteratura da aeroporto o i libri ‘blockbuster’, che sono puro intreccio e basta, non possono mai essere considerati letteratura, ed è per questo che, alla fine dei conti, valgono poco. Non è solo che la lingua in cui sono scritti manchi di vivacità e acutezza, ma il fatto è che non restituiscono al lettore la varietà e la complicazione dell’esistenza”.
Parole incredibilmente adatte a descrivere la realtà della maggior parte dei libri in circolazione e che ci costringe a chiederci il perchè. Si trattasse di un piano per non farci più pensare e soffocarci con choc, effetti speciali e vuoto intellettuale? Che ci volessero neutralizzare, azzerare la nostra mente?
Ah, a proposito, che ne è del padre di Hanif Kureishi? Non diventa scrittore. Anzi, combattuto dal successo del figlio proprio nel campo in cui avrebbe voluto emergere, un po' ne è felice e un po' è pieno di rammarico per se stesso.
Ma io credo che lui, come padre, dovrebbe andare fiero. E' riuscito pienamente nel suo compito. Ha mostrato al figlio qual è l'errore più grande che uno scrittore può compiere e, cioè, non avere fiducia in se stesso e non permettersi di mandare a quel paese qualsiasi altra occupazione. Perché è indispensabile fare questo. Per essere scrittori non lo si può essere part time. Ma in una cosa ha avuto successo. Come padre il suo esempio educativo è stato perfetto. Un grande padre di cui il figlio conserva un ricordo indimenticabile e una stima grande, come padre non solo ma anche, e soprattutto, come sperimentatore, scrittore che non demorde mai dal suo obiettivo.
C'è di che imparare.
Ah, a proposito, che ne è del padre di Hanif Kureishi? Non diventa scrittore. Anzi, combattuto dal successo del figlio proprio nel campo in cui avrebbe voluto emergere, un po' ne è felice e un po' è pieno di rammarico per se stesso.
Ma io credo che lui, come padre, dovrebbe andare fiero. E' riuscito pienamente nel suo compito. Ha mostrato al figlio qual è l'errore più grande che uno scrittore può compiere e, cioè, non avere fiducia in se stesso e non permettersi di mandare a quel paese qualsiasi altra occupazione. Perché è indispensabile fare questo. Per essere scrittori non lo si può essere part time. Ma in una cosa ha avuto successo. Come padre il suo esempio educativo è stato perfetto. Un grande padre di cui il figlio conserva un ricordo indimenticabile e una stima grande, come padre non solo ma anche, e soprattutto, come sperimentatore, scrittore che non demorde mai dal suo obiettivo.
C'è di che imparare.