di
Giacomo Ricci
Furore - Case monovano nel Vallone della Praia
Ero
andato a fare la spesa.
Pasqualino,
sua madre e la loro bottega, a Furore, sono un punto fermo nella vita
quotidiana di tutti i paesani. Li vedi ogni giorno, come fossero persone di
famiglia, perché ci compri il latte, il pane, il formaggio, il vino, i
biscotti. Un sorriso cordiale, tre parole e hai comunicato umanità e il piacere
di vivere.
E,
poggiata sul banco frigo, ho visto la locandina.
Il
titolo a caratteri grandi mi ha colpito.
Raccontare
Furore.
Poi,
più sotto:
“Seminario
di due giorni, chi volesse partecipare deve comunicare la sua adesione …”.
Bello
raccontare un paese. Se poi è quello nel quale si vive, è anche interessante,
quasi una cosa dovuta. In particolare per uno come me che di Furore ha studiato
tutto, o quasi.
Io ho
già raccontato Furore. Tempo fa.
Ho
scavato nelle sue storie, nelle case, tra gli alberi e la campagna, ho
camminato per i suoi sentieri, mi sono arrampicato per le sue rocce, ho
percorso il Fiordo e le sue costruzioni protoindustriali. Sono andato alla
ricerca delle case più vecchie, ormai abbandonate, semplici rifugi di pastori,
quelle per metà infilate nelle grotte, rupestri, assai antiche. Le ho rilevate,
misurate, disegnate, fotografate. Ci ho ragionato su, le ho, in qualche modo,
rivissute, immaginate di nuovo. Ho visto, pallidi riflessi della memoria, i suoi abitanti e la loro vita dura,
aggrappati a una roccia ventosa, aperta verso il mare.
Ho
salito le sue scale dalla strada costiera in basso fino in cima, ad Agerola, scoprendo angoli nascosti e
vedute inaspettate.
E poi
ho studiato i suoi panorami. Come fossero quadri da incorniciare. Perché
meritano questo. Che uno li incornici nella sua memoria. Per sempre.
Non
amo le parole che si usano nelle guide turistiche. Né le facili celebrazioni di
cui sono piene. Ma qui ce n’è veramente da vendere. Di bellezza, intendo.
Un
trionfo di natura, sole, mare e cielo.
L'infinito del mare e del cielo a Furore
Un
quadro come quelli di Salvator Dalì, di infinite distese sotto cieli azzurrissimi
da rasentare il surreale, il non vero.
Ecco,
qui i colori naturali fanno impallidire il genio del pittore spagnolo. Sono più smaglianti. Brillano negli occhi e
aprono il cuore. Non avete mai provato a sedervi sotto una grande quercia, in
un sentiero dimenticato, con gli uccelli che vi cantano sulla testa e lo
sguardo che si perde verso la linea d’orizzonte? Io sì. L’ho fatto. Ho seguito
il consiglio di Robert Walser, scrittore che ho nell’anima. La sua poesia
semplice e profonda mi ha sempre commosso.
E non
trovo parole per descrivere. Bisogna sentire, provare, aprire il cuore e la
mente. Il linguaggio stenta ad arrivarci.
Furore - Sentieri e alberi
Forse
è anche per questo che vivo a Furore da
più di dieci anni. Perché qualcuno mi
coinvolse in un progetto di ricerca che aveva come scopo quello di raccontare
il paese.
Mi ci
infilarono per la mia competenza informatica.
Si
doveva costruire un ipertesto. E nessuno sapeva come fare. Per la verità anche
le idee dei miei amici ricercatori erano sufficientemente confuse.
Io ero
entrato a far parte di un gruppo di ricerca ad alto livello che aveva come
scopo la costruzione del museo virtuale di Napoli, con una convenzione tra
Università e l’Istituto di Cibernetica del CNR.
E
avevo imparato a masticare di link e nodi, di metadati e strutture semantiche,
di grafi ad albero, circolari e di reti, di ricorrenze tematiche, di motori di
ricerca e così via.
So che
oggi sembrano bazzecole per bambini. Ma stiamo parlando di quindici anni fa.
Internet era un miraggio per pochi eletti iperspecialisti e FaceBook non
l’avevano ancora inventata.
Così
costruii un ipertesto. Abbastanza complicato, con interrelazioni, rimandi,
filmati, scritti, riflessioni, brani di testo, immagini, disegni. Ma, alla
fine, il mio non era altro che un racconto. Un percorso concatenato, come mi
piaceva dire.
La
tecnologia, molto spesso, nel campo delle idee
si limita al ruolo di sovrastruttura. Alla fine sono ancora (per poco)
le idee che contano. Per nostra fortuna.
Il mio
racconto piacque. E a me e alla mia famiglia piacque il territorio furorese.
Lasciammo Napoli e la nostra casa. Ci trasferimmo a vivere. Ed eccoci qua.
Paesani di Furore.
Viviamo
in una casa bellissima. Una casa contadina tradizionale della costa,
ristrutturata ma, in buona sostanza, lasciata com'era. Fatta di pergolati,
terrazzi, campagna, alberi da frutta, vedute, cielo, glicini e buganvillee,
viti, limoni, melograni e giuggioli, edere, gatti e cani. E su tutti, un pino
secolare.
Il
vero artefice dell'ordine domestico, della sua forma e della sua armonia è,
ovviamente, mia moglie. Io svolgo, quando ci riesco, il ruolo di garzone. Mi
piace osservarla quando decide, cambia, organizza, dirige qualcuno che ci dà
una mano in campagna o fa opera di manutenzione. Instancabile, decisa, irremovibile, una forza della natura. Spianta alberi, traccia solchi, mette a dimora piantine, pomodori, seleziona sementi, infila merletti alle finestre, cuscini ricamati suoi divani, fa pizze con lievito madre fatto da lei, addomestica glicini, cambia direzione alle buganvillee, decide colori, sceglie ornamenti, suppellettili, cornici. Seguita, in tutti i suoi movimenti, da una truppa di cani e gatti che vivono alla sua ombra, incuranti anche del sole, bastando loro il calore e l'affetto della loro padrona.
Ma la
mia funzione di narratore, almeno quella, è ancora utile a tutti noi. Almeno io
lo credo.
A dire
il vero a casa nostra, ma, più in generale, a Furore e in tutta la Costa
d'Amalfi, sono le cose a raccontare storie e avvenimenti passati.
Basta
saperle ascoltare, interpretare i segni che ci comunicano. Vivendo qui, ho
imparato a farlo, almeno un poco.
Il
grande pino se ne sta dal lato che affaccia sul Fiordo. Maestoso. Ha più di
centocinquant'anni. Lo piantò, la notte di Natale, come la tradizione vuole, la
bisnonna di Vittorio, il signore emigrato negli States, che ci ha venduto la casa.
Le
gentile signora, quando piantò il pinolo nella terra, si
chiese: «Chi lu sape si è durese o mullese (Chi lo sa è duro o morbido)». E già. Il guscio può
esser duro o morbido.
Ma non
fece a tempo a saperlo. Lasciò questa vita prima che il pino fosse grande
abbastanza per dare frutti.
Che
sono spessi, durissimi. Per aprire un pinolo è necessario un un colpo ben
assestato di martello.
Ma,
per me, i suoi pinoli sono i più buoni del mondo.
Il
pino ha un'anima. Per me è ovvio che gli alberi abbiano un’anima. Proprio come
la nostra. Se non più complessa e con un
linguaggio difficile da interpretare per i mezzi limitati degli uomini.
Ma qui
lo ripeto con una certa enfasi, perché la
nostra epoca ha dimenticato molte cose della natura. Ed è perché ha dimenticato troppo in fretta
da dove viene che le agisce contro, con spietata determinazione.
Con la
sua anima e il suo sentire il pino veglia sulla casa e la sua terra. Come
facevano le vecchie divinità pagane del “limite”, nascoste sotto le grandi
pietre di confine. Mi ha sempre raccontato la storia della casa, delle persone
che l’hanno abitata prima di noi.
Ma mi
racconta anche storie dell’aria e dei falchi che volteggiano in alto. Dei corvi
neri che volano sempre a coppie lanciando il loro verso rude verso il cielo,
dei tenerissimi uccelli appena nati nei nidi nascosti nel groviglio dei suoi
rami in alto, della terra che le sue radici lunghissime attraversano arrivando
ad uncinare la roccia sul fondo. Mi racconta dei lombrichi che rendono fertile
questa terra in alta quota, degli esseri infinitesimi che la abitano, del ciclo
continuo delle foglie che cadono e si macerano, dell’acqua che attraversa i
muri a secco e scende fino a mare.
Lo fa
d’inverno quando il vento passa sibilando tra i suoi rami e la sua grande
chioma s’inchina verso il mare. Fa proprio come il vento di cui parla Andersen
nella sua bella favola Il vento racconta di Waldemar Daa e delle sue figlie.
Giù, sotto, verso il capo di Conca, le
onde altissime si spingono fino alla base della vecchia torre aragonese.
Anche
le onde parlano d’inverno, con voce grossa, feroce.
Il
vento fugge veloce sibilando nella grande insenatura del Fiordo e se ne sale,
rotolando sulla parete rocciosa verso San Lazzaro.
Ma il
pino mi permette anche di raccontarvi la storia di un luogo e di una “casa”
singolari di Furore.
Mi
permette di inventarne la storia. Il sito è quello di Centena e la casa è
quella nell’immagine. L’ho visitata per
una ricerca che mi commissionarono qualche anno fa. Ma chi me la mostrò per primo fu Raffaele Ferraioli, sindaco di Furore. Me la mostrò come si fa con un gioiello di famiglia, una cosa preziosa.
Fa parte di quei luoghi della Costa che si è convenuto di chiamare “rupestri” perché, della rupe alla quale se ne stanno addossati, sfruttano le caratteristiche e perché, spesso, rappresentano un ampliamento di una grotta o di una cavità preesistente.
Fa parte di quei luoghi della Costa che si è convenuto di chiamare “rupestri” perché, della rupe alla quale se ne stanno addossati, sfruttano le caratteristiche e perché, spesso, rappresentano un ampliamento di una grotta o di una cavità preesistente.
Quasi tutte le case di Furore hanno questa caratteristica di sfruttare una parete rocciosa
verticale e un incavo roccioso della
stessa per ricevere, in alto, una sorta di protezione.
Furore - La casa rupestre del sito Centena
La
casa di cui parliamo è di un solo vano coperto con tre aperture: due porte, una
ad est e l’altra a ovest, e una finestra verso sud. La parete a nord è
costituita dalla roccia viva, lasciata così com’è all’interno, più o meno
sbozzata.
Per
descrivere questo insediamento è necessario un architetto che faccia lo
scrittore o di uno scrittore che ami l’architettura. Perché richiama, per la
sua scarna essenzialità strutturale, tutto il mito della capanna primitiva di
vitruviana memoria che fu ampiamente ripreso nella manualistica
dell’architettura a partire dalle prime opere enciclopediche di stampo
illuminista.
Casa rupestre di Centena - scala sul retro
Questa
casa è, a un tempo, elemento archetipico classico ma anche trattato, manuale di
architettura, per tutte le tessiture murarie che il tempo ha scoperto,
lasciandole in vista; per i materiali che adopera che sono tutti "naturali":
calce, sabbia, pietra calcarea, lapillo pestato per costruire lo strato impermeabile della copertura, legno per gli architravi delle porte, lapillo e
pietre per i gradini, travi di castagno a reggere il tetto. Tutto in vista, con una straordinaria patina dorata che il
tempo ha conferito alle malte, agli intonaci, alle pietre, agli attacchi, alla
voltina ad arco che regge la scala, all’interno che somiglia più a una scultura in
pietra viva che non a un vano.
Casa rupestre di Centena - arco di sostegno della scala
Mirabile
povertà che si trasforma direttamente in opera scolpita dall’uomo e dagli anni
come fosse proprio un’opera di Moore, direttamente cavata nella pietra viva.
Un
mito, più concettuale, logico, fondativo di una disciplina che storico, quello
della capanna primitiva che qui vediamo materializzarsi davanti ai nostri
occhi.
La
concretizzazione dell’altro mito dell’uomo immerso nella natura che vive da
solo un’esistenza eroica e alla ricerca di sé. Come scrisse Henry David
Thoreau:
“Andai
nei boschi perché volevo vivere con saggezza e profondità e succhiare tutto il
midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita! E non scoprire, in
punto di morte, che non ero vissuto”.
Certo,
si potrebbe obiettare che l’uomo del rifugio di Furore ha vissuto in condizioni
estreme non per sua scelta ma per condizioni ambientali al contorno, per una
radicata struttura collettiva della quale non abbiamo più ricordo e che quella casa, più che casa
sembra il rifugio di un pastore. Mentre invece quella di Thoreau è una precisa
scelta filosofica con grandi valenze ideologiche di condanna della società
moderna e delle sue nefandezze.
Casa di Centena - interno
Ma -
come dire? - l’importanza di un segno
ambientale e il suo trasformarsi in simbolo agli occhi di chi tenta di leggerne
il significato, non sta tanto nel valore in sé quanto in quello che acquisisce
dal contrasto con l’ambiente e la società in cui è immerso.
Io,
con gli occhi di un uomo di oggi, vissuto per quasi tutta la sua vita in una
grande città caotica e affollata, non
posso non cogliere in questo simbolo il richiamo verso un profondo significato
originario dell’abitare.
E mi
viene in mente la definizione che ne dà Heidegger quando dice che l’abitare
dell’uomo su questa terra non può non essere se non all’ombra di quattro grandi
principi raccolti nelle parole: cielo, terra, mortali e immortali. Il vivere,
per Heidegger è piuttosto un colere, coltivare il campo e la vite (e
soprattutto se stessi), sotto il cielo e la terra, rispettandone norme e
confini, all’ombra dei mortali, cioè di tutta la collettività di cui si
rispettano i principi e le leggi, e gli immortali, gli dei, Dio o i nostri
antenati di cui rispettiamo la memoria e le tradizioni.
Così
la casa solitaria di Centena assume, per
me, un grande significato simbolico e parla della vita e del senso di tutta la
storia passata che sembra, oggi, irrimediabilmente perduto nell’assurdità della
vita metropolitana.
E
vengono in mente le teorizzazioni di Georg Simmel nel suo splendido saggio del
1910 Die Grossstadt und Geistesleben (La Metropoli e la vita spirituale) dove,
analizzando il senso del vivere metropolitano, basato sulla continua
intensificazione della vita nervosa a causa di choc sempre più potenti per
attirare l’attenzione nella grande confusione generale, lo Spirito, proprio
degli antichi e del loro modo di vivere, perde di consistenza a vantaggio
dell’intelletto e dell’atteggiamento cinico e disincantato degli uomini.
E
prende consistenza anche la paura di cui parla Poe nel suo L’uomo della folla,
quando mostra come il singolo individuo tenda sempre più a spersonalizzarsi nel
fluire magmatico e incessante della folla metropolitana che, come un fiume,
tutto travolge per le sue strade, giorno e notte, senza mai fermarsi.
La
casa di Centena con la sua fontana che raccoglie l’acqua che stilla goccia a
goccia dalla rupe e la sua scala sospesa che s’arrampica veso l’alto e, la sua
finestra aperta verso l’infinito del cielo che si tocca con il mare, ci parla di
un’altra vita, un’altra soluzione, una scelta di campo e di un nuovo dialogo
con la natura.
E il
vento passa fischiando tra i rami mentre il vecchio pino mi racconta questa ed
altre storie di Furore.
Giacomo Ricci vive a Furore da molti anni.
Ha svolto numerosi studi e ricerche su questo paese.
I più importanti sono:
La costruzione de Il fiordo di Furore, ipertesto narrativo sul paese e le sue storie (2000)
Ha costruito il Museo virtuale del Fiordo di Furore (2001)
Ha scritto:
Itinerari narrativi tra realtà e simulazione, Liguori, Napoli 2006
Amalfi, Furore, Ravello. L'architettura del paesaggio costiero, Giannini, Napoli 2007
Ha progettato il Parco Urbano Sant'Agnelo in Furore, zona San Michele (illustrato nel saggio Il parco Sant'Agnelo, pubblicato nella collana ArchigraficA Paperback) (2007-08)
Ha diretto, con Maria Russo, l'Inventariazione e rilevamento dei Siti rupestri della Costa d'Amalfi (2009)
Ha pubblicato nella collana ArchigraficA paperback il saggio La virtù della pietra. Siti rupestri in Costa d'Amalfi. (2010)
Ha progettato il Piano dell'Immagine Panoramica di Furore, adottato come strumento di lavoro dalla Soprintendenza ai BB.AA.AA.PP di Salerno (2010).
Giacomo Ricci vive a Furore da molti anni.
Ha svolto numerosi studi e ricerche su questo paese.
I più importanti sono:
La costruzione de Il fiordo di Furore, ipertesto narrativo sul paese e le sue storie (2000)
Ha costruito il Museo virtuale del Fiordo di Furore (2001)
Ha scritto:
Itinerari narrativi tra realtà e simulazione, Liguori, Napoli 2006
Amalfi, Furore, Ravello. L'architettura del paesaggio costiero, Giannini, Napoli 2007
Ha progettato il Parco Urbano Sant'Agnelo in Furore, zona San Michele (illustrato nel saggio Il parco Sant'Agnelo, pubblicato nella collana ArchigraficA Paperback) (2007-08)
Ha diretto, con Maria Russo, l'Inventariazione e rilevamento dei Siti rupestri della Costa d'Amalfi (2009)
Ha pubblicato nella collana ArchigraficA paperback il saggio La virtù della pietra. Siti rupestri in Costa d'Amalfi. (2010)
Ha progettato il Piano dell'Immagine Panoramica di Furore, adottato come strumento di lavoro dalla Soprintendenza ai BB.AA.AA.PP di Salerno (2010).