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ebook di ArchigraficA

lunedì 20 maggio 2013

La città del Sole



Frontespizio de La città del Sole di Tommaso Campanella




Ho ricevuto due mail da due miei studenti. Le riporto qui perchè mi sembrano importanti per costruire una sorta di risposta che dobbiamo articolare come contributo a una possibile uscita dalla crisi che ci sta mordendo le caviglie. 
Ho risposto come ho potuto. 
La risposta, ripeto, non può che partire dai giovani studenti. Da coloro che più soffrono di questa incredibile e insopportabile situazione che l'Italia sta attraversando.
Io spero, anzi credo, che ci sarà una risposta collettiva, sapiente, colta, intelligente, articolata, un progetto, come amiamo dire noi architetti, che possa aiutare ad avviarci verso la risoluzione della crisi che stiamo attraversando. 
Perchè non so come, nè so quando, nè con quali mezzi. Ma sono certo che una risposta la troveremo. Anzi la troverete. 
Ma ecco le mail. Le trascrivo come sono perché credo che lo stile, le parole siano molto importanti per capire come i giovani comincino a non stare più al gioco al massacro che la vecchia generazione non si decide ad abbandonare.

Ma ecco la prima mail:

Salve professore, 
sono un suo allievo. Ero in aula venerdì scorso ed ho ascoltato la sua ''parentesi''. 
Conosco già il suo punto di vista e le dico che condivido la sua posizione. 
Le confesso, però, d'aver provato un forte dispiacere nell'ascoltare le sue parole; non posso credere che lei, proprio lei, uno che fa parte della ristrettissima categoria di docenti che stimo e che meritano di stare dietro quella cattedra, abbia deciso di chiudere definitivamente con l'insegnamento. 
Siamo nel 2013 ed io sono uno studente insoddisfatto della facoltà di architettura della Federico II. Conosco molto bene il senso di alienazione e di smarrimento che può trasmettere non solo la nostra facoltà, ma la condizione storica e sociale di cui si fa specchio. Vado in facoltà tutte le mattine per pura passione. 
Non penso al mio futuro, non riesco a vederlo e forse nemmeno me ne frega di vederlo, progettarlo, ipotizzarlo. 
Non ho nè parenti nè amici architetti, nessuno sa se un giorno praticherò davvero questa professione. So che vivo adesso e so che la mia dignità sta nella speranza/illusione che in un modo o nell'altro, il modo in cui ho deciso di stare al mondo, possa contribuire un giorno a cambiare le cose. 
Col tempo si diventa sicuri di sè, si comincia a credere di essere all'altezza dei propri sogni e, poi, ad un tratto, ci rendiamo conto che i nostri sogni non sono alla nostra altezza: non per presunzione, ma perchè impariamo a scindere la realtà dalle illusioni. 
Tuttavia, esiste la speranza o, se preferisce, la ''mancata rassegnazione'' che ci spinge a continuare. 
Cerco sempre di soddisfare le mie curiosità: leggo appena posso, seguo conferenze e documentari, parlo con tanti e mi confronto. 
Mi rivedo nelle sue considerazioni, nella sua rabbia, nel suo disagio. Credo che la mia generazione abbia la necessità di confrontarsi ancora con persone come lei, con gente che non inculca dogmi, ma ama accendere in noi passione, sete di conoscenza, rabbia e, ciò che più conta, CURIOSITÀ. 
Credo che di sapientoni accademici ce ne siano fin troppi nelle nostre aule e credo che a diffondere risposte preconfezionate siano tutti bravi. Sono pochi, invece, quelli che come lei ci pongono interrogativi e ci spingono ad usare l'unica arma che abbiamo per liberarci dalla condizione di schiavitù in cui siamo nati: LA NOSTRA MENTE. 
Non badi ai numeri, anche uno solo può fare la differenza
Probabilmente, ha già messo in moto tante coscienze, ma anche per una sola persona che beneficia del suo insegnamento, che riconosce se stesso nelle sue parole e desidera, come lei, una condizione diversa, vale la pena di venire in quella deludente facoltà!

P.S. Avrei voluto optare per la forma anonima per evitare equivoci che potrebbero alimentare, tra le infime file dei miei colleghi, tante belle cavolate sul mio conto e sullo scopo di questo messaggio, ma confido nella sua discrezione e nelle sue capacità di valutazione. Vorrei, inoltre, che lei scorgesse le mie parole in ognuno dei volti che si troverà davanti nelle prossime lezioni. So di non essere l'unico, ne sono convinto. Mi auguro che queste parole riusciranno a trasmetterle qualcosa.

Grazie di tutto.
A presto.



Paolo Scarpati


Ed ecco la seconda mail:


Salve professore,

Avrei voluto scriverle prima, ma si corre sempre e non ho trovato la calma per rispondere. Ho letto La Capria e mi è piaciuto tanto, credo di essermi più volte immersa e persa nel racconto, così intimamente vero. 

Ognuno di noi può rivedersi in quella donna e il quell'uomo, nella loro tristezza, malinconia e solitudine. Mi permetto di dirle che mi ha toccato molto da vicino! 
A volte, la lettura ti mette davanti agli occhi vicende scritte da altri, fatti di altre persone descritti in un modo talmente vero che ti senti pizzicato nell'anima, poi ti accorgi che "non sei tu", allora leggi e ti dà sollievo il solo fatto che qualcun altro prova delle emozioni, simili alle tue, che forse non è stupido guardare ancora il cielo ed emozionarsi, che forse cercare in un compagno, in un amico anche solo un sorriso  di complicità può aiutarti a farti trascorrere una giornata serena. 
Allora non servono telescopi per evadere.
Ecco, professore, le volevo dire anche questo

... Ho ascoltato le sue parole a lezione e mi si è stretto il cuore, al punto di non aver avuto la forza di alzarmi e dirle che non era assolutamente giusto che quel maledetto passo indietro lo facciano puntualmente le persone che più di tutti hanno senso di stare nel posto in cui sono, che persone come lei ce ne sono pochissime (forse due) in quella facoltà ed è tristissimo pensare che nessuno possa fare niente per scuotere quelle menti. 
Capisco che lei per avere la forza di crederci ancora ha bisogno di noi, ma noi ancor di più abbiamo bisogno di lei, di un 'padre intellettuale'  (me la faccia passare!), di una guida, di un punto di riferimento.
Basta con quei professoroni che credono di sapere chissà cosa e fanno rivoltare Socrate nella tomba perché davvero non sanno nulla,anzi, hanno il cervello a compartimenti stagni.
Sarebbe una buona idea farli accomodare alle sue lezioni, non fosse altro che per distogliere un po' la loro mente dalle solite manfrine accademiche.
Perdoni le mie chiacchiere, ma in questo momento, ripensare alle sue parole mi ha turbato. Mi auguro che tutti noi possiamo ancora per tanto tempo godere delle sue lezioni, della sua cultura, intelligenza, ironia, simpatia e sensibilità.
Con tutto il cuore GRAZIE



Maria Rosaria Melisi


Inutile dire che mail come queste riempiono di gioia e restituiscono il senso del proprio lavoro universitario. 
Ho risposto così:


Cara Maria Rosaria, Caro Paolo 

scusate la confidenza. Ma ho sempre chiamato per nome gli studenti. Da quando ero giovane come voi. O quasi.
Lo faccio perché la comunicazione sia più diretta, senza tanti schermi che allontanano.
D’altro canto gli antichi non conoscevano il “Lei”.
E, a parere mio, erano molto meglio di noi.
Io sono molto contento delle vostre parole. Restituiscono il senso alle mie azioni. E, con la confusione che regna, non è poco.
Almeno mi dicono che una parte di quelli con i quali interagisco accolgono quello che dico e capiscono il mio punto di vista.
Perché dico questo? Perché sono sempre più angosciato da quello che succede, da quello che sento. Dallo stato di prostrazione di un popolo intero che non riesce a tracciare una strada per venir fuori dalla crisi che stiamo vivendo. 
Sarò estremamente sintetico: credo che la palla debba passare a voi.
Che siate i soli, quelli della vostra età, quelli che ancora provano a studiare, che credono che coltivare pensieri e la mente sia un’operazione importante, a dover indicare come uscire dal fosso nel quale siamo caduti.  
Dovreste essere tanti, organizzati, decisi e prendere direttamente in mano la situazione.
Senza più piangersi addosso.
Cioè: che cosa dobbiamo fare per risolvere, per avviarci verso la soluzione, anche se questa viene tra vent’anni? Come lavorare nel poco, nel niente che il quotidiano ci offre?
Dobbiamo discutere, rimboccarci le maniche, mandare a casa un’intera classe politica di corrotti che ha fatto il suo tempo?
Dobbiamo pagare il debito pubblico? E che sarà mai? Lo pagheremo. A poco alla volta. Basta che ci diano credito. Basta che ci diano il tempo. Basta accordarsi. Basta inventare un espediente. Basta modificare le regole capestro che stanno riducendo il nostro pianeta al lumicino. 
Basta capire, noi tutti, che il consumo non può più essere sfrenato come un tempo. Basta capire che la crescita, come usano dire, non può essere all’infinito. La crescita va controllata. Basta che impariamo a vivere senza il consumo sfrenato che ci hanno imposto per ragioni di mercato e di profitto fino a stamattina.
Basta capire che, per la vita, una vita piena di senso e significato, tanto consumo non serve. Anche se ci hanno detto che era indispensabile. Hanno trasformato il consumo in valore e i valori che avevano costruito i nostri bisnonni in merda da rifiutare.

Bene. Facciamolo. E cominciamo daccapo. O almeno cominciamo a farlo, a pensarci.
Io credo che un popolo intero abbia la forza e tutte le potenzialità per uscire da qualsiasi crisi.
Si tratta di deciderlo. Si tratta di togliere definitivamente la fiducia a coloro che hanno distrutto il nostro bel paese.
Si tratta di capire che siamo, dico siamo e lo sottolineo, uno dei popoli più creativi e forti di tutta la storia dell’umanità.
Abbiamo ereditato la cultura greca, la loro filosofia, la loro sapienza. Abbiamo costruito l’impero romano che ha dominato il mondo.
Abbiamo costruito l’arte più importante che l’umanità abbia avuto la forza di concepire.
Come dice La Capria, vergognarsi di essere italiani ? Ci si vergogna di "Michelangelo? Di Caravaggio? Di Dante e petrarca, dell'Ariosto e di Leopardi? Di Galileo, di Vico, di machiavelli?".
E abbiamo una patria che è stata costruita sul sangue e la morte dei nostri bisnonni.
Lo so che sono parole che possono suonare retoriche e vuote. Perché sono state svuotate di senso da un’intera generazione cinica e ladra che ci ha privato della nostra memoria.
Ma invece abbiamo nelle nostre mani la forza e le potenzialità, tutte, del nostro futuro.
E sta a voi. Le giovani leve che si formano all’Università.
Che cosa dovete fare?
Parlare, parlare, parlare, parlare. Tra voi. Pensare, parlare, con tutti. Fare sentire ad ognuno di noi che ci siamo. Che pensiamo. Che non siamo d’accordo. Che è necessario cominciare daccapo. Di nuovo.
Il futuro sta là e ci aspetta. A portata di mano.
Non lasciare mai soli quelli che sentiamo nostri amici e che sentiamo hanno la forza, la voglia di continuare in questo processo di uscita fuori dalla crisi.
Come popolo abbiamo passato momenti ben peggiori.

Io penso sempre agli Amalfitani del 500 dopo Cristo. Erano un popolo di marinai. Sconosciuti.
Amalfi è piccolissima. Un decimo di uno dei quartieri più piccoli di Napoli. Se la paragoniamo ai Quartieri Spagnoli ne rappresenta solo una piccolissima frazione.
Ha alle spalle alte montagne invalicabili. Non ha terra da coltivare, ma soltanto roccia.
Quando un gruppo di esuli si rifugiò sulla costa al riparo dai Monti Lattari, lo fece per sfuggire alla ferocia dei barbari che uccidevano chiunque si trovasse sul loro cammino.
Erano soli, pochi, con il mare davanti e senza terra per sopravvivere.
Immagino che se la videro brutta. Se si fossero pianti addosso non sarebbero diventati i protagonisti di un vero e proprio miracolo.
Diventarono la prima e più antica delle Repubbliche Marinare perché seppero trasformare il loro rifugio inospitale in un vero e proprio miracolo di città.
Piccola, cazzuta, di fronte al mare. Loro, gli amalfitani, scaltri commercianti, con i loro gusci di noce diventarono abilissimi naviganti e quella città diventò una roccaforte inespugnabile. Con un alto muro per difendersi dalle incursione saracene che venivano dal mare e un fiumiciattolo alle spalle che permise loro di inventare mulini per macinare il grano, per fabbricare tessuti prima e poi la grande invenzione della carta.
La valle dei Mulini è un altro miracolo d'ingegno, un'invenzione incredibile di sfruttamento dell'energia naturale che avevano a disposizione. 
Perché gli amalfitani ci riuscirono? Perché trasformarono i loro difetti i virtù. Perché seppero enfatizzare e valorizzare quel poco che avevano con un’incredibile tenacia e grande intelligenza.
Con una grande cazzimma diremmo oggi.
Trasformare quello che è un nostro vizio, un nostro difetto in una virtù. Ecco il genio. 
L’handicap più grande degli amalfitani? La terra a forma di rupe, roccia scoscesa verso il mare. Inospitale. Buona solo per i falchi e le poiane.
Virtù? La testardaggine di portare, per mare, il terreno preso altrove, alla foce dei fiumi, dove la terra è più fertile e sistemarla, dove la pendenza lo permetteva, in terrazzamenti coltivabili, retti dalle pietre che cavavano direttamente dalla rupe. 
Un sistema che dopo millecinquecento anni è ancora in piedi e perfettamente efficiente. Il fiume corre ancora veloce e i muri a secco ancora mantengono la terra coltivabile. 
Il mare di fronte, era un ostacolo? No, una possibilità. Se costruisci delle navi agili e ben fatte attraversi il Mediterraneo e ti dai al commercio.
E loro furono i più grandi commercianti dell’alto medioevo.
E furono la prima Repubblica Marinara, indipendente da Bisanzio e dagli altri poteri grandi.
Una piccolissima città, un buco aperto in una valle strettissima che se ne saliva fino ai boschi di Scala.
E da qui fecero sentire la loro voce al mondo.
E il bello, io che ho cominciato a conoscerli e ad amarli da napoletano sfegatato quale sono, che sono ancora così. Certo, l'epoca moderna li ha toccati. Ma, nel fondo, sono ancora orgogliosi della loro patria, ne parlano, ci fanno convegni, organizzano mostre, ne vanno, in qualche modo, fieri. 

E allora, cominciamo da sotto casa nostra. Parliamo, parliamo. Impariamo a non dire più che ci vergogniamo della nostra città. Del nostro paese. Della nostra storia e della nostra memoria. 
Dovete progettare, in senso ampio. Siete architetti. E’ compito vostro.
Un progetto grande, allargato, utopistico. Un’utopia come stimolo per le idee.  Gli architetti sono sempre stati i più ricettivi nei confronti dei filosofi che architettavano utopie. Pensate a Fourier, a Saint-Smon, a Soleri per saltare verso i nostri tempi.
E torniamo a frate Campanella, duro, tosto, robusto. Che seppe resistere alla tortura e alle pressioni degli Spagnoli. Che si finse pazzo per non bruciare come eretico. E scrisse dalla prigione la sua Città del Sole, un modo di guardare in maniera positiva e piena di speranza alla realtà e alla sua possibile trasformazione. 
Affanculo i corrotti che ci hanno ridotti a credere di non esserne più capaci.
Facciamo come gli Amalfitani della Repubblica.
Inventeremo una delle città più belle della nostra epoca. La nostra Città del Sole. 
Ma  questo è compito vostro. Dei giovani studiosi. Dei giovani talenti. Quali voi siete.


Ho aggiunto le immagini de La città del Sole di Tommaso Campanella per ovvi motivi: perché indirettamente lo stiamo studiando ne La luce nel labirinto. Perché prima di essere un filosofo, un rivoluzionario e un amante della libertà fu un patriota. Ebbe a forza di pensare a un regno giusto degli uomini. E per questa idea fu condannato. Si salvò dall'essere bruciato perché si finse pazzo. E ci furono quelli che, come Ferrante Imperato e Giulio Iasolino, brigarono per farlo sopravvivere e tirarlo fuori di prigione. 
E di questa storia che parliamo sempre. Liberazione dal regno della necessità e del potere arrogante. Per la nostra Città del Sole