Alessandro Scarlatti
di Giacomo Ricci
Siamo
un gruppetto di napoletani che, non si sa perché, amiamo la nostra città.
L'idea
che abbiamo in testa gira intorno a una
Napoli che non è quella che ci raccontano i media, Saviano con «Gomorra, la
serie» e che Salvini crede di conoscere.
E'
una Napoli che noi abbiamo chiarissima nella mente ma che la contropropaganda
confonde di continuo, riducendola a due aspetti, apparentemente opposti ma
complementari: la Napoli canticchiante e stupida di Gigi D'Alessio e quella
truce della camorra, dei rifiuti.
Da
un lato la canzonetta becera (e cretina, scusami Gigi, ma non trovo parole migliori
per identificare il tuo cinguettio neomelodico, superficiale, scontato nei
suoi sentimenti triti, ritriti,
impastati al limite di una pappettina dolciastra che sa, però, forte di
rancido); dall'altro la ferocia infernale di chi non evita di dichiarare la
morte di interi territori, effettuando genocidi e assassinii di massa di fronte
ai quali anche delinquenti storici come Hitler e tutto il corpo delle SS
proverebbero imbarazzo e forse anche un po' di scuorno.
Perchè
se si rimane costretti nella dicotomia di cui sopra non si va da nessuna parte.
L'unica alternativa, confesso, sarebbe quella di dire «Vesuvio, pensaci tu!».
E
sia fatta la volontà del cielo. Chi s'è visto, s'è visto, come si dice a
Napoli.
Ma
le cose, come sappiamo bene e sanno quelli che conoscono la storia di Napoli
non stanno affatto così.
Anzi.
Alla
base di questa riduzione ai minimi termini di Napoli nei due stereotipi
contrapposti, ci sono forti interessi e manovre da parte di chi vuole che le
cose siano così rappresentate.
Una
Napoli alla Gigi D'Alessio, diciamolo pure, fa veramente schifo. Come fai a
cantare canzonette idioti quando lo scenario della città sul piano del suo
concreto status è disordine, delinquenza, inquinamento, spazzatura e
sottocultura?
Non
ti viene da pensare: ma che gente di merda, ma che avranno mai da cantare?
E
quando poi il guaio non è solo locale ma nazionale, che fai?
E
già, perché la terra dei fuochi ha interrati, nelle sue viscere, i rifiuti
tossici di gran parte dell'industria italiana del nord. Allora fai finta di non capire, butti a
scordare, sostieni qualche voce (idiota) che nega tutto e così via.
Bene.
In questo panorama a dir poco disastroso, se non apocalittico, qual è l'idea
che noi, sparuto gruppetiello di napoletani ci ostiniamo ad avere nella testa?
Lo
dico subito. Si tratta di un luogo
figurato. Che probabilmente non esiste. Ma che r-esiste nel nostro immaginario.
Come facciamo a definirlo? Che cos'è? Da dove iniziamo? A quale Santo ci
votiamo per metterne a fuoco i lineamenti? Per avere almeno la forza di
immaginarlo? Perché, date le premesse che dicevo, ci vuole una gran forza per
immaginare un'alternativa alla cretineria becera dell'ignoranza canzonettara o
alla violenza infernale dei demoni che hanno devastato la terra e avvelenato tutte
le sue creature, uomini, piante, bambini compresi. Soprattutto i bambini.
Comincerei con una definizione.
Anni
fa, un architetto milanese, assai intelligente, al punto che lo identificammo
tutti (tutti noi architetti italiani) come un vero caposcuola, ebbe la pensata
geniale e il coraggio di uscirsene con
una definizione a dir poco entusiasmante per chi amasse l'arte e
l'architettura.
Aldo
Rossi (questo il nome dell'architetto in questione) definì «la Città Analoga».
Che
cos'era? Che cosa s'era inventato il professore Rossi?
Ve
la faccio breve, scavalcando teorie, pensieri, idee e tutto il resto che
accompagnava questa definizione.
La
«Città Analoga» era, per Rossi, in buona sostanza, una sorta di modello ideale,
come avrebbero potuto essere le città ideali del Rinascimento italiano, ma più
su un piano concettuale che stilistico. Cioè, quello cui voleva riferirsi Rossi
era un prodotto culturale complesso, che raccoglieva, nel suo corpus,
tutte le soluzioni ottimali, meglio riuscite
sul piano artistico e culturale dell'architettura italiana di tutti i
tempi.
Allora,
se potessimo passeggiare idealmente per la Città Analoga, ci imbatteremmo in
tutti i capolavori eterni che l'uomo ha avuto la forza e il coraggio di
produrre nella sua storia, tutti lì riuniti. Come un vero e proprio campionario
di meraviglie, concorrenti assieme nella definizione di un paesaggio urbano
perfetto, armonico, splendente, unico.
Un
riferimento culturale, insomma, una sorta di manuale di soluzioni eccellenti,
capace di fare da guida in ogni futura creazione.
Ma
anche una città vera e propria, da vivere, almeno sul piano ideal-culturale, un
riferimento, una poesia fatta concretezza, un'opera d'arte sublime, realizzata
dal concorso del meglio che, nella storia dell'architettura, gli
architetti-artisti abbiano pensato.
Certo.
Nulla di più lontano dalla pratica ingegneristica costruttiva della nostra
epoca di geometri di campagna e cialtroni, pronti a gettare quanto più cemento
possibile, a ingurgitare quanto più panorama naturale possibile. Uno
straordinario strumento logico, la Città Analoga, utile a stabilire differenze,
a tagliare menzogne ed errori della pratica conduzione delle concrete soluzioni
per la città contemporanea.
Come
dire: «Chi conosce a fondo il materiale della Città Analoga, sa come affrontare
i problemi della nostra epoca e sa come mettere
da parte equivoci e imbrogli, orientandosi con decisione sulla strada
delle soluzioni corrette, della corretta interpretazione della realtà che ci
circonda».
Ecco,
allora, l'idea di definire una «Napoli Analoga», un luogo nel quale l'arte, la
cultura, l'umanità complessa di questa città possano confluire senza le
contaminazioni di merda (canzonettismo sciacquetto e malavita infernale fuori
controllo) possano aver campo. Anzi, ne siano rigorosamente bandite.
All'obiezione
che le due immagini di cui sopra siano strettamente connesse con qualsiasi
operazione culturale e artistica mi oppongo con fermezza.
I
riferimenti di «Napoli Analoga», come vuole Rossi, sono soltanto quelli
alti, storici. Così, come nella Città Analoga possiamo immaginare il Pantheon,
il Colosseo, il Duomo di Firenze, la Cupola di Brunelleschi e la volta della
Sistina, in Napoli Analoga hanno diritto di asilo le ricerche in lengua
napolitana di GiovanBattista Basile e Giulio Cesare Cortese, Lo cunto de li Cunti e la Vajasseide, le invenzioni
di GiovanBattista Della Porta (sembra essere stato il primo
inventore della storia del prototipo del cannocchiale ), la musica di
Paisiello e Cimarosa, i quadri di De Ribera e Battistello Caracciolo e non le
schifezze di D'Alessio e dei neomelodici.
Ogni
napoletano colto sa bene che cosa può rientrare in questo modello
teorico-culturale così come nessun architetto, degno di questo nome, metterebbe
accanto al Battistero de Lo sposalizio della Vergine di Raffaello, un
edificio di speculazione marcato Ottieri.
E'
questione di intelligenza e cultura. Ma è soprattutto rigore nella costruzione di un repertorio di
esempi validissimi sul piano artistico, culturale, linguistico che
hanno fatto di Napoli un simbolo forte e resistente sul piano culturale, in
grado di affrontare e sconfiggere gli attacchi degli imbecilli e degli
ignoranti.
Totò,
Eduardo e il suo teatro, Peppino e la sua forza umana, De Ribera e il suo
mestiere, Aniello Falcone e il suo studio-scuola, Domenico Gargiulo, Salvator
Rosa, Carosone e la sua simpatia, Gegè Di Giacomo e la sua batteria
indiavolata, Troisi e la sua poetica bravura, Paisiello, Cimarosa, Scarlatti,
Scarpetta e le sue pochade, James Senese, Vanvitelli, Alvino, Pupella Maggio,
Titina De Filippo, Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo,
Roberto Bracco, Il principe Sansevero, i suoi misteri e le sue invenzioni, l'abate Galiani, Genovesi, Vico, Matilde
Serao, Giuseppe Marotta, Luciano De Crescenzo, i ragazzi di Alessandro Rak e l'Arte della felicità, tutto contribuisce a definire un
grande scenario di riferimento culturale straordinario che rappresenta il trionfo
linguistico-artistico, le parole che intessono il discorso che regge un luogo
magico, Napoli Analoga, il nostro grande manuale di perfetto comportamento intellettuale, artistico, morale, culturale. E
di prospettive per il futuro. Supereremo l'ottusa, impazzita visione infernale
della camorra e quella becero-cretina dei neomelodici da piazza.
Noi,
gentiluomini, artisti e filosofi. Noi
della Napoli grande, della «Napoli Analoga», manuale di bellezza, perfezione e
saper vivere.
Gigi,
per piacere, fai spazio.