Le carte a posto
di Claudio Cajati
Io, Michele, e mia moglie,
Arianna, siamo una vecchia coppia. Io 65, lei 62. Una coppia tranquilla, più
volte collaudata, inossidabile. Ci siamo sempre voluti un gran bene e
rispettati. Appena ogni tanto qualche baruffa: ma, come dice il proverbio, amor
senza baruffa fa la muffa.
Così credevo.
All’improvviso, l’amara sorpresa.
Vado a raccontarla, cercando di
rimanere sereno.
Fra i riti patologici del
matrimonio o, più in generale, della convivenza, c’è quello di conservare in
casa di tutto. Per anni e anni. In cassetti, ripostigli e angoli dimenticati.
Alla rinfusa, senza altro criterio che quello dettato dalla smania di
conservare (“Dovesse tornare utile, chissà...”). Così si formano
stratificazioni profonde e indecifrabili, bisognose di scavi archeologici.
Nel nostro caso, si tratta
soprattutto di carte: io sono scrittore, Arianna prof al liceo classico. La
carta, le carte, ci hanno accompagnato per decenni. Fedeli, non avrebbero
voluto lasciarci.
Ma l’altro giorno ho sentito
l’urgenza di ribellarmi. Mi sono messo alacremente all’opera. Al grido di
“Buttare, buttare, buttare!”
Però fra le carte obsolete e
inutili si può sempre annidare invece qualcosa di prezioso. Occorre quindi
spulciare con calma. Frenare e mitigare l’imperativo del ‘buttare’ con
un’attenta calma disamina.
Ma c’è anche di più. Che me lo
proponga coscientemente o meno, sono sempre alla ricerca di spunti narrativi.
La mia inventiva, alla mia età, è ormai fiacca, devo ammettere.
E sono stato fortunato. Spulciando
fra carte ingiallite, qualcuna ancora sporca di caffè o perfino di un residuo
di miele o marmellata, ho trovato titoli promettenti. Chissà perché – come
faccio ora a ricordarmelo? – rinunciai a tradurli in testi narrativi. Oppure mi
sono capitati fra le mani racconti incompiuti. Adesso saprei come condurli al
termine: è venuta meno la sfiducia e l’inesperienza che determinarono un
abbandono.
Ci ho messo l’intera giornata a
fare pulizia. Alla fine ho buttato più del novanta per cento delle carte cavate
da vari anfratti della casa.
Ero stanco ma soddisfatto. Provavo
il senso esaltante di una liberazione. E avevo rimediato alcune trame niente
male, degne di sviluppo.
Arianna ha apprezzato molto il mio
lavoro. Un complimento generoso e un largo sorriso. La sera tardi, ma non
troppo tardi, ero quasi distrutto, perbacco, mentre andavamo a coricarci, lei
mi ha detto: “Io sono pigra, lo sai, e poi le mie carte sono perfino più delle
tue, ho conservato le cose più assurde, non so perché. Ci pensi tu a fare
pulizia? Lo sai che mi fido. Del resto hai seguito passo passo la mia avventura
di insegnante, sai quasi tutto quel che c’è da sapere...”
Ho accettato volentieri. E ci
siamo addormentati subito, ancora immuni da insonnie senili, meno male.
La mattina seguente, anzi era
ancora notte, sono saltato dal letto come una molla. E in pochi minuti ho
raccolto, sul tavolo più grande che abbiamo, tutte le carte di Arianna.
(Forse un uomo non dovrebbe
mettere le mani nelle carte di una donna, di una prof, e tanto meno di una che
è sua moglie... ma io l’ho fatto, con una determinazione e una disinvoltura che
mi hanno sorpreso.)
Quante porcherie che sarebbe stato
ragionevole cestinare subito! E invece carte di dieci, perfino venti, trenta
anni prima, inutili e prive del pur minimo requisito del ricordo prezioso:
stavano lì, indifese davanti alle mie mani implacabili. Cestino, cestino,
cestino.
Poi sono incappato nella brutta
della lettera con cui Arianna comunicava al grande scrittore Jorge Messi
l’intenzione di fare la tesi di laurea su di lui. E chiedeva di incontrarlo per
un’intervista.
La risposta di Messi non l’ho
trovata. Ma ricordo che lui l’intervista la concesse. E che fu il pezzo forte
della tesi.
Ho messo da parte la lettera: ad
Arianna poteva interessare conservarla. Le avrei chiesto conferma quando fosse
tornata da scuola.
E ho continuato infaticabile
l‘operazione cestino.
Quella che ora mi capitava fra le
mani, ben custodita in una busta celestina appena sgualcita, era un’altra
lettera. Questa pure in spagnolo. Ma con una grafia differente da quella di
Arianna. Una grafia rotonda, imperiosa, fluida. Insomma, non era una lettera
scritta da Arianna. Ma una lettera di Messi a lei.
Anche se il mio spagnolo è
zoppicante, non ho avuto bisogno del vocabolario per capire. Lo slancio,
l’entusiasmo, la passione delle frasi non lasciavano dubbi. Fra loro c’era
stato molto più che un’intervista.
Poi altre lettere, continuando la
mia cernita, mi capitavano fra le mani, a cascata. Lettere di lei a lui, di lui
a lei. Non potevo dubitare: una lunga relazione fra loro. (Io, accidenti, ero
riuscito a non accorgermi di niente. Che stupido, io e la mia benedetta
letteratura...)
Ciò che state leggendo non vuole
essere una confidenza o uno sfogo.
È l’annuncio di un racconto. Io
sono e sarò, fino in fondo, scrittore. Condanna e riscatto.
Non ho detto niente ad Arianna.
Non le ho detto che ho trovato il carteggio – chissà perché non l’ha distrutto.
Non le ho detto il mio stupore, il mio sconcerto, la mia mortificazione, il mio
dolore. Io che credevo che mi fosse sempre stata fedele, come le sono stato io,
eppure ne ho avute occasioni...
Lei non sa niente. E non deve
sapere niente. Mi sono sforzato di essere con lei uguale a sempre. Premuroso,
affettuoso, educato.
Così ho trattenuto in me tutta
l’energia. E subito ho deciso il da farsi. Dal carteggio cavare un racconto. Ma
non posso scriverlo subito. Devo fare decantare rabbia e smarrimento.
Però penso che sarà un grande
racconto, un piccolo capolavoro.
Non so, e non voglio saperlo
naturalmente, quanto godette Arianna a letto con Jorge Messi. Ma dubito che
possa aver goduto quanto, con la mia sapienza di scrittore, saprò far godere
l’Arianna del mio racconto. La farò letteralmente impazzire di godimento. E i
lettori, travolti dall’eccitazione, faticheranno a tenere le mani a posto.