di Sergio Stenti
L’università
riformata è giunta ora a compimento, e mentre ancora si discute di quale sia il
bilancio della penultima riforma, quella Berlinguer del 1999, già iniziano le
scommesse sulle conseguenze dell’attuale riforma Gelmini: cosa cambia e per
chi.
La
riforma Berlinguer era nata per rispondere meglio alle nuove esigenze del mercato
che richiedevano titoli intermedi oltre la tradizionale, laurea quinquennale; l’invenzione
del 3+2 prevedeva una laurea triennale, completa ma generalista, e un biennio
di specializzazione a orientamento professionalizzante.
Ciò sembrava
incontrare le richieste del mondo del lavoro in un orizzonte di sviluppo dell’economia; ma né il mercato né
l’economia si sono evolute in questo senso e nemmeno l’università ha fornito quelle lauree
professionalizzanti che si prevedevano.
Nel 2010 la riforma Gelmini ha invece agito
sulla struttura dell’università con lo scopo di una maggiore efficienza, risparmio
dei costi e razionalizzazione dell’offerta formativa.
Mentre
la vecchia organizzazione in Facoltà e Senato accademico è stata ristrutturata
in modo dirigistico, quasi nessuna modifica è stata proposta sul piano dei
contenuti della formazione se non una scarsa premialità (10% del FFO) per la
ricerca, da assegnarsi all’Ateneo e non al singolo ricercatore.
Unificata
positivamente didattica e ricerca dentro i nuovi Dipartimenti, è stato
assegnato al nuovo organo interno Anvur
il controllo di qualità per la sola ricerca mentre nessun tentativo è stato
fatto per la qualità della didattica.
Appare
evidente, dall’enfasi messa sulla ricerca, il desiderio, più ideologico che
concretamente organizzato, di incentivare
una attività collaterale come la
ricerca che è la parte debole della formazione.
Ma, dimenticando di valutare la
didattica, si continua a sottovalutare che
il compito principale dell’Università è
quello di formare laureati qualificati e
non conseguire brevetti, attrarre finanziamenti
per ricerche applicate e pubblicare articoli su riviste scientifiche accreditate.
Questa impostazione
appare intrisa di molta retorica: basti pensare alla scelta di mantenere il valore
legale del titolo di studio che, equiparando e rendendo identiche buone e cattive
facoltà, non premia né la ricerca né il merito.
Sarebbe
anche opportuno fare un po’ di chiarezza sulle specificità delle attività di didattica
e di ricerca, sui loro differenti obiettivi che, è bene ricordarlo, non sono uguali o
facilmente sovrapponibili: la didattica richiede coordinamento funzionale e aggiornamento per migliorare le chances di lavoro
dei laureati; la ricerca chiede
sostegno e organizzazione per competere
con altri centri di ricerca e attrarre
finanziamenti esterni.
L’istituzione
dell’Anvur è un lodevole passo in avanti per portare la valutazione della
ricerca ad incidere sullo sviluppo dell’Università sia migliorando i docenti sia migliorando gli
atenei. Potrebbe essere l’inizio di un
processo di valutazione che conduca oltre il livello dell’auto-valutazione e ci
avvicini ai valori concreti espressi dal mercato internazionale della formazione. Sarebbe necessario però superare almeno la
composizione tutta accademica dell’Anvur ed aprirla a valutatori esterni.
Ora, in un quadro generale che vede la riduzione
dei fondi, la contrazione dei docenti per un sostanziale blocco del turn over e
non aggiornamento delle conoscenze, sparuti incentivi alla trasformazione e perdita
di valore della laurea, ci vorrebbero riforme meno retoriche e più realiste
per migliorare l’università e farla avanzare di qualche
posto nel ranking internazionale dove il primo ateneo italiano , Bologna, si situa al 195° posto.
Architettura come scuola
Le
scuole di architettura soffrono
innanzitutto di un gigantesco affollamento di laureati che è andato oltre ogni ragionevole
rapporto tra domanda e offerta e che ha cominciato a farsi sentire nel calo
delle immatricolazioni scese in otto anni del 15%, e dovute a diminuzione di
occupazione e riduzione di guadagni (140.000 iscritti agli Ordini, più del
doppio della media europea). Continuiamo
comunque a laureare circa 6000 architetti l’anno nonostante l’alta percentuale
di abbandoni scolastici (circa il 30% degli immatricolati) .
Ogni
ateneo ha introdotto la formula del 3+2 in modo diverso senza rispettare
l’impostazione originaria della riforma (un solo triennale di base con molte
specializzazioni biennali) e spesso senza eliminare il tradizionale corso quinquennale
che è frequentato solo dal 25% degli studenti italiani (il 75% frequenta il
3+2). Pochissimi si fermano alla triennale,
l’85% continua con le specialistiche per completare gli studi, dimostrando che l’assunto della riforma Berlinguer
che il titolo triennale ( più un diploma
che una laurea) serviva per coprire posti intermedi nel mondo del lavoro, non si è verificato. Salutari
esperienze pratiche, durante la laurea, introdotte con i tirocini esterni hanno
avuto grande successo, anche se il monte ore ad essi riservato ( 150/200 ore in
cinque anni ) potrebbe utilmente essere aumentato. Non sono stati previsti,
cosi come per altre professioni, tirocini obbligatori post laurea per
l’iscrizione agli Ordini, lasciando inalterato, anzi incredibilmente
complicandolo, l’inutile e vessatorio esame di stato. Sul rapporto poi tra
valore legale del titolo di studio ed esame di stato ci sarebbe anche da capire
a cosa serve mantenere entrambe le condizioni per la professione che,
notoriamente, non verificano le conoscenze minime del mestiere.
Infine il
terzo livello di formazione, masters e dottorati, a parte alcune eccellenze,
soffre di poca specializzazione e di poca partecipazione (per entrambi la
percentuale di laureati frequentanti è ad una sola cifra, 7/9 %) e non sembra
migliorare le possibilità occupazionali . Soprattutto i dottorati soffrono per
diminuzione delle borse di studio e per un uso del titolo ridotto solo al campo
accademico. Queste specializzazioni post
laurea infatti non sono ancora riconosciute
come titoli qualificanti nel mondo del
lavoro come invece succede dovunque in
Europa.
La formazione
I punti deboli dell’attuale formazione possono
essere sintetizzati in tre parole: generalista, professionalizzante e
incompatibilità.
La
formazione non è chiaramente impostata su una delle due scelte, generalista o
professionalizzante, non riuscendo quindi a guadagnare i meriti e ridurre gli
svantaggi di entrambe.
Nella
grande maggioranza prevale un orientamento generalista frutto di una tradizione
culturale che in passato ci ha consentito grandi vantaggi, ma che oggi, per le (ex)
facoltà professionali, non è più sufficiente.
Ma cos’è
una formazione generalista? Una
formazione non specialistica, dove viene data importanza ai “fondamentali” come
nella tradizione umanistica, ma che non qualifica per il lavoro e che necessita
di ulteriore apprendimento: il terzo livello universitario.
Una
formazione siffatta può produrre un laureato colto ma non può produrre una
figura tipo “coordinatore della progettazione” che anzi richiederebbe, in un
team progettuale, larghe competenze più che ampia cultura. Salvo che non si ritenga che il lavoro
progettuale inizi e finisca con l’elaborazione del "concept"
demandando ad altri lo sviluppo esecutivo.
La
formazione professionalizzante è invece più chiaramente orientata al mestiere e
alla sua pratica, con uno spostamento della figura dell’architetto: da creatore
unico a collaboratore in gruppo. Nel
rapporto cultura umanistica saperi tecnici lo sbilancio dovrebbe andare
all’acquisizione di competenze per il mestiere e in questa logica si dovrebbe
lasciare al terzo livello, al dottorato di ricerca, il compito di un’acquisizione
critica, di alto livello, delle conoscenze.
Il
progetto di architettura, lo specifico architettonico è sempre stato l’opera e
non il saggio scritto; non gli articoli ma i progetti ne sono, infatti, lo agire
più importante ed è evidente che il centro della sua formazione deve essere rappresentato
dalla capacità di saper progettare e di farlo in team.
Infatti,
è nel progetto che la ricerca in
architettura trova il suo fondamento e
il suo scopo.
Ma si
può imparare a progettare con docenti che non hanno mai costruito nulla o calcolato nessuna struttura statica
antisismica ?
Sembra
un paradosso del nostro sistema universitario il cui fine, mettere tutte le
energie della docenza al servizio dell’Istituzione, si è ribaltato nel suo
opposto, un invecchiamento delle conoscenze e delle competenze.
Nell’Università i docenti che fanno professione
sono considerati insegnanti di serie B e non fanno carriera, non accedendo ai
ruoli dirigenziali; le loro opere, infatti, non sono valutate come ricerca e costoro
sono messi ai margini della “governance”.
Si
assiste purtroppo alla svalutazione di ciò che è il focus della formazione, la
qualità del progetto architettonico inteso come luogo privilegiato d’incontro collettivo
tra la didattica e la ricerca applicata.
C’è una
tendenza di pensiero accademico che ritiene che tutte le discipline siano quasi
sullo stesso piano, uguali ed equipollenti e che tutte formano in ugual modo
l’architetto. Tale tendenza ha
spodestato il progetto di architettura dalla centralità della formazione, e ha
facilitato la sua sostituzione con un diverso concetto di progetto, il progetto
tecnologico.
Perdendo
la centralità del progetto, la formazione si è come liquefatta suddivisa in
tante sub-discipline che non restituiscono quella ricerca di senso che ha
sempre caratterizzato il progetto architettonico.
Il
vecchio tripode della formazione, progetto, storia e struttura che sosteneva la
gerarchia degli studi fino a qualche decennio fa, è poi diventato quadripode, con
l’aggiunta di tecnologia, eterea ed evanescente materia nata da una costola di
tecnica delle costruzioni.
Ma, svincolatasi successivamente da ogni fedeltà
storico-critica relativa al mondo
delle costruzioni e liquefattasi nell’Università ogni gerarchia contenutistica,
la tecnologia ha intercettato la pretesa
contemporanea della “tecnica” di scrollarsi di dosso ogni scopo esterno a se stessa. Cosi, accogliendo
tutte le istanze di ammodernamento prodotte
dal mercato e dal sociale e legate alla sostenibilità ambientale
ed energetica, il sapere tecnologico si
propone come autonoma progettazione
tecnologica. Da mezzo si sta
trasformando in scopo secondo la classica eterogenesi dei fini.
D’altro
canto una riflessione sulla divisione in tante sub discipline in cui si è frantumato
il sapere architettonico oltre il tripode tradizionale, sarebbe quanto mai
utile per ripensarne i contenuti.
Ciò che
emerge nella formazione attuale è, infatti, una certa indifferenza alla ricerca
di senso dell’architettura, ai rapporti tra contesto, costruzione, linguaggio e
uso che l’ha caratterizzata fino ad ora. E tale condizione, che oscura le
domande sul valore civile che essa dovrebbe e potrebbe svolgere, è facilitata anche
dall’impossibilità di sperimentare ciò che si progetta:
L’incompatibilità
tra insegnamento e professione, infatti, blocca ogni avanzamento culturale dei
docenti e ogni miglioramento della formazione. Enti europei come l’Unesco e l’Uia
hanno sentito il bisogno già nel 2000 di raccomandare alle università di selezionare
docenti di architettura che abbiano uno stretto contatto con la pratica
professionale ovvero una solida esperienza.
Codificata
nel 1996 ma iscritta da tempo nelle nostre leggi come obbligo per tutti i dipendenti pubblici con punizioni e
sanzioni ai trasgressori, l’incompatibilità è una vecchia
ideologia statalista che vede il privato come possibile corruttore degli interessi collettivi che l’Università rappresenta.
Il
paradosso dell’incompatibilità è che un’esigenza conclamata nel clima
sessantottino della lotta al professionismo, contro la “riduzione culturale”
come si diceva allora, si sia ribaltata nel suo opposto, bloccando ogni
sviluppo e aggiornamento dei saperi accademici.
Renato Nicolini
sosteneva che gli unici movimenti di riforma dell’Università erano stati due. La
contestazione del 1966, sfociata poi nel ‘68, e la Tendenza nel 1980, che
inventò il rapporto morfologia tipologia e l’architettura della città contro le
fughe nella grande dimensione o nella tecnologia. Eppure questi movimenti hanno
finito per incoraggiare una deriva anti-professionale che alla fine ha
ribaltato quelle richieste culturali nel loro opposto: paralisi e declino dei
saperi accademici con esaltazione dello scrivere piuttosto che del progettare e
del costruire.
Per
arrestare un declino di contenuti che acquista velocità ad ogni riforma
governativa che vuole regolare dall’alto, con centralismo e dirigismo e senza incentivi,
tutte le diverse discipline dentro le
Università, si dovrebbe sperimentare un qualche
modo per rendere centrale e collettivo il progetto di architettura.
Tra le tante ipotesi possibili, la soluzione
dell’intra-moenia (come per i medici) potrebbe essere un passo su cui val la
pena interrogarsi. Una progettazione interna alle ex Facoltà, regolata e
calmierata, in grado di competere con gli studi privati nelle commesse
pubbliche.