la raccolta di racconti a quattro mani, eseguiti da Lucilla Actilio e Claudio Cajati.
Il titolo è:
Una monade in condominio - due
Perché i racconti a quattro mani
Questi racconti comportano due sfide.
Quella che i due autori hanno dovuto
affrontare e vincere; quella che lanciano al lettore.
Si tratta di racconti a quattro mani,
che hanno cioè due autori. Il racconto è la monade; il condominio è la condivisione
dell’atto creativo fra i due autori.
Ma come è avvenuta questa
condivisione? Ogni racconto è stato iniziato da uno dei due autori e completato
dall’altro, alternativamente.
Ed ecco la prima sfida: due autori
diversi, per di più di sesso diverso, impegnati a costruire con questa
procedura un tutto unitario. Dove chi ha l’idea, non la può completare. E chi
la può completare, deve completare un’idea non sua. Quindi due metà parziali e
duali fra loro, che devono farsi unità, bilanciata e coerente.
Niente viene concordato prima, né la
trama, né i personaggi, né il linguaggio: colui, o colei, che riceve la “prima
metà” del racconto si trova di fronte ad una sorpresa assoluta; deve superare
questo shock e trovare in qualche modo come continuare e completare il
racconto.
La seconda sfida. Chi legge, oltre al
piacere (si spera) della lettura, può sentirsi intrigato da questo gioco:
riconoscere qual è la parte scritta dall’uno, quale quella scritta dall’altro.
Sa solo che, alternativamente, la prima parte è scritta dall’una e la seconda
dall’altro, o viceversa.
Nessun amalgama stilistico a
posteriori è stato operato: le due stesure, delle due parti, dei due autori,
sono rimaste quelle originarie.
Sarà comunque facile attribuire i due
apporti? Quanto si sa sulla scrittura al femminile e su quella al maschile
vanificherà subito il presunto dilemma?
Di seguito in anteprima due racconti della raccolta
La prima volta non ci avevo fatto quasi caso. Me ne ero ricordato dopo,
quando avevo tentato di ricostruire l'intera storia.
Adesso, a giochi
finiti come si dice, parrebbe facile affermare che avrei dovuto capirlo subito,
ma allora, quando ebbi il primo contatto non me ne resi affatto conto. Del
resto, sfido chiunque, almeno che non abbia doti di preveggenza, a identificare
i potenziali effetti di un incontro fortuito. Solo che quello fu
unilateralmente fortuito, come, ahimé, ora posso affermare.
Oggi maledico
quella giornata uggiosa di fine autunno, maledico le mie certezze di allora e,
soprattutto, maledico il mio ombrello e la mia distratta cortesia, oggi che
vago in questa città che non è la mia e tutto quello che posseggo, al di là
della mia dignità e della mia coerenza che ritengo intatte, sono abiti sdruciti
e scarpe scalcagnate.
Fu allora, in quel giorno, che avvenne il primo
incontro.
Faceva freddo, pioveva e la mia auto era in
riparazione. Clelia, quella che allora era mia moglie, avrebbe voluto prestarmi
la sua, ma doveva accompagnare i ragazzi in piscina e la giornata, già dal
mattino, si presentava uggiosa.
Avevo finito tardi
come sempre, allo studio; allora ero un professionista cinquantenne, noto e
stimato e certamente non erano né il lavoro, né i clienti, né i soldi che mi
mancavano. Diluviava e non c'erano taxi in vista, del resto la fermata
dell'autobus era a poche centinaia di metri. Avevo aperto l'ombrello deciso a
fare il breve percorso fino alla pensilina.
La ragazza era sbucata all'improvviso,
grondante, e mi aveva urtato con violenza tanto che la cartella di pelle mi era
sfuggita di mano. Mi aveva chiesto scusa e sembrava davvero mortificata, mentre
si chinava a raccoglierla anticipando il mio movimento. Ed era rimasta, sotto
la pioggia battente, reiterando le sue scuse in un balbettio confuso. Che
potevo fare? Cose che capitano, no? In un gesto spontaneo avevo allungato la
protezione dell'ombrello perché si riparasse e le avevo detto di non
preoccuparsi, non era successo nulla di così grave. Ma lei continuava a
scusarsi con tanta mortificazione e sembrava così turbata ed era così zuppa di
pioggia che mi aveva fatto pena. Del resto appariva tanto insignificante! Uno
scricciolo di ragazza, poco più che ventenne, smunta e decisamente bruttina.
Intanto il mio autobus stava per giungere sotto la pensilina ed io
istintivamente le avevo porto l'ombrello: “Suvvia lo prenda, ne ha bisogno e
lasci perdere, le ripeto che non è successo niente...” Com'era quella cosa? Ah già, le ultime parole
famose... In un balzo ero montato sul predellino del bus mentre lei se ne
restava immobile quasi nascosta dall'ombrello. Ricordo che, con un ultimo
sguardo distratto, avevo pensato che sembrava essere cresciuto, sul grigio del
marciapiede, lucido di pioggia, un enorme fungo scuro. Enorme sì, ma non
innocuo: quello che il mio sguardo miope d'allora non riconosceva era la
mostruosa escrescenza di un amanita falloide, sicuramente il più letale tra i
funghi!
E, a mie spese, ne avrei fatto esperienza!
Ricostruire i fatti
è stato per me come risolvere un giallo. Solo che questo giallo era vita, non
narrativa. Un giallo in cui io ero la
vittima, una vittima che non amava i gialli, e ora più che mai li detesta.
Ero tornato quella
sera, appena bagnato perché la fermata del bus era molto vicina a casa e la
pioggia era diminuita nel frattempo, nel tepore di un appartamento
confortevole. Con Clelia che non si accorgeva che non avevo più l’ombrello –
meglio, niente strane spiegazioni sospette – impegnata a preparare il pranzo, a
chiedermi premurosa se preferivo per secondo carne o pesce, i ragazzi intanto
tutti presi dal computer, uno a testa naturalmente, ed io sprofondato in
poltrona, in pantofole morbidissime ed eleganti, a vedere un po’ di tv.
All’improvviso
bussarono alla porta.
“Aspetti qualcuno?”
chiesi a Clelia.
“No” fece lei senza
scomporsi, continuando i laboriosi preparativi.
Toccò a me andare
ad aprire. Sul pianerottolo, minuta, dimessa, bruttina, con uno scialbo sorriso
di gratitudine ed ancora l’accenno alle scuse, c’era la ragazza. Mi porgeva
l’ombrello mentre diceva: “Grazie mille. Questo è suo.” Accennò a una timida
risatina nervosa che le scoprì una dentatura irregolare.
Non so se sorrisi
benevolo. Mi sembra che dissi: “Si figuri, poteva tenerlo!” Ma subito mi
interruppi. Con un tono di voce alterato, più dalla meraviglia che dal
sospetto, chiesi: “Ma come ha fatto a trovarmi… qui a casa?”
“Certi incontri
sono così… misteriosi e sapienti…” disse con voce che voleva essere suadente. E
subito aggiunse: “Avrò ancora bisogno di Lei, della sua disponibilità.” In un
istante mi depositò l’ombrello fra le mani, girò sui tacchi e guadagnò le
scale.
Avrei voluto
afferrarla, pretendere una spiegazione. Niente, era già sparita. Pensai che in
fondo doveva essere una brava ragazza… una che ti porta indietro un ombrello,
per di più di marca… Ma come aveva fatto a trovarmi? Ero stupefatto, perplesso.
Anche soddisfatto, però.
Il giorno dopo, il
lavoro al mio studio legale era particolarmente febbrile. Avevo molte cause da
mandare avanti e un personale, per quanto vasto e qualificato, che faceva
fatica a tenere il passo. Forse avrei dovuto assumere un altro praticante.
Fu allora, era il
tardo pomeriggio, che bussarono alla porta. Dissi a Fernando, il praticante più
giovane che era una specie di factotum, di andare ad aprire. Passavano i
secondi e Fernando non tornava. Finalmente si affacciò nella mia stanza e disse
imbarazzato:
“C’è una ragazza,
non so, che chiede di Lei…”
“Che ragazza?!” Ero
stanco e contrariato per l’interruzione.
Prima che Fernando
potesse rispondermi, una figurina minuta, dal passo incerto e lo sguardo
rispettoso, vestita modestamente, si era fatta avanti. Era ancora lei, la
ragazza dell’ombrello.
“Lei?!... Che altro
c’è? Non vorrà mica continuare a scusarsi, spero!” Ero sinceramente
infastidito: ora anche allo studio…
“No, avvocato. Non
sono venuta per scusarmi. Innanzi tutto mi presento: mi chiamo Amanda Falloi.”
Feci un salto sulla poltroncina, mi venne in mente l’amanita falloide… Questa
ragazza è tutta strana, pensai, pure nel nome… “Sono laureata in Legge, 110 e
lode, in meno di quattro anni, ho ventun anni...” Fece una lunga pausa, come se
si apprestasse a dire qualcosa di delicato. “Se mi sono permessa di
disturbarLa, è perché ho bisogno di fare praticantato, e il Suo studio è
notoriamente al top.”
Questa Amanda ne
aveva di faccia tosta. Ma quella era anche la faccia di una poveretta con la
sfortuna di un fisico infelice a fronte di un mente brillante. In fondo io
avevo bisogno di un altro praticante. Se era brava - l’avrei messa alla prova,
naturalmente – si poteva prendere in considerazione, perché no? Il fatto che
fosse bruttina non era un handicap, anzi veniva a fagiolo: se fosse stata
avvenente, mia moglie, che era un tipo assai geloso, mi avrebbe sicuramente
costretto a non prenderla nello studio. E poi il suo atteggiamento dimesso e
rispettoso mi suggeriva che potevo essere comprensivo e generoso con lei.
La presi in prova
per tre mesi. Senza immaginare che questo era uno dei tasselli del puzzle
velenoso escogitato per distruggermi.
Amanda si rivelò
inappuntabile: competente, volenterosa, affidabile, precisa. Non ci fu nemmeno
bisogno di farle fare tutti e tre i mesi di prova. La assunsi definitivamente
dopo appena una ventina di giorni! Lei si industriava anche in tanti piccoli
servizi che prima erano stati esclusivo appannaggio di Fernando.
Un giorno che ero
più stressato e nervoso del solito, con il collo tutto irrigidito, si offrì di
farmi dei massaggi, stando alle mie spalle: così professionali e abili, che mi
sarei eccitato se appena lei non fosse stata così smunta e bruttina. E ogni
volta, senza che glielo chiedessi, con un’occhiata capiva che avevo bisogno del
suo massaggio, e le sue mani venivano alle mie spalle in soccorso. Era così
femminile e sapiente che in quei momenti potevo fantasticare che fosse bellina
e ben in carne…
Nello studio legale
distribuivo le cause da seguire ai vari collaboratori, riservandomi com’è ovvio
il ruolo di supervisore, consigliere, controllore, correttore. Amanda mi sorprese
ancora una volta: il suo zelo era tale che andava a studiarsi anche le cause
che non le avevo affidato. Lo faceva con prudenza e discrezione, per non
irritare troppo gli altri componenti dello studio, ma nelle sedute collettive
si intuiva che lei vi aveva messo il naso e gli occhi e tutto il suo vivace
cervello.
Un giorno che
credevo fosse andata via perché era terminato il suo orario di lavoro e mi
aveva anche salutato, invece la sorpresi a scartabellare accanitamente, con
fare sospetto, nei files di alcune pratiche. Questa volta mi doveva una
spiegazione esauriente e convincente. Aprii la bocca ma non fece a tempo a
uscirne la voce alterata: lei mi appoggiò una mano, incredibilmente calda,
sulle labbra. Poi mormorò: “Silenzio… non parlano solo le parole…” e subito
cominciò con uno dei suoi massaggi. Ma non era come al solito, alle mie spalle,
al collo. Ora mi stava di fronte, e scendeva lentamente, fino ad
inginocchiarsi, dallo sterno all’ombelico al pube, e lì indugiava a lungo con
le mani, le labbra, la lingua… Mentre
godevo pazzamente, un orgasmo tanto più gradito perché inaspettato, la guardavo
e non riuscivo più a vederla come pure era, minuta smunta bruttina.
La cosa non rimase
isolata. Amanda ripeteva spesso il rito che sapeva desiderato: fingeva di
andare via, si metteva a scartabellare fra le pratiche. Allora arrivavo io con
il fare di chi volesse sorprenderla ma sapevo che non ero lì per rimproverarla
e chiederle una spiegazione plausibile. Ero lì a chiederle di nuovo quel
massaggio speciale. Lei obbediva.
Un giorno in
tribunale perdemmo una causa che eravamo sicuri di vincere, tanto astuta e
brillante era la nostra linea difensiva. La controparte sembrava conoscere a
menadito le nostre mosse, in anticipo. Come se qualcuno avesse fatto la spia.
Ma quello era solo
l’amaro inizio di una lunga tragica catena di sconfitte. Non vincemmo più una
sola causa! La situazione era talmente grave e umiliante che decisi una seduta
plenaria allo studio, o meglio, quello che rimaneva dello studio: ero stato
costretto intanto a licenziare buona parte del personale, ad alloggiare in uno
spazio molto più piccolo, e facevo addirittura fatica a pagare l’affitto perché
ormai non arrivavano più clienti.
Alla seduta mancava
un solo componente, la diabolica spia che avrei potuto individuare molto prima
se solo fossi stato un poco meno ingenuo. Amanda, ovviamente.
Lei era proprio
sparita. Non era reperibile all’indirizzo di casa che aveva indicato;
all’anagrafe non risultava nessuna Amanda Falloi. Questo maledetto fungo spuntato un giorno di pioggia su un
marciapiede, ora avrei voluto calpestarlo con tutta la rabbia furibonda di chi
è stato gabbato e tradito, annientarlo come si fa con l’amanita falloides. E
invece niente da fare.
Lo studio legale fu
infine smantellato. Ma fu smantellato anche il mio matrimonio: Clelia aveva
scoperto, non so come (o forse sì?), che usufruivo da molto tempo e assai
spesso dei massaggi speciali di Amanda. E non ci aveva pensato su: divorzio per
colpa mia. Rimanevo con un conto corrente ridotto al minimo, senza lavoro, con
la fama di ex grande avvocato e la patente di maschio ingenuo.
Ora, dimesso negli
abiti e smunto perfino, mi sono rifugiato in un’altra città. Spero che qui sia
meno difficile ricominciare daccapo. Con un nuovo, questa volta modesto, studio
legale.
A volte però,
sembra assurdo e invece no, è vero: mi prende all’improvviso la voglia dei
massaggi di Amanda. Dolce veleno che non vuole estinguersi.
Quando ho finito il liceo e si è trattato di scegliere la Facoltà, i
miei genitori e i miei amici intimi mi hanno bombardato con i loro consigli:
che non dovevo iscrivermi a Matematica e Fisica, come ero orientato a fare, ma
a Lettere e Filosofia, vista la mia natura fantasiosa, più orientata al mondo
umanistico che a quello scientifico.
Ma io, che sono
stravagante e contorto nei miei ragionamenti, ho sostenuto la tesi che dovessi
compensare e integrare le mie tendenze, scegliendo non quello che era più
consono alla mia natura, bensì quello che la poteva correggere e arricchire. E
così, testa dura che sono, alla fine di un sequenza stressante di discussioni,
mi sono iscritto proprio a Matematica e Fisica.
E’ stata davvero
una sfida. Si tratta di una Facoltà ardua anche per chi è portato per gli
aspetti scientifici. Ma io ho sopperito con la mia volontà e, merito di chi mi
ha generato, anche con una discreta intelligenza. I luoghi più frequentati,
oltre alle aule universitarie, sono diventati per me la scrivania e la sedia
nella mia stanza. Ore e ore a studiare, argomenti talvolta astrusi.
Un giorno, dopo
sforzi cerebrali particolarmente intensi e prolungati, non ce la facevo più, la
testa mi scoppiava. Mi è venuto spontaneo alzarmi e andare alla finestra. E
così è cominciata la storia della donna dietro la tenda.
Il palazzo di
fronte al mio ha i piani un poco più bassi, e quindi le sue finestre sono
sfalsate in altezza. Così, poco più giù, ma proprio di fronte alla finestra
della mia stanza, c’è una finestra con dietro una tenda. Tenda che non viene
mai aperta, e neppure scostata un poco, a creare una fragile ma tenace barriera
verso l’esterno (per ventilare la stanza, probabilmente viene aperta una
finestra dal lato opposto). Nella stanza, quando viene accesa la luce, dopo il
tramonto, si scopre che c’è una donna. Di lei posso cogliere solo la sagoma
quando si avvicina alla finestra perché la tenda è abbastanza leggera ma non
trasparente. Deve essere la sua camera da letto perché intuisco che lì si
spoglia, prova gli abiti e si veste, si mette un qualcosa come un babydoll, sul
tardi, e scompare, dato che verosimilmente è andata a letto. Ho dedotto che
vive sola.
Chissà quanti anni
ha e come si chiama. Ma non mi interessa saperlo. Mi piace, a partire da così
pochi dati, inventarla. Ho immaginato che si chiami Jocelyn Snow, inglese,
venticinque anni, commessa di una profumeria; andata giovane via di casa, vive
qui sola, e non ha un fidanzato perché è un tipo molto timido e al tempo stesso
esigente.
I gesti della sua
sagoma dietro la tenda sono quasi perfettamente ripetitivi, è difficile che mi
sorprenda con qualche novità, e questa ripetizione quasi uguale è come una
pratica ipnotizzante, che ritarda il mio ritorno alla sedia e alla scrivania
quando mi rendo conto che devo riprendere a studiare. Abbandonare la
fascinazione del suo dolce mistero, e cascare di nuovo fra i duri misteri della
matematica e della fisica.
Di tutto questo non
ne parlo con i miei colleghi universitari o con qualche altro amico. Non
capirebbero e non approverebbero. Subito mi tempesterebbero di domande che
sarebbero rimproveri: “E non sei riuscito a vederla nuda?”, “E che ne sai che è
bella?”, “E non l’hai fermata all’uscita del palazzo?”, “Non le hai fatto la
corte?” o, con volgarità spicciativa: “E dopo tutta questa fatica ancora non te
la sei fatta?” Loro ragionano da conformisti. E non possono – non devono –
immaginare il ricamo di invenzioni ipotetiche, tutte mie, che sto costruendo su
quella siluetta dietro la tenda.
Sono tante le ore
che ho passato a contemplarla e immaginarla, che le mie ore di studio sono
molto diminuite, e così gli esami sostenuti e superati nell’anno. I miei
genitori che non sanno niente di lei e di quanto tempo le ho dedicato, sono
meravigliati e delusi. Poco ci manca che comincino a rimproverarmi, con i
prevedibili discorsi sullo studente modello che ero, sul costo proibitivo delle
tasse universitarie, sul bisogno di concludere gli studi e prendere un lavoro
ché in famiglia ci vorrebbe tanto un altro reddito. Mi sento in colpa verso di
loro, mi pare di tradirne la fiducia.
A loro due, che tanto teneramente mi amano,
non ho mai nascosto nulla, ma ora come potrei confidare l'assurda fascinazione
che una sagoma di donna misteriosa e sconosciuta sta esercitando sulla mia
fantasia?
Certo entrambi conoscono la mia natura e sanno
qual è il mio carattere: umbratile, contorto, capace di iperboli immaginifiche;
tuttavia, se dovessi dir loro che la mia paralisi universitaria è dovuta ad una
presunta signorina inglese che intravedo ogni sera dalla mia finestra, dubito
potrebbero capirmi ed assolvermi.
L'altra mattina il
mio senso di colpa era così pressante che ho deciso di andare in facoltà. Mi
ero imposto che vi avrei trascorso l'intera giornata, riprendendo le lezioni
che avevo interrotto, iscrivendomi a quel seminario di fisica quantistica
propedeutico alla tesi che avrei voluto chiedere e rivedendo i colleghi di
corso. A sera poi, me ne sarei andato, con qualcuno di loro, a bere una birra
in qualche pub. Tutto per sfuggire all'appuntamento con la luce che si accendeva,
sempre alla stessa ora, nella camera misteriosa.
Mentre mi trastullavo con questi progetti
virtuosi, avevo dato una scorsa alla finestra di fronte e, con mia grande
eccitata sorpresa, mi ero accorto che la tenda era stata tirata di lato.
La giornata era plumbea e probabilmente quel
gesto era stato sollecitato da un bisogno di maggior luce.
Tuttavia nella stanza non c'era nessuno.
Ovviamente mi ero immediatamente dimenticato
della mia decisione: l'università, il seminario, la birra serale, ogni cosa si
era dileguata al cospetto di una tale sorprendente novità.
Con gesti frenetici
avevo recuperato il binocolo e lo avevo puntato verso il riquadro sgombro della
finestra.
Ansimavo nell'analizzare i dettagli di quella
camera proibita.
Come avevo supposto era una stanza da letto e
infatti contro la parete troneggiava una sorta di baldacchino con leggere
cortine bianche: si intuiva proteggessero un ampio letto. Dunque la mia
inglesina sprofondava in quel sontuoso talamo retrò al fianco del quale si intravedeva
un elaborato comodino con sul ripiano un elegante lume e un paio di libri.
Il pavimento in
parquet era arricchito da un largo tappeto persiano sul quale era posta una
greppina rococò carica di cuscini.
In fondo c'era un grazioso paravento che forse
nascondeva uno spogliatoio e nella parete opposta si indovinava un piccolo
camino con le modanature in marmo chiaro.
C'era una porta in legno scuro di fronte alla finestra, naturalmente
chiusa, con alti battenti.
Cercavo con insistenza altri dettagli.
Una vestaglia di lucido raso di un rosso cupo
pendeva sull'angolo estremo del paravento, più in là un piccolo grazioso
scrittoio accostato alla parete era ingombro di cornici e di altri oggetti
minuscoli che non riuscivo bene ad identificare. Sulle pareti, tappezzate con
un parato delicato di un rosa antico, c'erano numerosi quadri i cui soggetti
non riuscivo a distinguere bene, mi sembravano per lo più ritratti e
composizioni floreali. Non riuscivo a scorgere ciò che l'alto baldacchino, con
i suoi eterei tendaggi, nascondeva però la gran parte della stanza mi era ormai
nota.
Tutto quello che
avevo visto cozzava con l'immagine della inglesina commessa di profumeria.
Per lei avevo immaginato un ambiente assai più
convenzionale: un lettino appoggiato alla parete, un pelouche sul guanciale, un
tavolino da toeletta con la specchiera, ingombro di tutte le cosine graziose
che le donne usano per farsi belle e, magari, un armadio dozzinale, un paio di
poltroncine scompagnate e qualche poster alle pareti.
A questo punto
dovevo rimandare la Principessina della Neve nelle sue nordiche lande e
ricominciare tutto da capo riprendendomi la mia licenza di immaginare.
Di rispettare il
programma che quella mattina mi ero imposto, non se ne parlava proprio.
Quello che dovevo
fare era spostare la scrivania contro il davanzale della mia finestra,
organizzare una postazione stabile con tanto di binocolo a portata di mano in
modo da non perdere mai di vista la stanza misteriosa, anche perché, prima o
poi, la mia sconosciuta sarebbe rientrata e avrebbe dovuto tirare la tenda per
oscurare l'ambiente.
Questa prospettiva
mi eccitava e così, sempre tenendo d'occhio la finestra, avevo cominciato a
spostare la scrivania con sopra i libri che costituivano il mio alibi, ma poi
mi era venuta un'idea grandiosa.
Dove diavolo avevo
riposto la mia macchina digitale?
Con quella a
portata di mano avrei potuto persino scattare delle foto e maneggiarle nel computer
a mio piacere!
Mi ero messo a cercare nei cassetti,
nell'armadio, sui ripiani della libreria e intanto pensavo alla mia donna
sconosciuta.
A giudicare dall'arredo la mia fanciulla
misteriosa poteva essere l'ultima erede di una antica dinastia.
Del resto il palazzo, che sorgeva di fronte al
mio, era una costruzione gentilizia che era stata lottizzata in una serie di
appartamenti signorili. Magari era la rampolla di una aristocratica schiatta ormai decaduta che
aveva dovuto disfarsi di tutti i beni posseduti, riservandosi solo
quell'appartamento, non a caso situato al piano nobile dello stabile.
Dovevo darle anche
un nome, certo.
Lucrezia mi
sembrava appropriato, in quanto all'età, pure per lei venticinque anni andavano
benissimo, sarebbe stata una mia coetanea e questo non guastava.
Lucrezia ovviamente
aveva un fascino particolare che le derivava dall'educazione e dall'ambiente in
cui era cresciuta. Ed era bella di una bellezza diafana e raffinata. Magari
viveva con una vecchia nonna invalida e lavorava presso qualche rinomato
antiquario della città. Al tramonto, dietro la tenda, restava con la sua
lingerie in seta e indossava la vestaglia di raso rosso che avevo scoperta
abbandonata sul paravento prima di abbandonarsi languidamente sulla greppina per
leggere il romanzo d'autore che teneva sul comodino.
Alla fine avevo
trovato la mia macchina digitale buttando all'aria gran parte della camera e,
trionfante, stavo per riprendere posto alla mia scrivania, quando mi ero
fermato di colpo.
La tenda della
camera misteriosa era tornata nella sua abituale posizione schermando il
riquadro della finestra.
Avevo gettato con
stizza la macchina fotografica sul letto e mi ero dato dell'imbecille per aver
perso l'occasione di vedere chi quella stanza occupava.
Comunque non
combinai nulla per tutta la giornata e rimasi in attesa del tramonto.
Finalmente la luce
dietro la tenda si era accesa: eccola la sagoma flessuosa della mia Lucrezia.
Riconoscevo le movenze eleganti della donna che sembravano misurati passi di danza.
Eccola disfarsi degli abiti sollevando le braccia, chinarsi per liberarsi delle
calze e poi scuotere la gran massa di capelli. Eccola allontanarsi verso il
fondo della stanza scomparendo quasi alla mia vista per poi ritornare verso la
tenda col gesto di chi annoda una cintura. Ora sapevo cosa sta indossando: la
lucida vestaglia di quel rosso cupo che magnificamente contrasta con la sua
carnagione diafana e con la gran massa di capelli dorati.
Al buio, in piedi,
accanto alla finestra non riuscivo a staccare gli occhi da quella figura
femminile e dal consueto andirivieni dietro la tenda.
Questo fino
all'epilogo consueto, con la figura che scompariva; solo che ora potevo più
concretamente immaginare Lucrezia che, scostando le cortine, si allungava nel
gran letto distendendo le belle membra e poggiando il capo biondo sul guanciale
prima di spegnere la luce che decretava, per me, la fine dello spettacolo.
Ma non delle mie
fantasie che continuavano pure nei sogni nei quali mi capitava di incontrare
fortuitamente la mia bella dirimpettaia e subito scoppiava tra di noi
un'attrazione fortissima che si consumava in un'infinità di amplessi nei luoghi
e nelle situazioni più disparate. Insomma finivo spesso, nel corso delle mie
nottate, con lo svegliarmi eccitato e sudato e così dormivo poco e male.
Certamente Lucrezia
mi turbava molto più di quanto non avesse fatto
Jocelyn, che, mi dicevo, in fondo era solo una ragazzotta ingenua e
timida e magari anche frigida.
Lucrezia, invece,
aveva un che di torbido, una passionalità che la sua eccellente educazione, il
peso di un gran nome e di una antica tradizione avevano in qualche modo
represso. Mi immaginavo far l'amore con lei su quel letto sontuoso, in
quell'ambiente raffinato, con quegli arredi eccessivi che avevano un che di
decadente. Insomma questa Lucrezia mi aveva davvero scombussolato!
Andai avanti con
questa frenesia per giorni e giorni, non uscivo quasi più dalla stanza convinto
che prima o poi la tenda, così com'era capitato, sarebbe stata aperta di nuovo
ed io non mi sarei lasciato sfuggire l'occasione per scoprire il vero volto di
Lucrezia.
I miei genitori
cominciavano a preoccuparsi, ma io li avevo rassicurati: stavo preparando un
esame tostissimo e non volevo essere disturbato.
Poi, capitò di
nuovo.
Una mattina, nello
svegliarmi, scoprii che la finestra della mia dirimpettaia era nuovamente
libera dall'ingombro della tenda.
Con un balzo, a
piedi nudi, mi fiondai alla mia postazione recuperando il binocolo.
All'inizio pensai
di essere ancora mezzo addormentato e che quindi avessi puntato in un'altra
direzione il binocolo. Ciò che vedevo non ricordava affatto l'interno che tanto
minuziosamente avevo osservato.
Invece no, non mi
ero affatto sbagliato!
La tenda tirata di
lato scopriva una gran parte della camera proibita.
Sul fondo c'era un
tatami con sopra un futon chiaro, accanto un
basso tavolino con sopra una catasta di libri e una lampada flessibile.
C'era un'intera
parete occupata da una libreria sulla quale c'erano innumerevoli volumi. Il
resto dell'arredo era costituito da pochi pezzi minimalisti: una poltrona di
linea moderna, un tavolo da lavoro essenziale con sopra un computer, delle
risme di carta, dei libri, una lampada
stilizzata a piantana, il verde di una kenzia rigogliosa, degli alti elementi
in legno chiaro simili a quinte che forse nascondevano un armadio con gli abiti
a vista.
Insomma sparito il
letto a baldacchino, sparita la greppina, sparito il caminetto. Persino il
parato non esisteva più, le pareti erano semplicemente tinteggiate di un panna
tenue e al posto del parquet mi sembrava di scorgere un comunissimo pavimento
di gres chiaro.
Continuai a frugare
nella stanza, con gli occhi incollati al binocolo, per ritrovare almeno un
particolare di ciò che avevo visto perché non potevo credere di aver avuto
un'allucinazione e alla fine, in terra, ai piedi del tavolo di lavoro avevo
scorto un mucchietto rosso cupo. Era la vestaglia di raso lucido, non ne avevo
dubbi, abbandonata, in una baluginante montagnola, sul pavimento chiaro!
Poteva essere una prova?
Ma non ne ero affatto convinto, perché il
dubbio, unito allo sgomento per quanto mi stava accadendo, cominciava a far
traballare le mie percezioni. Non ero affatto sicuro che fossero reali!
Tuttavia una parte
dei miei pensieri andava in un'altra direzione.
La camera non
poteva essere più quella di Lucrezia, mi dicevo lasciandomi invischiare
dall'ennesima fantasia, così come quella di Lucrezia non poteva essere
dell'Inglesina. In quell'interno poteva muoversi solo un'intellettuale un po'
snob, una ragazza impegnata, essenziale, battagliera, emancipata.
Eccola di nuovo la
mia immaginazione galoppare verso questa sconosciuta proteiforme la cui
identità si faceva ancora una volta sfuggente e indefinita!
Probabilmente la
mia dirimpettaia si chiamava Marzia, aveva per forza un nome che sintetizzava
la sua determinazione, però io ne avrei scoperto anche la dolcezza, la
femminilità, se suo era il corpo che vedevo ogni sera schermato dalla tenda
malandrina! E già pregustavo il momento in cui avrei visto le movenze di quella
creatura sinuosa, liberarsi degli abiti, accennare quella danza sensuale che
avrebbe alimentato i miei sogni tumultuosi. E questa volta avrei sognato un
amplesso grintoso con Marzia, una sorta di virago che avrei piegato alle mie
voglie, costringendola al piacere tra morsi e unghiate, fino a sentirla duttile
e domata tra le mie braccia...
Ma cosa stavo
facendo? Con un gemito mi ero preso il volto tra le mani, strizzando gli occhi,
battendomi i pugni sulle tempie. Sto forse diventando matto? Tutto quello che
penso, tutto quello che vedo è una mia lucida follia! Me ne devo convincere,
perché non posso continuare a farneticare come un pazzo. E infatti, nel rivolgere lo sguardo verso la
finestra della mia ossessione, la tenda era tornata al suo posto, schermo
velato e beffardo, sul quale proiettare l'ennesima mia sconfitta.
Non potevo accettare questo ulteriore inganno, dovevo sapere e per farlo
dovevo muovermi.
Come un invasato
avevo raccattato un jeans e una maglia, infilato scarpe e giaccone e mi ero
precipitato fuori di casa.
Fuori un vento
gelido spazzava la strada, ma io l'avevo attraversata quasi correndo incurante
del traffico e mi ero fiondato verso il marciapiedi opposto aggirando lo
stabile, per giungere trafelato all'ingresso principale.
C'era un vecchio
portiere nella guardiola che sfogliava una gazzetta dello sport e che mi aveva
rivolto uno sguardo perplesso e interrogativo.
“Cerco la ragazza
del secondo piano – avevo balbettato – una alta, snella, con una massa di
capelli che però porta raccolti, solo la sera li scioglie e li scuote così e
così...” non mi rendevo conto di essere
ridicolo, ma forse il vecchio era un po' duro d'orecchio perché si era
avvicinato al vetro della guardiola accostando la mano al padiglione: “Ehh?” mi
aveva fatto ed io avevo ripetuto la domanda a voce più alta omettendo quella
stupida oscillazione della testa.
“Ma figlio mio,
quale ragazza? il secondo piano è sfitto da sei mesi... il proprietario ora
l'ha messo in vendita. Guardate là c'è pure il cartello: in vendita.”
Non poteva essere
vero! Ma se io ogni sera, da un paio di mesi ormai, vedevo qualcuno muoversi
dietro la tenda...
E allora avevo
cominciato a straparlare e avevo raccontato al vecchio ciò che ogni sera vedevo
dalla mia finestra, ovviamente avevo evitato i particolari bizzarri, ma avevo
insistito con l'affermare che sicuramente qualcuno, a sua insaputa, abitava
l'appartamento.
Non so perché il
vecchio si lasciò convincere, forse la mia insistenza e la mia petulanza
l'avevano irritato, forse si era stancato di star lì in guardiola a non far
niente e quindi aveva deciso di sgranchire le gambe, o forse semplicemente
voleva togliermi di torno o forse ancora gli era venuto il dubbio che io avessi
ragione e magari quella verifica andava fatta per escludere una sua
responsabilità.
Insomma alla fine
avevamo preso l'ascensore e il portiere aveva infilato le chiavi nella toppa,
mentre io alle sue spalle trattenevo il respiro.
L'appartamento era
in penombra e tutte le stanze risultavano malinconicamente vuote prive d'arredi
com'erano. C'era l'odore sgradevole delle case rimaste troppo tempo chiuse, un
odore stantio di polvere e di vecchi effluvi.
Il vecchio
arrancava in giro, spalancava porte, percorreva corridoi: gli ambienti erano
numerosi ed io lo seguivo disfatto cercando di orientarmi verso la camera che
dava sulla mia finestra.
Finalmente dopo un
piccolo disimpegno eccola la porta dagli alti battenti che immetteva nella
stanza proibita. Di fronte ad essa c'era la finestra schermata dalla tenda
familiare.
Con un balzo mi ero
fiondato all'interno. La stanza era desolatamente vuota: il pavimento era
ricoperto da una brutta moquette e le pareti erano in più punti scrostate.
“E allora vi siete
convinto che non ci sta nessuno, nemmeno i topi?” aveva detto il vecchio
prendendomi per un braccio e poi aveva aggiunto strizzandomi l'occhio e
ridacchiando “Che la ragazza con i capelli che fa così e così, qua non ci sta,
ma forse sta solo nella capa vostra?“
Avevo dato un
ultimo sguardo intorno e stavo per seguire il vecchio quando avevo notato
sporgere sul pavimento, ai piedi della tenda, un lembo di tessuto di un rosso
cupo.
Mi ero chinato per
raccogliere tra due dita quel triangolo di stoffa lucida e avevo tirato fuori
un impalpabile indumento femminile.
Eccola la vestaglia
di raso!