di Claudio Cajati
Mi
chiamo Italo Annarumma, e faccio il pugile.
Veramente
è un ripiego perché io volevo fare qualcosa meno banale, meno violenta, più
intellettuale, ecco.
Per
esempio il politico o lo scienziato o il docente universitario. Mi è sempre
piaciuta la Facoltà di Lettere e Filosofia. E, facendo grandi sacrifici
economici perché sono di famiglia umile, mi ci sono pure laureato, a pieni
voti: ho cervello e volontà, io.
Ma
la carriera che mi sarebbe piaciuto fare, non me l’hanno permessa: bisognava
stare in un certo giro, praticamente una ristretta lobby dai modi mafiosi;
leccare il culo alle persone giuste e dare addosso a quelle, diciamo così,
sbagliate; stare sempre a disposizione di Preside e Direttore di Dipartimento;
sacrificare idee e ricerche personali pur di fare gioco di squadra; essere
disposto ad accettare perfino le avances
di qualche professoressa bruttina ma decisiva per i concorsi e le
pubblicazioni.
E
io tutto questo non ho saputo, non ho voluto farlo. Così la mia laurea è
rimasta un fiore all’occhiello – per sfottò in palestra mi chiamano Italo ‘o
professo’ – e quel fiore è appassito miseramente in un cassetto.
Intanto
ho scoperto presto che, oltre a essere un bel ragazzo (sempre un esercito di
ragazze a farmi il filo), ero capace di fare a pugni. Un talento naturale. Una
macchina micidiale, perfezionata poco alla volta con le istruzioni tecniche del
mio maestro, un pugile navigato.
Ho
solo ventun anni, e ho già sostenuto più di dieci incontri. Tutti vinti prima
del limite, con ko spaventosi. Praticamente, nella mia categoria, i
mediomassimi, sono il terrore del ring. E al soprannome ‘o professo’ se n’è
sostituito un altro: Attila.
La
mia ragazza, Loredana, di buona famiglia, è laureata in Scienze Politiche. Lei
è sempre preoccupata che io possa farmi male sul ring, ma ho preso finora
talmente pochi colpi che la mia faccia è integra, e rimango il bel ragazzo di
sempre.
Con
Loredana mi piace parlare di cose importanti. Letteratura, filosofia,
giornalismo, politica. Soprattutto di politica, argomento di cui lei è
particolarmente esperta. Mi fa capire tante cose, mi aggiorna sulle questioni
che il governo sta affrontando. Lei si infervora, io mi appassiono.
Ultimamente
mi ha colpito ed entusiasmato questo concetto, che è diventato come un
tormentone in tv e sui giornali: “Metterci la faccia, e lottare”. I politici,
che spesso enunciano una battaglia da condurre, ma poi si defilano, tornano
nell’ombra, e lasciano cadere quegli obiettivi per cui avevano promesso di
volersi battere, adesso fanno autocritica e promettono, spavaldi: “Ci metto la
faccia, per questo risultato mi batto a viso aperto... io ci metto la faccia”.
La
cosa mi è piaciuta tanto che mi sono sentito inadeguato se non la adottavo
anche io. E io potevo farlo da pugile, ho pensato. Cosa significava per me, sul
ring, “metterci la faccia”? Certamente non adottare una tattica attendista,
prudente, con la guardia davanti alla faccia chiusa a serranda. Se dovevo
metterci la faccia, ebbene dovevo combattere a viso aperto.
E
così ho deciso di fare. Senza avvertire il mio allenatore, sin dal prossimo
incontro. Quello con Romano Ferraro, che l’ho sempre battuto facilmente.
.
. . . .
Italo
Annarumma non l’avevo mai battuto.
Anzi
con lui non ero mai riuscito ad arrivare alla fine dell’incontro. Era sempre la
stessa storia: un ko, anche parecchio prima dell’ultimo round. I suoi pugni
erano pesanti, fulminei, micidiali. E, per quanto tentassi di scansarli con
abili schivate, con movimenti elastici sul tronco, lui mi beccava sempre.
Finivo con il muso sul tappeto, senza speranza di rialzarmi.
Ma
stasera è stato diverso. Stasera l’ho battuto facilmente. Ho fatto proprio un
figurone.
Però
è stata una vittoria strana. Lui non ha pugilato come al solito. Di solito ha
una guardia alta e praticamente impenetrabile, da dietro alla quale
improvvisamente porta i suoi jab micidiali. E allora l’unica possibilità è
cercare di colpirlo basso, al fegato.
Ma
stasera teneva la guardia bassa, bassissima, avanzava spavaldo verso di me, con
la faccia in avanti, come se mi volesse provocare. Colpiscimi, colpiscimi. Per un momento ho pensato che si fosse
montata la testa, che volesse imitare, nientemeno, il grande Cassius Clay.
E
siccome lui, per quanto bravo, della classe di Cassius Clay non ha nemmeno un
briciolo, subito mi sono detto: Ora lo
castigo, ‘sto presuntuoso. E così ho fatto. È stato un gioco da ragazzi:
lui continuava a venire avanti con la faccia nuda, indifesa. Io l’ho tempestato
di pugni, agli occhi, agli zigomi, alla mascella. L’ho ridotto una maschera di
sangue, che mi faceva impressione anche a me.
Mi
è crollato giù, ko, già al terzo round. Devo dire che sono stato contento di
batterlo finalmente, questo è ovvio, ma non ne ho cavato poi una grande
soddisfazione: è come se lui mi si fosse consegnato, come se con la sua tattica
scriteriata avesse voluto farmi vincere.
Vai
a capire perché!