Le due ragazze camminavano svelte,
determinate e addirittura ilari sui loro trampoli da sedici centimetri.
Procedevano con il passo precario ma sostenuto di chi non può concedersi il
lusso di non avere fretta.
Andare in banca, presto, erano già le
8 e 20. Occupare con orgoglio e iattanza i loro posti di massima
responsabilità. Direttrice, Barbara; Revisora dei conti, Divina.
Eppure, di fronte al gigantesco
cartellone, rutilante e torbidamente ammiccante, issato in piazza dei Maschi Puttani,
non ce la fecero a far finta di niente. Dovettero rallentare. Anzi proprio
fermarsi. E scrutare con attenzione, mentre eccitate si leccavano
meccanicamente le labbra.
Lui, il maschio superdotato del
cartellone, ostentava, appena velato dietro uno slip trasparentissimo, il suo
membro abnorme. Dote evidente di un superbo stallone.
Era solo una foto, ma sembrava che già
il grande coso maschio pulsasse e premesse contro il fragile diaframma di
organza. Come se fosse sul punto di sgusciare fuori e raggiungere chissà quale
fica fortunata.
Barbara si leccò ancora, con
automatico abbandono al desiderio, le labbra morbide di burro di cacao. Poi
diede un colpetto sul braccio di Divina e, con una leggera oscillazione del
capo, le fece cenno che purtroppo toccava loro andare. Anzi proprio
affrettarsi. Essere perfettamente in tempo per l’apertura della banca.
Soprattutto per poter torchiare i dipendenti in ritardo, anche minimo. Meglio
se maschi.
E in effetti qualcuno degli impiegati
era in leggero ritardo. Niente di straordinario, un cinque minuti. Ma una somma
di tre ritardi, anche piccoli, lo sapevano, avrebbe comportato una punizione.
Solo che nessuno aveva mai accumulato tre ritardi, e in cosa potesse consistere
questa punizione non era dato sapere.
Lo seppe però quella mattina tal
Mattia Filippetti: bell’uomo, cassiere, single, pendolare, sempre alle prese
con gli autobus, e con i loro ritardi, che lo portavano da casa nei pressi
della banca.
Quella mattina il Filippetti aveva
quasi dieci, dico dieci, minuti di ritardo. La cosa grave era che questo
ritardo si sommava a due precedenti, di minore entità, ma questa non era
un’attenuante. C’erano gli estremi perché scattasse la punizione. Quale che
fosse.
E infatti subito Barbara, la
Direttrice, lo convocò nella sua stanza. Filippetti entrò timido e irresoluto,
ma comunque con tutto il suo innegabile bell’aspetto.
“Filippetti, lei si rende conto della
sua posizione? Tre ritardi tre, dico... – esordì severa la Direttrice – e
insomma non posso fare a meno di procedere a infliggerle la punizione
prevista...”
Mattia Filippetti guardava nel vuoto,
cercando di placare l’ansia.
“Che poi, caro Mattia – e qui la sua
voce si faceva suadente, insinuante, seduttiva – è una punizione per modo di
dire, è una punizione tanto piacevole da non essere in effetti una
punizione...” La Direttrice fece un sorriso che voleva essere maliardo. E
scoprì la sua dentatura storta, come un po’ storto e sgradevole era tutto il
suo corpo.
“Una punizione piacevole? In che
senso?” osò chiedere Mattia Filippetti, perplesso e nient’affatto rassicurato.
“Ecco vedi, Mattia – la Direttrice
aveva adesso una voce roca e cupa – ti chiedo di farmi un servizio, sì diciamo
così, ecco, un servizio...” Avanzò verso il Filippetti, all’improvviso gli
prese con forza il volto fra le mani, lo spinse verso il basso, fino a che lui,
soggiogato e basito, dovette inginocchiarsi. E a questo punto in un istante si
aprì la gonna, scostò di lato lo slip. “Dai Mattia, dai... con la bocca... su,
dai...”
Filippetti non aveva molta voglia di
obbedire: la Direttrice non gli piaceva, non lo eccitava. Ma sapeva bene chi
comandava in banca e in tutta la città. Le donne, anzi, per meglio dire, le
femmine. Se non obbediva, la Direttrice l’avrebbe potuto licenziare, senza un
sindacato che lo potesse difendere: anche a capo del sindacato c’era una
femmina, e certo non era impegnata a difendere i maschi.
Filippetti ruppe gli indugi. Si mise a
leccare. Senza voglia ma con zelo.
La Direttrice, alla fine, lo carezzò a
lungo affettuosamente in testa. Come si carezza un cane fedele, che è stato
buono.
Filippetti si rialzò in fretta. Fece
la mossa di guadagnare subito l’uscita.
“Un momento, Filippetti, un momento.
Aspetti ad andare via...” Filippetti la guardò costernato, temendo il peggio.
“Vedi, caro Mattia, tu sei molto bravo, proprio bravo... sono rimasta
soddisfatta, più che soddisfatta. Voglio fare un regalo alla mia amica Divina,
la Revisora dei conti... Vai da lei, la sua stanza è qui affianco, lo sai no? e
fai anche a lei...”
Filippetti ebbe l’impulso di
svignarsela. Anche la Revisora dei conti non era affatto una bella donna. E
insomma a lui non piaceva per niente. Ma poteva mai osare ribellarsi?
Disobbedire alla Direttrice da cui il suo impiego e la sua carriera
dipendevano?
Ebbene obbedì.
Alla fine di quest’altro servizio la
lingua gli si era irritata, gli dava fastidio. Ma era contento perché aver
obbedito gli dava garanzie sul suo futuro. Obbedire alle femmine poteva essere
una necessità vantaggiosa. Loro, se volevano, sapevano come premiare i maschi
disponibili.
Adesso Barbara e Divina si
compiacevano a scambiarsi i gustosi eccitanti dettagli delle leccate di Mattia
Filippetti: la velocità, la pressione, le pause, il tempo che ci avevano messo
ad arrivare. E ridacchiavano trionfanti e beffarde: ancora una volta avevano
umiliato, piegato alle loro voglie, un maschio. Era una pacchia insomma essere
femmine.
Mancavano molte ore alla fine della
giornata lavorativa. Ma già Barbara e Divina pregustavano il momento in cui,
rincasando, avrebbero trovato i loro solerti maritini, armati di grembiule e
cuffietta, intenti a preparare un bel pranzetto. E guai a loro se avessero
sbagliato qualcosa come la qualità degli ingredienti, le spezie, la quantità di
sale, il tempo di cottura. Si sarebbero abbattute su loro grida feroci, e non
blandi rimproveri.
In un mondo per femmine, per i maschi
non c’era nessuna indulgenza.