Karel Blechen, La Valle dei Mulini
La Valle dei Mulini di Almalfi
di Giacomo Ricci
Volete seguirmi in un viaggio straordinario?
E quando dico “straordinario”
faccio sul serio.
Vi voglio parlare della Valle dei
Mulini di Amalfi.
Non l’avete mai sentita nominare?
Ne avete notizia ma non sapete dov’è?
E allora è il momento di saperlo.
Vi sto parlando di un tuffo nel
passato. Proprio come se avessimo a disposizione la macchina del tempo.
Stiamo per montarci sopra e dirigerci indietro. Nell’alto medioevo.
L’Amalfi medievale, quella che
anche giù, lungo la costa, il turismo organizzato spesso cerca di rievocare nei
suoi lontani fasti, nella Valle dei Mulini sopravvive con sorprendente chiarezza di forme
e di sapore.
E’ tutto lì, sotto i nostri occhi,
ancora a nostra disposizione.
Un museo ambientale, diffuso,
aperto, del tutto involontario. Slegato dall’organizzazione degli uomini. Che per
caso sopravvive. Per fatti suoi. Che anzi se c’è ancora è proprio perché gli
uomini non ci hanno ancora messo gli occhi sopra. Perché è difficile e faticoso
arrivarci, non ci sono strade e bisogna percorrere sentieri impervi in salita e
a piedi.
E perché qualche vecchio commissario
della forestale che ama il suo lavoro fa di tutto perché questi posti rimangano
lontani, sconosciuti alla larga massa. E se ci vuoi andare, fin dentro, c’è
bisogno che ti accompagnino. Ti sorveglino.
A nessuno piace essere sorvegliato
a vista. Ma in questo caso quelli della
forestale fanno bene. C’è un pezzo di natura, creature viventi che devono essere
protette da noi umani. Perché siamo pericolosi.
Specie se accecati dalla voglia di
guadagno, dal profitto.
La Valle dei Mulini è adagiata
lungo una delle tante, grandi fratture che attraversano i banchi rocciosi della
costa dal mare fin nell’interno. Quelli
che da queste parti si chiamano “valloni”.
Il vallone del quale parliamo ha la città di Amalfi alla
sua fine, affacciata sul mare. Poi, salendo verso l’interno, si passa per la Valle dei Mulini e, più su, verso
le montagne più alte, c’è la Valle delle Ferriere.
E’ in quest’ultima parte che è
vietato andare. Bisogna avvertire la forestale, prendere un appuntamento ed
essere accompagnati da una guida.
Mai provvedimento fu più utile.
Non possiamo stare mai del tutto
sicuri.
Dobbiamo fare presto, prima che
qualcuno ci pensi e l’orribile sciagura del “recupero” dell’ambiente e la sua ristrutturazione
turistica avvenga. Se facciamo a tempo possiamo ancora assistere a questo
spettacolo di persona. Prima del
disastro prossimo venturo. Che di sicuro verrà.
E vedrete l’immagine di una
civiltà che usava l’energia che aveva sotto mano. Che sapeva approfittare della natura e di quello
che questa aveva da offrirgli.
Oggi possiamo dire che gli uomini
nel passato modificavano bene l’ambiente. Naturalmente non lo facevano per
buona grazia. Ma perché non avevano altre possibilità. E usavano tecnologie
assolutamente meno devastanti delle nostre.
Niente plastica, petrolio, gas,
energia atomica. Niente energia elettrica, lampadine, frigo, lavatrici,
lavastoviglie. Niente detersivi al fosforo che inquinano in maniera perenne le
acque, diossina o idrocarburi. E soprattutto niente cemento. Lasciatemelo dire,
da architetto.
Impastavano pietre con calce, sabbia, in alcuni casi lapillo,
frammenti di laterizi e … sapienza. Queste le tecniche, questi i materiali
delle costruzioni sparse della Valle dei Mulini che oggi sopravvivono come
ruderi.
E poi, solo l’acqua e il sole. Il
bosco e la roccia.
Qui nella valle dei mulini è celebrata,
quando il viandante ha orecchie capaci di ascoltare, un’incredibile sinfonia.
Fatta del rumore dell’acqua del fiume Canneto che scorre verso il basso, infiltrandosi
in cale, cadute, anfratti, spaccature, formando polle, specchi d’acqua, cascate,
rivoli che s’infilano nella terra e sbucano all’improvviso sotto i piedi, tra
le rocce, nell’erba, nei grandi cespugli e tra gli alberi dall’altissimo fusto.
Del canto degli uccelli e dei sibili del vento che s’infila tra i rami e gli anfratti
nelle rocce, slitta e sale lungo le rupi e poi rotola verso il basso.
E poiché siamo molto lontani dalle
strade e dai residui dei motori a scoppio, tutto profuma. D’erba fresca, muschio,
di sottobosco, di selvatico.
E, ai lati, alberi altissimi. Tanto
fitti da farci intravvedere solo a tratti il cielo azzurrissimo e le pareti
rocciose che se ne scendono a picco da Pogerola e Scala, immergendosi nel verde
intenso del bosco. Un ambiente che non avremmo mai pensato potesse esistere
nella costiera amalfitana, così autentico e selvaggio.
La sensazione è quella di essere
lontani. In un mondo perduto, fuori dal tempo.
In pieno agosto, quando la
temperatura in riva al mare supera i quaranta gradi, qui, immersi nel verde
fitto attraversato dall’acqua fresca e
veloce, un brivido ci scorre lungo la schiena e il respiro si fa profondo,
cattura ogni profumo, ogni umore che ci
circonda.
L’alito piacevolmente freddo degli
alberi ci scorre sulla pelle e il profumo delle erbe e delle siepi ci riempie i
polmoni, quasi stordendoci.
Al punto che, con il tempo, si fa lontano anche lo spazio.
A questo punto a me vien voglia di
sedermi. E lo faccio. A un passo dal fiume che scorre verso il basso. Verso la
città. Infilandosi in passaggi nascosti, passando sotto ponti di legno, tra gli
alberi.
Il rumore dell’acqua e le sue particelle
che se ne vanno in sospensione nell’aria attraversate dalla luce che filtra tra
i rami e si scompone nei suoi colori è un miracolo.
Il miracolo dell’acqua, uno dei
principi ben conosciuti dagli architetti giardinieri del passato che su questo
elemento e il suo movimento hanno costruito le più belle architetture di tutta
la storia dell’uomo. Non si costruisce un giardino d’incanto senz’acqua.
Ma il vero miracolo della Valle
dei Mulini non ve l’ho ancora descritto. Un momento di pazienza che ci
arriviamo.
Mi sono fatto prendere la mano. Ho
corso troppo. L’ansia dell’acqua e della sua contemplazione m’hanno rapito. Ma
all’acqua ci dobbiamo arrivare, a poco alla volta. Arrampicandoci sopra la montagna
di Scala per un lungo sentiero. Prima di sederci ai lati del fiume dobbiamo
fare un lungo percorso.
Torniamo indietro. Vi descriverò, come posso, ogni suo elemento.
Si può arrivare nella Valle dei
Mulini partendo dal basso. Da Amalfi, cioè. Dalla spiaggia. Si attraversa la
porta della Marina, si passa per il largo del Duomo e, dopo uno sguardo
meravigliato ai mosaici dorati di Domenico Morelli in alto nel timpano, si prosegue
per via Marini, sempre dritto. E si sale, inerpicandosi per il vallone.
Ma è una strada che non consiglio.
E’ percorso adatto a conoscere Amalfi, ma non la sua valle che è molto più in
alto, ai piedi delle montagne. E’ più suggestivo e meno faticoso arrivarci
dall’alto e scendere.
la Valle dei Mulini e il percorso da Pontone
Si va a Pontone, frazione di Scala,
e si sale verso la Valle delle Ferriere, prendendo di “spalle”, per così dire,
Amalfi e la sua Valle dei Mulini.
Il punto di partenza è la
piazzetta San Giovanni di Pontone, di fronte alla piccola chiesa dedicata allo stesso santo.
Si tratta di un luogo particolare. Devo qui raccontare la sua storia singolare.
A Pontone, fin dall’alto medioevo,
si lavorava la lana.
Il materiale grezzo proveniva dalle
Puglie e, caricato sulle galee della repubblica, giungeva al porto di Amalfi.
Da qui la lana, era trasportata, in voluminose balle a dorso di mulo, per
sentieri appesi e scale fino a Pontone.
La lana era poi radunata nella
piazzetta San Giovanni. Per essere lavata. Perché il piccolo slargo è costruito in
maniera da trasformarsi in vasca nella quale lavare la lana. Qui era versata l’acqua, durante tutta la
notte.
L’acqua vi giungeva convogliata da
una rete di canali che scendevano dalle montagne di Scala. I canali erano
un’opera di intelligente ingegneria destinata non soltanto a dirottare l’acqua
delle sorgenti verso la piazza ma anche a distribuirla con sapienza nei terreni
agricoli del circondario per irrigarli.
E comprendiamo come la saggezza e
l’astuzia degli uomini siano state in grado di sfruttare le difficoltà del
terreno scabroso, impervio e inospitale della Costiera, come occasioni, potenzialità creative, con idee, in qualche
modo, geniali.
L’idea di fondo, che trasforma
questa natura faticosa in una potente alleata dell’uomo, gira, da queste parti,
sempre intorno all’acqua e al modo di utilizzarne l’energia. Un impiego
intensivo, intelligente e brillante.
L’acqua cade dall’alto e corre
veloce: in fisica si dice che possiede
un’energia potenziale e una cinetica, due modi per restituire la vitalità
naturale che acquisisce nel suo lungo
percorso.
Dunque l’acqua proveniente dalla
montagna colmava la piazza che si trasformava in una piscina usata per mettere
a bagno la lana grezza.
Per la durata di un giorno la lana era rimestata e lavata con erbe
saponarie e con urina animale. Veniva poi travasata in vasche di acqua calda
mentre l’acqua sporca della piazza-piscina era scaricata via attraverso un lungo canale che scorreva sulle
pareti laterali della chiesa e poi,
attraversando la campagna e le rocce, giù, fino a raggiungere il Canneto.
A chi si trovi per la prima volta
nella piazza San Giovanni e osservi la facciata della chiesa non sfugge un
curioso particolare architettonico.
Una semicolonna è infilata nella parete principale a poca distanza dall’ingresso. Ciò che colpisce è il fatto che la colonna è messa in maniera, per così dire, “innaturale”, perché fuoriesce in orizzontale dal muro, proprio come una mensola alla quale appenderci qualcosa.
Pontone - Chiesa e campanile di San Giovanni
Una semicolonna è infilata nella parete principale a poca distanza dall’ingresso. Ciò che colpisce è il fatto che la colonna è messa in maniera, per così dire, “innaturale”, perché fuoriesce in orizzontale dal muro, proprio come una mensola alla quale appenderci qualcosa.
E non si può fare a meno di
chiedersi il perché.
L’ultima volta che mi trovai da
quelle parti incontrai Francesco.
«Chi è?», chiederete.
E’ un mio amico, impegnato nella
politica di Scala, suo Comune di nascita. Ma è, soprattutto, un appassionato
cultore della storia del suo paese.
Ogni volta che c’incontriamo ci facciamo
molte feste. Mi offrì il caffè nel piccolo bar sulle scale che portano verso la
Valle delle Ferriere.
Da lì vidi ancora la curiosa
colonna “orizzontale”.
Mi guardò negli occhi e indovinò i
miei pensieri.
La prese da lontano, come se
volesse creare un po’ di suspense nella
storia che stava per raccontarmi.
«Professo’, ti stai chiedendo che
ci fa quella colonna curiosa, essa sola in mezzo a quella facciata della
chiesa?».
Annuii.
Sorrise.
«Serve da riparo» disse, con la
faccia furba, di chi era certo che non avrei capito.
«La colonna? Meglio una pergola
per ripararsi dall’acqua» dissi, facendo la parte dello scemo. Così lui ci
provava più gusto a raccontarmi la storia. Che, intuivo, doveva essere in
qualche modo intrigante.
«E quando mai l’acqua in costiera
è stata un problema? I nostri nonni hanno campato grazie all’acqua. L’acqua è
sempre una benedizione per i contadini. In specie per i nostri che campavano nello
stretto. Il terreno dei terrazzi è sempre poco e povero. L’acqua in grande
quantità lo benedice» disse con un largo sorriso.
«E già» convenni.
«L’acqua è benedetta da queste
parti. E’ energia. E’ vita. Tutto si muoveva, fin dal medioevo, grazie all’acqua.
La vedi questa piazza? Qua a botta di piscio di vacche e capre e acqua si
lavava la lana».
«Mbè questo lo so. Me l’hai già
raccontato davanti a un buon bicchiere di vino».
Qualche tempo prima, in una
piacevole serata estiva e in una tavolata di amici in un terreno dalle parti
dei ruderi di Sant’Eustacchio, mi aveva raccontato tutta la storia della lana e
dei lanaiuoli medievali di Scala.
«Della colonna non mi hai mai
detto nulla» aggiunsi.
«E’ una sola per risparmiare spazio e soldi».
Dovetti fare la faccia di chi non
ha capito.
«Come vedi la chiesa non ha un
porticato. La costruirono i maestri della Corporazione della Lana al posto di
un vero porticato. Che avrebbe sottratto spazio alla piazza e alle sue
funzioni e che sarebbe costato
certamente molto di più. Tanti secoli fa, la corporazione era un’istituzione
per gli Scalesi. Tutto era governato dai maestri lanieri. Tutta la vita civile».
«Mi stai dicendo che, a differenza
di tutto il sud d’Italia, infeudato e violento, qui, all’ombra della Repubblica
di Amalfi c’era un comune basato sul lavoro che non aveva niente da invidiare
alle libere città d’Europa e ai comuni del centro d’Italia?».
«Professo’, comm’è bello ave’ a
cche ffa con le persone intelligenti. Hai capito tutto. La Corporazione
difendeva Scala, i cittadini, le donne, provvedeva a prestare qualcosa di soldi
a chi si trovasse in difficoltà e alla dote delle ragazze da marito e anche a chi
chiedeva asilo politico. Chella meza culonna serviva proprio a questo».
Rimase un attimo in silenzio come
gli esperti narratoti dei tempi antichi. Mi teneva sulla corda.
«E allora?» feci io, ormai incuriosito.
«Chi era perseguitato, da
chiunque, da nu rre, dalla legge di un ommo putente, si metteva sotto ‘a culonna.
Che aveva la funzione di un portico, che copre da sempre un territorio
protetto. Accussì il perseguitato di turno era al sicuro. Non lo potevano
toccare. Era entrato sotto la protezione della Lana. Si affidava alla Corporazione
dei lanaiuoli di Scala. E loro gli assicuravano giustizia. Con il loro tribunale,
nella loro terra, dentro la chiesa che era il nostro luogo pubblico, il nostro
tribunale, la nostra casa di scalesi, veniva giudicato in maniera imparziale. E
se lo meritava godeva della protezione di tutta la popolazione. Alla faccia dei
potenti della terra. Hai capito mo, professo’, perché chella culonna per noi è importante? E’
il simbolo del nostro popolo, della nostra memoria, della nostra libertà».
Quella mezza colonna delimitava
uno spazio al di sotto, nel quale era valido il diritto di asilo.
Chiunque, perseguitato a qualsiasi
titolo dalla legge o da un potente o, al colmo della sventura, dalla legge di un potente, si fosse posto
sotto questa colonna non poteva essere arrestato se non dopo
un regolare processo governato da giudici imparziali i quali sarebbero
stati nominati dagli stessi responsabili
dell’Arte della Lana.
Appresi che all’ordine della lana
si deve anche la fondazione di un “Pio Monte dell’Arte della Lana” che aveva lo
scopo di proteggere, sotto il profilo economico, gli aderenti alla corporazione, in caso di malattia, morte
e di costituzione della dote per le
figlie.
«Allora sei diretto alle cartiere?»
mi chiese Francesco.
«Sì. E’ la prima volta che ci vado».
«Che bellezza! Sei in procinto di
fare una grande scoperta. E provare una grande emozione» disse orgoglioso. Con
l’ansia di chi ha in cassaforte dei gioielli e li ha conservati solo per mostrarli a un caro amico. Un collezionista di quadri e
di bellezze che gode nel vederle e farle vedere.
Mi presentò un suo amico che in
quel momento s’era affacciato alla porta del bar.
«Il signore che vedi è un
commissario della forestale. Siamo diretti per un’ispezione alla Valle delle
Ferriere. Faremo un pezzo di strada assieme. Poi al bivio, noi proseguiremo
verso l’alto e tu ripiegherai in basso, verso il vecchio edificio della
Ferriera e da lì, scenderai verso Amalfi».
Il nostro percorso partì dunque dalla
chiesa del Battista per dirigersi lungo il sentiero che portava fuori dalle
case di Pontone, e s’avviava verso la ferriera
di Amalfi.
Proseguendo in questa direzione ci
incamminammo lungo una mulattiera che prosegue
lentamente e dopo un iniziale tratto in salita, lungo il quale incontrammo
vecchi casali e fitti pergolati di uva, il viottolo sterrato scendeva verso il
basso, costeggiando la Valle dei Mulini.
Lungo il tragitto scoprii
campanule, erbe aromatiche, piante speciali, antichissime felci, e i bombi, insetti
intenti a raccogliere polline.
Quelli che erano lì sotto i nostri
occhi, immersi in uno spettacolare fascio di lavanda odorosissima, appartenevano
alla famiglia del bombus pascuorum.
Bombus pascuorum
Scorsi negli occhi della vecchia
guardia forestale un che di commozione mentre mi mostrava come
quell’incredibile insetto dal corpo rotondo e massiccio, color giallo dell’oro,
saltava da un petalo all’altro e raccoglieva polline nelle piccole sacche che
aveva legate alle zampine posteriori.
Mi parlarono di questa specie come un miracolo del bosco e della campagna,
diffusissimo in costiera, un imenottero impollinatore
senza il quale la natura entrerebbe subito in crisi e di come fossero preziosi
per moltissime coltivazioni.
Erano commossi Francesco e il suo
amico della forestale a vederli in azione, passare di fiore in fiore.
La valle dei mulini ora, a quel
punto del nostro cammino, la si vedeva dall’alto, stretta tra i due fianchi rocciosi
calcarei.
Sentivamo chiaro e distinto il
rumore dell’acqua del fiume che correva veloce verso il basso, verso Amalfi e
il mare. Ogni tanto, tra gli alberi,
spuntava un edificio, un rudere, un tetto divelto, una copertura a falde. Erano
le cartiere, quelle che tra un po’ avrei visto da vicino, quello che ne resta.
Ruderi di cartiera
Proseguimmo. Più innanzi, dopo
aver doppiato un ponte e un piccolo casotto
con un finestrino in pietra
lavica, risalente al primo impianto dell’ acquedotto amalfitano di epoca
fascista, giungemmo al bivio. Qui ci lasciammo.
Proseguii da solo. E, dopo un po’,
mi apparve la vecchia ferriera di Amalfi.
Ciò che vidi non fu l’edificio ma
un insieme di rovine completamente immerse nel bosco.
E qui assistetti al miracolo dell’acqua.
Di scorcio vidi il corso del fiume
che scendeva dall’alto e si allargava in un’ampia polla d’acqua trasparente,
tra altissimi alberi e, sullo sfondo, le montagne e la valle alta delle
ferriere.
Qui ragazzi in gruppo sedevano,
scherzavano, guardavano, godevano di quell’ambiente che sembrava tratto da un
antico racconto.
I ruderi della ferriera erano
attraversati dall’acqua e dal verde.
Il Canneto s’infilava dappertutto,
scorreva sulle antiche coperture della fabbrica, al di dentro, al di sotto,
sbucava da più parti e cadeva, rumoroso, all’interno di locali oscuri come
grotte, in mille rivoli che si ricongiungevano, più in basso, nell’alveo del
fiume.
Anche il vecchio ponte di caduta,
che in origine serviva per mettere in moto mantici e magli, era ancora
attraversato dall’acqua che si gettava, alla fine, di sotto. Un ponte che, secondo
la tradizione costruttiva delle antiche maestranze della costa, mostra gli
archi di sostegno privati dei rinfianchi, in un’essenziale e sofisticata
semplicità strutturale, inconsueta ma non priva di una sua sobria bellezza .
Il Canneto
E gli alberi attraversavano
stanze, locali e finestre, completamente ricoperti da muschi e cespugli. Solo
l’immaginazione faceva comprendere che si trattava di vecchie opere fatte dalla
mano dell’uomo. La natura che si impadronisce di nuovo dello spazio, piega
tutto al suo dominio, invade, s’arrampica, s’infila, ricopre.
Camminavo lentamente. Osservavo.
Provavo meraviglia.
Mi sentii fuori dal mondo. Quasi
stordito dal profumo del bosco e dal
rumore della grande massa fluida che precipitava di sotto, verso la valle.
Ebbi la sensazione di essere in
uno dei tanti acquerelli dipinti dai visitatori dell’Ottocento. Karel Blechen,
Carelli, Gigante. Vedevo dal vero quello che loro avevano ritratto nei loro
dipinti famosi.
E, di colpo, la mente sgombra
d’ogni pensiero, mi sentii felice.
Capii Thoreau e la sua vita nei
boschi.
Il desiderio irrefrenabile di
scappare via.
Karel Blechen, La Valle dei Mulini
Sullo sfondo la ferriera
Mi fu chiaro che si può anche
fuggire dal nostro mondo, dalla collettività degli uomini. Che a volte non se
ne può più. Che abbiamo costruito una trappola e l’abbiamo chiamata civiltà.
Ma, in questi casi, non valgono le parole. C’è solo un sentire
antico. Una voglia di fuga.
Fuori. Via, via.
Sgombrare la mente, l’anima fugge
via. Insegue non so quali pensieri e arcaiche sensazioni che ancora
sopravvivono dentro di noi.
Nel fondo. Sepolte. Voglie segrete
e dimentiche.
E mi sentii vicino al mio amico
irlandese Leo che, ogni tanto, se ne va a vivere in una grotta sulle montagne
di Agerola.
Solo. Lontano da tutti.
Con i suoi acquerelli, i suoi
pensieri e il desiderio di starsene in disparte, lontano.
E capii anche Mauro Corona e la
sua maledetta voglia di starsene al di fuori. A scrivere di cose antiche e
semplici. Di montagne, foreste, animali e uomini che vanno da soli lungo i
sentieri di boschi antichi.
Thomas Ender, I ruderi della Ferriera di Amalfi
La Ferriera di Amalfi ha smesso di
funzionare verso la metà del Settecento.
Costruita agli inizi del Trecento, godeva del particolare privilegio di non
essere soggetta al monopolio statale del ferro ed era inoltre servita
dall’efficiente porto di Amalfi. In ogni caso, poi, gli amalfitani erano
abilissimi naviganti, capaci di sfuggire a ogni forma di controllo marino.
L’inaccessibilità del luogo in cui sorgeva l’impianto, sperduto in fondo al
vallone di Amalfi, gli antichi privilegi e l’astuzia della marineria amalfitana
ne decretarono il successo per circa quattro secoli e oltre.
Valle dei Mulini, incisione di Redmond
Scesi più in basso e incontrai le
altre costruzioni. Per prima una
centrale idroelettrica a pianta rettangolare, adagiata lungo il percorso del Canneto, con il tetto completamente sfondato. La
posizione era quella più giusta per permettere alle sue dinamo di pescare nel
fiume, entrare in rotazione e generare così energia.
All’interno vidi i resti di
componenti elettrici e,
all’esterno, un vecchio traliccio
metallico.
Il prospetto verso valle mostrava
due livelli fuori terra e recava un’insegna nella quale mi fu possibile leggere
ancora l’iscrizione “Centrale elettrica”.
Intorno al corpo di fabbrica
l’acqua del Canneto si divideva in numerosi condotti e rigagnoli.
Nella sala inferiore era ancora
visibile il grande rotore di una vecchia dinamo.
E mi chiesi perché un sistema non
inquinante di produzione dell’energia elettrica in quella posizione fosse stato
abbandonato e non, al contrario, potenziato. L’acqua continua, ancor oggi, a scorrere verso il basso con tutto il suo
immutato vigore.
Non voglio fare calcoli
complicati. Ma impiantare una serie di centraline di quel tipo non provvederebbe,
se non ad assicurare tutto il consumo energetico di Amalfi, almeno a un sostanziale contributo? E questa non sarebbe
una fonte che se ne sta lì ancora disponibile, ancora utilizzabile senza colpo
ferire? Ma sul senso delle azioni dell’uomo c’è poco da chiedersi. La risposta
è sempre la stessa.
La nostra epoca è in buona
sostanza animata da una prepotente e sciagurata brama di convenienza. Quella
immediata, sotto gli occhi, di pronto consumo. Senza riflettere sulle
convenienze più grandi e di maggior respiro.
A. Solari, Valle dei Mulini
Ma ora che le cose del pianeta
stanno prendendo una brutta piega di scarsità di risorse e di colossale caduta non
sarebbe giusto ripensare a installazioni di rotori di dinamo in cascata che
nessun danno apporterebbero all’ambiente? Non si potrebbe, di nuovo,
approfittare del fiume Canneto e dell’energia pulita che il suo scorrere rigoglioso verso valle ci
potrebbe offrire?
Scendendo oltre, si incontrano le cartiere.
Quasi tutte ormai ruderi
irrecuperabili.
In origine, nel medioevo, qui erano impiantate gualchiere e mulini. Poi,
con la scoperta della carta e il primato degli Amalfitani e della gente di
Fabriano nella fabbricazione di questo prezioso materiale, tutti i vecchi
opifici furono trasformati in cartiere e s’iniziò la produzione della carta di Amalfi.
Di come funzioni una cartiera
parlerò altrove.
Troppo interessante e complesso il
discorso per costringerlo in questo mio raccontare che insegue un altro fine.
Gli edifici che vidi e che
sopravvivono lungo il canneto assumono, oggi, un significato forte di altra
natura. Contribuiscono alla definizione di un intorno paesaggistico e culturale
di ampio respiro che ha molto da insegnare.
Gonsalvo Carelli, Le Cartiere della Valle dei Mulini
Proprio così com’è. Basato sul
forte contrasto: le cartiere come ruderi, residui di un passato glorioso, di
una passata grandezza, definitivamente tramontata e il paesaggio, la natura che sopravvive e
sopravanza, prepotente e ostinata.
Una compiuta realizzazione di un
principio romantico, inseguito per decenni dalla maggior parte degli artisti
europei. Quello del “paesaggio con rovine”, il senso del passato che è irrimediabilmente
perduto. Di cui sopravvivono soltanto i resti.
Qui tutto è accaduto per caso.
Come nella vita. Come per un curioso capriccio del destino.
E perciò è segnato da una
particolare bellezza, da una forza senza precedenti.
In questo modo la Valle dei Mulini
fa onore alla memoria e alle teorie di artisti come William Turner, Dante Gabriele
Rossetti, William Morris e pensatori come John Ruskin. E soprattutto risponde a
una loro improbabile fantasia che insegue un’intera epoca storica e tenta la
ricostruzione del suo sapore. Il medioevo artigianale, epoca trasognata e
improbabile, vissuta soltanto nelle loro accese fantasie di romantici,
realizzata in uno stile completamente inventato, quel neogotico che segnò
un’intera stagione creativa dell’Inghilterra che muoveva i suoi primi passi
nell’era della modernità, quello stile,
dicevo, è qui, nella valle dei mulini, un fatto storico.
John Ruskin
Irripetibile capriccio del destino
che ricompone, dai frammenti della storia di una tramontata Repubblica e delle
sue successive vicissitudini, un’intera regione geografica, un ambiente proprio
con lo stesso spirito di un acquerello di Turner, o di una rovina trasognata dai
tanti architetti paesaggisti-giardinieri che si mossero sulle suggestioni di
quei grandi artisti-intellettuali che presagivano, nella modernità, l’apertura
di un’intera stagione di orrori diretti contro la natura e poi contro la stessa
umanità.
La Valle dei Mulini è dunque, oggi,
un’opera d’arte involontaria – e perciò infinitamente più bella e
suggestiva di quella dovuta alla
fantasia di un singolo creatore – frutto del capriccio del destino e della
mancata attenzione della mentalità affaristica dell’epoca contemporanea.
Di certo, John Ruskin sarebbe
stato tra i più convinti sostenitori della particolare bellezza della Valle se
fosse transitato da queste parti.
Ma quest’incontro non avvenne. Egli
fece a tempo, in un solo pomeriggio, a vedere la parte bassa di Amalfi, la
linea costiera che rappresentò in un famosissimo acquerello, vanto di tutti gli
amalfitani, continuamente citato e rappresentato.
Una vista della città di scorcio, dalla
prospettiva della Torre di San Francesco. Un acquerello rapido, una fugace e
forte impressione delle forme del profilo urbano, appena accennato, sotto un
cielo trascolorato, diafano, perduto in azzurro sulle montagne al di sopra del
campanile.
John Ruskin, Vista di Amalfi
Sarebbe impazzito il poeta inglese
amante di Venezia e della sua storia se fosse sceso lungo il Canneto e avesse
visto i ruderi delle cartiere così come ci appaiono oggi.
Ma all’epoca sua le cartiere
sarebbero state ancora tutte in funzione.
La sua teoria del restauro che
vuole gli edifici come gli esseri viventi, dotati di un ciclo di vita a
termine, qui trova una singolare conferma. La bellezza non è eterna ma
anch’essa transitoria, effimera, proprio come l’esistenza degli uomini,
destinata a una fine.
Gli edifici, afferma Ruskin, si devono lasciar morire anche se, come ai
viventi, bisogna prodigare loro tutte le cure per assisterli e aiutarli a
vivere il più a lungo possibile.
Una singolare coincidenza con
quanto succede nella Valle dei Mulini che sembra, perciò, un vero e proprio
inno alla filosofia romantica, delicata e in qualche modo disperata, del grande
intellettuale inglese autore de The
stones of Venice, che ammirò, molto più degli italiani, la nostra terra e
le sue straordinarie bellezze.
Continuai a scendere lungo il
corso d’acqua. Man mano che proseguivo vedevo i vecchi edifici l’uno dopo
l’altro.
Le cartiere mi apparvero come vecchi corpi morti, fantasmi di un’epoca tramontata.
Per prima quella che fu di Filippo
Milano, una costruzione ancora in buono stato, coperta da un tetto a doppia
falda e un terrazzino sul quale si intravvedeva un pergolato d’uva.
Era chiusa. Seppi, poi, che
all’interno c’erano ancora tutti gli antichi strumenti del ciclo di produzione
della carta ma in stato di abbandono. Residui e resti ricoperti di polvere.
Più innanzi vidi ciò che rimaneva
di due cartiere tra loro vicine, Nolli e Treglia, abbandonate negli anni Sessanta.
Erano state depredate di ogni cosa, in tutti questi anni, dai mobili e le
suppellettili di ogni tipo ai macchinari. Persino gli infissi erano stati divelti
dai muri.
Scesi oltre e fui colpito dalla
suggestione di due costruzioni singolari, anch’esse semidistrutte, appartenenti
alla cartiera Lucibello. Due ardite strutture a ponte, che, attraversando il
fiume, ne congiungevano le sponde.
Le originarie capriate di
copertura in legno erano crollate e il
tempo aveva fatto il resto. Qui si è lavorato fino agli anni Quaranta.
Più innanzi un’altra costruzione,
la fabbrica di confetti di proprietà della famiglia Pansa. La sua forma planimetrica
molto allungata ha permesso la sua
riutilizzazione per produrre carta. Le sue condizioni, nonostante lo stato di
abbandono, non mi apparvero disperate.
Alla fine c’era, quasi nel tessuto
urbano di Amalfi, la cartiera De Luca, di proprietà, nei tempi passati, della famiglia Confalone, in buone condizioni
di conservazione
E poi, lungo la strada che porta
alla marina, il Museo della Carta, che è ancora oggi nell’edificio della cartiera di Nicola Milano,
l’ultima funzionante, in ordine
di tempo.
V’è poi, naturalmente,
la cartiera Ferdinando Amatruda, l’unica in tutta Amalfi ancora in piena
attività. La sua forma attuale conserva
notevoli somiglianze con l’immagine raffigurata in dipinti ed acquerelli
ottocenteschi.
Alla fine tornai alla vita di
Amalfi, chiassosa e allegra, nei suoi vicoli, scale, calli e sottopassi scuri e
freschi.
Tutta quella natura e la storia
passata mi erano entrate con prepotenza sotto la pelle.
E pensai che luoghi come la Valle
dei Mulini sono da preservare così-come-sono,
senza nulla toccare, neanche un filo d’erba. Stanno lì per uno scopo, anche se
spesso facciamo finta di non accorgercene. Per insegnare agli uomini, ai
giovani, agli studiosi l’ostinazione delle generazioni del passato, il loro
carattere eroico come sostiene Ruskin, la forza e l’umiltà che avevano nei
confronti della natura.
In una parola sono la nostra
memoria, il nostro senso, la nostra continuità.
Uscii dalla Valle ancor più
convinto della mia idea. E con la sensazione che, da qualche parte, ci fosse un
ordine, un costrutto. Mi sfuggiva ma c’era.
Il senso della sua presenza c’era
tutto. Anche se ci ostiniamo, a volte, a girare la testa da un’altra parte.
C’è un mondo, un ordine, piante,
animali, aria, acqua, essenze che meritano il nostro rispetto. Di vivere così
come scelgono. Senza subire la nostra arrogante volontà di guadagno.
Come ha scritto Kipling la natura
si vendica e si riappropria di quello che le è stato sottratto con forza e
determinazione.
E mi dissi che ero stato
fortunato, molto fortunato a fare quella lunga passeggiata e di essere stato
testimone di una parte della vita di quel luogo e di quella storia passata.
Tirai un respiro profondo.
Di colpo la tristezza delle cose
tramontate mi passò. Mi sentii bene.
Come fossi parte di qualcosa.
Anche se sapevo che non avrei mai capito a fondo di cosa.
La mente sconfina nella filosofia
a volte. E allora c’è un rimedio. Infallibile.
E corsi a prendermi un caffè, un
buon caffè nel bar Panza, proprio sotto il Duomo.
Del Duomo parleremo, forse. Ma più
in là.