I lettori di
libri sono sempre più falsi è un ebook di
Gianni Celati edito da Feltrinelli, in offerta a 0,99 euro su Amazon.it.
Mi verrebbe voglia di non parlarne.
Ignorare un autore che scrive un libretto che non ci piace è una buona
strategia, anche piuttosto diffusa.
Si
evita di parlarne così si spera che tutti gli altri lo ignorino.
Ma
avere speso un euro su Amazon per comprare I lettori di libri sono sempre
più falsi di Gianni Celati mi brucia.
«Nientedimeno, rimpiangi di aver speso un euro per un libro? E che tipo sei? Quanto il
costo di un caffè» dirà qualcuno di voi.
E
già. Perché ho pensato, giunto alla fine della storiella (si fa fatica a
chiamarlo “libro” visto che è di poche pagine e si legge nello spazio di
qualche minuto), che quell’euro era molto meglio se l’avessi speso per un
buon caffè. Magari uno di quelli che fa Pansa ad Amalfi.
Sì,
avete ragione voi il paragone con un caffè regge. Ma a tutto vantaggio del
caffè.
I
caffè di Pansa ti lasciano un buon gusto in bocca che te lo porti per quasi
tutta la mattinata. Specie se poi accompagnati da una scorzetta di limone o di
cedro candito, squisitezze in cui Pansa eccelle.
Invece
la storiella inventata da Celati ti lascia un sapore in bocca che è metà strada
tra quello della muffa, amara, acidula della roba andata a male e del cartone pressato. Un sapore sgradevole
di una cosa che se n’è scesa giù a forza e non sai nemmeno tu perché sei
arrivato fino alla fine. Poi lo sai: per irritazione e per vedere se qualcosa
che condividi alla fine c'è.
No.
Devi arrenderti. Non sei proprio d'accordo. Ti senti solo preso per i fondelli.
Così
mi sono precipitato a scrivere una recensione su Amazon. Non proprio benevola. Mi
dispiace per Celati. Bravo in altri scritti. Ma con questo ha, per me, fatto
proprio flop.
Vedo
qui di renderne conto.
Chi
compra su Amazon sa quanto valore gli altri acquirenti diano alle recensioni. I
recensori dei prodotti in vendita su Amazon sono spessissimo una garanzia e, se
ti mettono in guardia da qualcosa, lo fanno a ragion veduta. In poche parole ti
spiattellano perché è conveniente o no.
Innanzitutto,
in via preliminare, conviene mettere in evidenza quella che non ho
problemi a definire una vera e propria scorrettezza editoriale.
Quello
di Celati è solo un raccontino tratto da un libro dove, in origine, si trovava
in compagnia di altri tre, Quattro novelle
sulle apparenze, sempre edito da Feltrinelli nel 1987. Invece che “compri
quattro e paghi uno”, come si conviene in un buon mercato che ha in qualche
modo affezione per il suo cliente, qui accade esattamente il contrario: si
ricicla un prodotto vecchio di quasi trent’anni sotto forma di ebook ma che
ebook non è. Nel senso che non regge il paragone con ebook ben più ponderosi
sul piano della lunghezza e della fatica impegnata per stilarli. Gli esempi che
potrei citare sono numerosissimi. Valga per tutti il lavoro di Germano Dalcielo
e Elvio Bongorino Lettere dal buio,
146 pagine a 0,89 euro.
So
che questo modo di ragionare, a “peso”, manda in bestia chiunque. Quando mai
s’è visto che la letteratura si misura a peso? Il peso è il valore culturale.
Bene alla fine credo che sarà evidente anche questo. Intanto accontentatevi del
raffronto di peso (in termini di bit visto che si tratta di ebook). Poi in
chiusura tireremo le somme.
Ma se
questo, sotto il profilo del prodotto e del suo, per così dire, “riciclaggio”
in solitaria è un cattivo servizio per il lettore, si rischia di farne uno,
anche più grave, all’autore. Estrapolando, infatti, il racconto dal corpus
iniziale nel quale era stato raccolto, se le scelte editoriali sono fatte
secondo un qualche ragionamento e non soltano a “peso” come ho fatto io
pocanzi in maniera volutamente “scorretta”, si rischia che il lettore ne
travisi il senso che, c’è da supporre, era assicurato proprio dalla vicinanza e
confronto con gli altri tre.
Cosa
che io credo sia accaduta.
Il
cattivo servizio il racconto l’ha indubbiamente subito.
E,
dunque, innanzitutto guardatevi da queste maldestre manovre editoriali
che non bene fanno alla casa editrice che, in questo caso, è la Feltrinelli e,
naturalmente, ai lettori. E' bene tenerlo a mente per i prossimi acquisti. Cosa
che farò con la dovuta attenzione, invitando tutti voi a fare lo stesso.
Allora
il primo consiglio è quello di leggere, dalla scheda del “prodotto” editoriale
che si vuole acquistare, non il prezzo orientandosi sempre verso il più basso
(che è una specie di esca per il lettore di ebook che compra tutto quello che
costa meno) ma il numero di pagine. In sintesi: pagate poco, ma rischiate di
avere meno.
Fatto
ciò entro nel merito della “pubblicazione”.
In
breve: la storia, che gira intorno ai “lettori di libri”, ai venditori di
enciclopedie alla povera gente di periferia, e al mondo dell’editoria in
genere, appare abbastanza inconcludente.
Proprio nel senso letterale del termine, che, cioè, non ha una conclusione,
come mi sforzerò di mostrare. Ed è, per questo, in qualche modo
irritante.
Il suo
contenuto appare conforme alle tante lamentazioni sulla mancanza di senso della
nostra epoca contemporanea, della perdita di valori, della mercificazione di ogni cosa, nell’azzeramento della cultura
e così via.
Ma
soprattutto appare subito come una critica serrata a un certo modo di scrivere,
a certi autori di “moda” e a una certa editoria attenta al mercato e ai suoi
gusti che, ancorché riprorevoli, si preoccupa di seguire e soddisfare,
rinunciando, di fatto, alla tradizionale funzione dell’editoria, di fare da
filtro, di assicurare una certa congruenza e qualità del prodotto, teso
all'acculturazione, all'educazione del lettore, che, spesso, è un giovane in
cerca di guida. E la ricerca proprio sui libri.
"Educare",
proprio questo termine nel suo significato etimologico di ex ducere,
condur fuori, dall’ignoranza, ignavia, indifferenza di un certo pubblico, oggi,
a parere di Celati, sembra venir meno.
Considerazione,
quest’ultima, con la quale mi sento di essere pienamente d’accordo.
Ma...,
ma c’è un ma…, che interviene nel nostro
ragionare.
Perché
la logica del racconto di Celati sembra non dare alcuna alternativa. La realtà ivi
descritta appare tutta, senza alcun rimedio, vuota, banale, mercantile,
infingarda, truffaldina. Non ci sono possibilità per venirne fuori.
Io, ma
credo tutti noi che dedichiamo parte del nostro tempo alla lettura, leggiamo
perché vorremmo alternative che la realtà ci nega. Ma qui, nei Lettori di Celati, in una perfetta
aderenza con un certo stile della sinistra nostrana, si dice male di tutto
perché si pensa – a torto – che il disvelamento della realtà, il raccontare
tutto il suo negativo senza mezzi termini aiuti il lettore a recuperare una
consapevolezza critica.
Al
contrario, io sono convinto che che dalla sconsolazione, senza aspetti
positivi sui quali poggiarsi, non si esce. Di disperazione si muore. Non c’è
via.
Io
sono convinto, ancora, che lo scrivere, oltre ad essere atto di denuncia anche
impietosa debba essere soprattutto operazione costruttiva.
I
libri, quelli veri, quelli solidamente impegnati sotto il profilo culturale
hanno, a mio parere, proprio questa funzione. Aiutare a uscire dalla
disperazione, proponendo riflessioni profonde sull'animo umano e le sue
possibilità di riscatto.
Fare
come fa Celati e, cioè, dire male, oggi, del mondo degli aspiranti scrittori
sempre in continua crescita sotto il profilo quantitativo ma non su quello
qualitativo che quasi sempre lascia molto a desiderare, dei professori
universitari che non capiscono un cacchio di letteratura e che citano libri
soprattutto per citare se stessi, presi, come sono, soltanto dalla libido della
propria “crescita” professionale e accademica, dei lettori onnivori che non
capiscono nulla perché profondamente ignoranti, dei critici che fanno
stroncature solo per apparire e fare carriera nei giornalacci sui quali
scrivono, è, alla fine, come sparare sul pianista.
Anche
perché vedo volutamente sottovalutato, in questo panorama, tutto il fenomeno
dell'autopubblicazione (e sto tornando in qualche modo all’esempio che prima
citavo di Dalcielo e Bongorino) che, di fatto, sfugge totalmente a questa
trafila produttivo-editoriale.
Certo. A
prima vista sembrerebbero non esserci garanzie sulla qualità culturale di
scritti così "liberi", lasciati al solo giudizio dei lettori. E
allora mi chiedo: ma che significa il solo giudizio dei lettori se non la
liberazione dal giudizio dei critici di professione che Celati sembra stimare
proprio poco? E su questo non posso che dargli ragione.
E che
dire, allora, di attori come Totò che, nella sua folgorante carriera sono
stati compresi ed apprezzati soprattutto dal pubblico e meno che niente dalla
critica? Il buon Totò, sappiamo, è stato rivalutato dalla critica solo dopo
morto o comunque solo negli ultimi anni e a opera di un regista nient’affatto inserito, e
digerito da una certa critica, come
Pierpaolo Pasolini.
Ma
torniamo a Celati e chiediamoci quale il senso di una storiella che
racconta di studenti che “leggono libri” e tentano di vendere enciclopedie, di
donnette che sfogliano riviste e, spinte dalla curiosità, alla fine leggono
anche loro ma, perduto la percezione comune delle parole, ne avvertono solo il
significato smarrito senza afferrarlo se non come fantasmi che incutono paura
e, per concludere, di ingegneri ignoranti con i baffi che vendono
enciclopedie e che quando, per caso o per amore, cominciano a leggere non
possono che morire al volante della loro auto lanciata a folle velocità in uno
scontro occasionale e forse voluto?
Sì,
lo sappiamo che la società tardocapitalistica della speculazione
finanziaria, del trionfo dei mercati e
della pubblicità ossessiva rende tutto piatto e incomunicante. Le teorizzazioni
di Georg Simmel ci sono ancora utili dopo un secolo. La Steigerung
des Nervelebens (l’intensificazione della vita nervosa) è uno degli effetti
devastanti della vita metropolitana moderna e del sistema capitalistico di
appropriazione del mondo e della natura. Al Gemüt,
prosegue Simmel, si sostituisce il Verstand e la spiritualità degli uomini
se ne va elegantemente a farsi fottere e, con essa, tutto il sistema di
simboli, linguaggi e sentimenti che si porta appresso. Tutto si perde, e,
ovviamente, anche il significato delle parole.
Questo,
in sintesi, il tramonto dell’Occidente di cui Trakl aveva presentito la
presenza e il nazismo poi segna la conclusione.
“E
allora?” ci chiediamo “che cosa dobbiamo fare, noi che amiamo ancora la
letteratura e la narrativa, che ne abbiamo bisogno? Che cosa dobbiamo fare noi
abitanti del dopo disastro continuo, dell’apocalisse infinita che attraversiamo
da più di un secolo?".
E che
dovrebbero fare i giovani che iniziano a imparare, iniziano a scrivere, tentano
alternative nel piatto panorama che ci circonda?
Dovrebbero
tacere, per fare piacere a Celati?
Insomma,
il lettore potrebbe chiedersi: “In un mondo di gente che ha
definitivamente perduto il significato delle parole, trasformate in oscuri
segni inquietanti, quale strategia bisogna mettere in piedi per chi abbia
ancora voglia di fare la carriera dello scrittore? Ci resta solo di soccombere?
O qualcosa possiamo fare?”.
Inutile
cercare risposte tra le parole di Celati. Non ce ne sono.
Perché
nel mondo che ci circonda, afferma Celati, l’unica spinta è quella
dell’ “apparire”. Istruzioni per il dopo apocalisse. In che cosa consisterebbe
la vita secondo Celati? Apparire a tutti i costi, fare finta di essere un
critico stroncatore o uno scrittore o un professore o un lettore.
Nient’altro che alludere, mai essere. Apparire, per l’appunto. Non essere.
Apparire,
apparire, apparire.
Tutto
il resto è andato. Via. Senza speranza alcuna.
Perché
la storiella di Celati gira proprio intorno alla perdita di significato di
qualsiasi discorso. Il discorrere, le parole, i segni scritti organizzati in
sintassi, in quanto dominati dall’oscuro, dalla piattezza ripetitiva,
dalla mancanza di impegno e di spiritualità o di chissà che altro ancora,
hanno irrimediabilmente perduto qualsiasi significato.
Rimangono
sulla carta segni indecifrabili, fantasmi, referenti del nulla, alla faccia di
Heidegger, mi verrebbe di dire, e del luogo nel quale giace il significato di
una parola, della sua tragica Erortërung, ricerca del significato,
quella che fanno poeti come Trakl, Rilke, Hofmannsthal. I loro
mondi sono lontani dalla società della ripetitività di massa che tutto
azzera.
La
parola è segno che non vuol dire più nulla.
Ma
non ne avevamo già parlato?
Non
ne aveva già parlato, e con quanta sapienza, proprio Hofmannsthal ne La
lettera di Lord Chandos?
“Le
parole, quelle di uso quotidiano” dice Lord Chandos “hanno cominciato a non
avere più senso e mi si sfaldano in bocca
come fossero funghi secchi”.
E' il
1902 quando Lord Chandos fa questa terribile scoperta.
E
allora? Ne parliamo ancora oggi a più di cent'anni di distanza? E non siamo
arrivati a nessuna conclusione?
Poveri
noi, mi verrebbe di dire, se così fosse.
C’era
bisogno di una nuova storiella che non dà sbocchi, non sa dare soluzioni?
Ma,
mi direte, quando mai la letteratura, la narrativa danno soluzioni? Le
soluzioni sono di altra natura, politica, sociale.
E
qui, come dire?, che casca l’asino. Per dirla alla Totò, che non guasta,
principe non solo della risata ma dei qui-pro-quo linguistici per
antonomasia, del nonsenso del discorso comune, delle parole che, però in bocca
a lui, non si trasformano in funghi secchi ma in grimaldelli creativi
per scardinare la stupidità del reale, del quotidiano corrente e
standardizzato. Alla faccia di tutti i giudizi critici ci verrebbe da
dire.
Perché
la letteratura non dà soluzioni ma, di solito, apre la mente, dà respiro, aria,
profondità al pensiero. Lo alimenta, lo coccola, lo fa crescere. Oppure sfotte,
sorniona, getta fango sull'esistente, sul potere.
Certo
se voglio queste soluzioni intellettuali e culturali non le vado a cercare
nella letteratura di genere, fantascienza, giallo, noir che oggi imperversano
con assai dubbi risultati. Ma, a stretto rigore, anche a questi fenomeni devo
stare attento se voglio tenere il polso della situazione, se il mio scopo è
educare, ex ducere, ripeto, condur fuori, portare alla luce ciò che è
nascosto, ciò che è in nuce, ciò che sarà, che darà corpo al significato di
domani.
Perché
sappiamo che non siamo gli ultimi. Guai a quella società e a quegli uomini che
si credono gli ultimi depositari del significato. Chi lo diceva? Ricordate?
Di
queste mode e degli autori che in esse primeggiano (Dan Brown, Faletti e altri)
ne abbiamo fin sopra le orecchie. Robaccia si afferma in giro. E come non
essere d'accordo? E' vero. Ma è da qui che parte il nuovo. Non dalle lamentazioni.
Perchè
qui, nella storiella della quale ci occupiamo, di disperazione inutile si
finisce solo per morire.
Un solo
pensiero attraversa la mente del lettore: la convinzione che non
valga la pena scrivere perché lo fanno tutti e quelli che lo fanno pensano ad
altro. E che i meccanismi della produzione culturale, in tutte le sue fasi,
dall’apprendimento, agli studenti e le loro strategie di resistenza (i quattro
napoletani, vai a capire poi perché i “furbi” sono sempre e solo napoletani, un
luogo comune che, voglio essere volgare apposta, mi fa letteralmente girare le
palle, non potrebbero essere fiorentini o ferraresi, tanto per dire qualcuno a
caso?), dai professori e il loro apparire colti, ai critici e la loro voglia di
guadagno, ai lettori, agli editori, ai tecnici delle case editrici, tutto il
meccanismo insomma sia totalmente marcio visto che trasuda vergogna,
opportunismo, voglia di guadagno e mercato, alla faccia della cultura e di chi
ci crede ancora.
Il
senso finale che un lettore prova di fronte a uno scritto come quello di Celati?
E' di scoramento e voglia si abbandonare la partita. O sei fuori o
abbracci il sistema. Tertium non datur.
Perché
chi perde, in questa azione critica che si cela al di sotto di questa
storiella, è proprio il lettore motivato, il critico che crede nella lettura ed
è alla ricerca di significati, è il professore che fa bene il suo lavoro (e ce
ne sono tantissimi), e l’allievo che cresce perché crede nel suo percorso (e
sono innumerevoli, parlo per conoscenza diretta). Tutti costoro, che pure
continuano ad esistere – e spero che Celati non lo metta in dubbio – anche se
nascosti da qualche parte, sono un'altra volta sconfitti. E’ a loro che il
messaggio è diretto. E’ a loro che Celati dice di essere inutili.
E a
loro che suggerisce di abbandonare la partita.
“Ma
dove andate se il panorama è questo tristissimo e sconsolato che vi sto
raccontando?”.
Ed è
così che la cultura di una nazione se ne va a farsi fottere e, con essa, tutti
quelli che vorrebbero adoprarsi per il meglio.
In
sintesi, la conclusione della quale invoco la presenza dall’inizio di queste
mie note? E che nei panorami squallidi, quando tutto sembra perduto non è vero
che lo sia.
C’è
sempre un significato, profondo, sincero, tragico, importante da rintracciare.
C’è
sempre una lettura da fare che non appartenga a un generico “leggere i libri”
di cui Celati ci riempie la testa e la fantasia, c’è sempre uno scrivere che va
alla radice del significato delle parole.
Anche
nelle società di crisi come quella italiana contemporanea, c’è un significato profondo
da rintracciare e da portare alla luce. E va fatto, fosse pure soltanto un
insieme di frammenti da ricomporre e identificare.
E’
per questo che vale la pena leggere, scrivere, criticare, insegnare.
Proprio
per sfuggire l’ horror vacui nel quale Celati costringe il suo lettore.
Allora storia inutile e inconcludente, da non leggere quella contenuta ne
I lettori di libri sono sempre più falsi.
Perchè
è una storia che fa male: non dà soluzioni, non permette progetti di alcun
tipo.
A
cominciare dal titolo che scarica la responsabilità delle turpitudini dei
sistemi di produzione editoriale sull’ultimo anello della catena, i lettori
che, semmai dico io, subiscono la depravazione del gusto e del significato
imposto dai mercati.
Io non
so dire se tutto ciò appartenga, come a volte sembra, a un più generale
decadimento culturale complessivo della società nella quale viviamo che sta
giungendo, a poco alla volta, a un capolinea.
Sta di
fatto, però, che il ruolo degli intellettuali, in tali situazioni di crisi, non
può essere quello della lamentazione o della sola denunzia. Gli uomini di
cultura, come Celati, hanno un compito specifico che è quello di non perdere di
vista i reali obiettivi della cultura e di non far venir meno, nei più giovani,
il senso di ribellione a sistemi corrotti e senza significato. La cultura, il
senso del nostro vivere, il nostro pensiero superano i periodi di crisi. Ne
dobbiamo essere certi. Ci dobbiamo credere. Altrimenti il nostro mondo è senza
speranza alcuna. Ma è compito di tutti impegnarci in una direzione positiva e
di condanna dei meccanismi corrotti nei quali siamo costretti a vivere.
Per
questo credo che la storiella di Celati sia inconcludente e da non leggere.
Risparmiate
un euro. Preferite un bel caffè.
Magari
da Pansa ad Amalfi. Accompagnato da una scorzetta limone-cioccolato.
Si
rischia di scoprire che la vita vale la pena di essere vissuta anche in
compagnia di un buon libro.
E che
l’esercizio della lettura è esercizio dell’anima. Bene irrinunciabile.
E se
non trovate un libro contemporaneo che valga la pena di essere letto,
rivolgetevi, come suggerisce Calvino, a un classico. Mi vengono in mente I
promessi sposi o La storia della colonna infame o, di Salvatore De
Renzi, Napoli nell'anno 1656. Che passione, che impegno civile! Che
stoffa di romanzieri!
Oppure
Poe, Stevenson, Dumas se volete leggere romanzi. Non dimenticando Kafka e
Proust. Oppure date fiducia ai giovani che si impegnano nel loro lavoro e lo
fanno con una dedizione e costanza ammirevoli, come Dalcielo e Bongorino, che costruiscono racconti di
“genere” ma che nulla hanno da invidiare alle storie “colte” di altri, per
capacità narrativa, per struttura della narrazione e per profondità dello
spaesamento che mi sembra tanto una metafora efficace dello sbandamento
culturale dell’epoca che viviamo.
Abbandonate
gli italiani come Celati che finiscono per deprimere.
Alla
faccia dei lettori che non leggono, degli scrittori che non scrivono, dei
venditori di enciclopedie in crisi, e di Celati che da qualche parte s'è perduto.