Ho finito di leggere Il metodo del coccodrillo (Mondadori,
marzo 2012) di Maurizio De Giovanni da meno di un minuto. E sento subito la
voglia di parlarne. Teso, asciutto, crudele, spasmodico che ti trascina fino
all’ultima parola. Con grande partecipazione e un senso di vuoto.
Due i protagonisti, fuoriusciti e,
in qualche modo, “dannati” nella città di Napoli con passati tormentati e di
sofferenza alle spalle. Siciliano lui,
ispettore Lojacono, confinato, per un’avvelenata soffiata di un collaboratore
infedele e lei, sostituto procuratore, fuggita dalla sua Sardegna per dimenticare
la morte del giovane amante e complice dell’intera giovinezza.
La storia ha tutte le
caratteristiche di un noir che ti avvolge. E ti lascia un
grande amaro in bocca. Per il rigore che la linea del male e degli animi tormentati
di questa vicenda traccia lungo la trama. Tutti coinvolti nella morte di
qualcuno. Ognuno con una responsabilità morale che pesa come una lama che
trafigge l’anima, lacerandola. Nella lontananza, nella sconfitta.
Nessuno vince. Perdono tutti.
Tanto che, alla fine, ti verrebbe la voglia di un raggio di sole che
non esce.
Pioggia, nebbia, finanche il paesaggio
del golfo scolorito come un vestito indossato in gioventù e lasciato a sbiadire
nell’armadio.
Questo, lo scenario. Una Napoli angosciata e lontana,
tanto da essere assente. Eppure è uno scenario grigio molto coerente con la
Napoli che siamo abituati oggi a vivere.
Un ricordo di qualcosa che non
sappiamo se sia mai esistito. Forse solo nei ricordi o neanche lì.
Un disegno, un’utopia.
Mi viene in mente uno degli
acquerelli di Lusieri che mostra la bellissima collina di Posillipo vista dalla
casa degli Hamilton. Mi viene in mente la Napoli del Settecento dell’abate
Galiani e delle sue profonde arguzie.
La Napoli lontana e forse mai
esistita di favole immaginate e non vere.
Forse, al di là della storia che
narra, il noir di De Giovanni è straordinariamente convincente proprio per
questo scenario di sofferenza diffusa, che scorre come un velo di umido pieno
di polvere su un quadro antico.
La storia è quella di una vendetta
e di una pazzia. L’assassino, che non vi dirò chi sia (ma che si capisce
presto) è qualcuno che agisce per vendetta, per aver perduto qualcosa di molto
caro. Il dolore, si dice, può degenerare in pazzia. Una pazzia lucidissima e
dimessa, come un ragioniere che fa i suoi conti e chiama a partecipare alle sue azioni la negra
signora servizievole che porta con sé la vita di giovani innocenti vite per
sempre.
Qualcuno vuole far soffrire qualche
altro più della morte. E qual è la sofferenza più grande, si chiede l’ispettore
Lojacono, se non quella di rapire il bene più prezioso che un uomo ha, i figli,
l’amore, il loro affetto?
In specie se chi muore è un’anima
innocente, giovane, con una vita da vivere.
Lo strazio diviene l’obiettivo del
Coccodrillo, l’essere misterioso che uccide, un serial impazzito, che segue un
suo lucido, inafferrabile percorso di follia.
Uno scenario inerte, un ispettore
caduto in disgrazia, un sostituto procuratore che ha perso il suo amore da
giovane e che ha chiuso con la vita e con gli affetti, commissari inetti e stupidi
che rendono le istituzioni vuote e inefficienti, questi i personaggi che si
muovono contro lo scenario di una Napoli sbiadita e sofferente, perduta a
qualsiasi desiderio di felicità.
Bella storia. Che si legge tutta
d’un fiato.
E De Giovanni, come ho detto,
migliora il suo stile, la sua efficacia e la sua carica poetica, coinvolgendoci
in questa storia dolce e amara, malinconica alla fine della quale, nel dolore, si riesce forse a intravvedere qualche spiraglio di luce che si apre lontano. E ci
rischiara il cuore.