Terre di Utopia
progetti immaginari, storie, idee
Ho pubblicato il catalogo di alcuni miei disegni che contiene scritti di Benedetto Gravagnuolo, Pasquale Belfiore e miei.
Ve li propongo.
Disegni di
fantasia
di Benedetto Gravagnuolo
Nel 1499 il monaco domenicano Francesco Colonna diede alle
stampe un libro dal singolare titolo arcaicizzante: Hypnerotomachia Poliphili. Riallacciandosi alla tradizione allegorica
del Roman de la Rose, la favola
narrava le avventure di Polifilo che, perso d’amore per Pilia, inseguiva nel
sogno l’amata inoltrandosi in un immaginario paese delle meraviglie, costellato
di architetture fantastiche. Benché illustrato con splendide xilografie ed
apprezzato da uomini di cultura come Albrecht Dürer, che acquistò una delle
pochissime copie vendute, il libro andò incontro ad un insuccesso di mercato,
anche a causa del linguaggio criptico “inventato” dal frate dottissimo
mescolando parole greche, latine e italiane. Solo con la traduzione francese
nel secolo successivo divenne noto in tutt’Europa, considerato (non a torto)
come un trattato di architettura sui
generis, una sorta di supplemento onirico a Vitruvio.
Questo episodio mi è tornato alla mente vedendo i disegni di architettura di Giacomo Ricci, pubblicati nel romanzo Il sogno Jeronimus Bauknecht.
Intuendo i prevedibili interrogativi dei lettori, l’autore gentilmente ci offre tra le mani la chiave di decodifica dell’enigma.
Bauknecht sarebbe stato un giovane architetto tedesco amico di
Gropius che, dopo aver preso parte al Novembergruppe e ad altri movimenti
d’avanguardia, era partito per un viaggio senza ritorno nel Tibet, alla ricerca
di un’antichissima città esotica della quale si erano ormai perse le tracce. Il
romantico intellettuale non solo era riuscito a raggiungere la meta anelata, ma
anche a rilevare con meticolosa precisione le case e le strade di quella città orientale, scoprendo
alla fine che essa corrispondeva, con sorprendenti analogie, alla città ideale
fantasticata dai suoi coetanei espressionisti. Tuttavia Bauknecht morì in
quelle terre lontane dimenticato da tutti, perfino dai suoi più intimi amici.
Per un caso fortuito, Ricci, avrebbe ritrovato quei disegni preziosi e stava
per pubblicarli. Sarebbe stato uno scoop, ma un maledetto incendio li ha
definitivamente ridotti in polvere. In preda ad una sorta di transfer
medianico, l’autore li avrebbe perciò ridisegnati, finendo con l’identificarsi
con lo sfortunato architetto tedesco.
Si tratta di un gioco letterario, che dà il pretesto a Ricci
per spiccare un volo icarico nel cielo delle fantasie oniriche. In queste case
immaginarie può accadere di tutto: gli interni si trasformano in paesaggi
urbanistici e viceversa. Su un tavolo sorgono case e templi; una sedia diventa
un campanile; una porta dischiusa apre il sipario su archetipi ancestrali. Come nel sogno, lo spazio e il tempo perdono
il rigore delle coordinate cartesiane. E negli occhi di una donna amata può
brillare un mondo utopico in miniatura.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia che la favola di
Bauknecht rivela a chi la sa intendere. E’ l’attrazione irresistibile che Ricci
prova per gli eroi perdenti, per i poeti disarmati, sconfitti dalla storia a
causa del loro ostinato attaccamento all’utopia di una città del sole, sospesa
tra il cielo e la terra, ed abitata da un’umanità libera dalle catene di quella
prigione quotidiana nella quale ci siamo assuefatti a vivere, fino ad
accettarla come l’unica realtà
possibile. Non a caso Ricci ha eletto Le Mont analogue di Renè Daumal ad
emblema della sua crociata utopica. Né credo sia casuale il fatto che egli
abbia dedicato attenti studi monografici ad architetti “visionari” come Hermann
Finsterlin ed il giovane Taut della “collana di vetro” e della “Stadtkrone”.
Non vorrei, dunque, deluderlo con le mie conclusioni
ottimistiche. Eppure, nella recente Mostra del libro che si è tenuta lo scorso
aprile a Milano, una copia del Polifilo è stata valutata più di cento milioni.
Non so quanto potrebbe valere - in termini monetari - il racconto illustrato da
Ricci. Ma molto, ne sono certo, in
termini culturali.
Visioni di città
di Pasquale Belfiore
Si racconta che il frate Niklaus von der Flüe ebbe la
visione di un mandala diviso in sei parti, con al centro l’incoronato volto di
Dio. Fu una esperienza terrificante, come tutte le esperienze di presentimento
della verità, dice Jung che racconta l’episodio. Frate Klaus non avrebbe
potuto resistere alla tremenda esperienza del numinoso se non elaborando,
traducendo il simbolo.
“La chiarificazione – racconta sempre Jung – fu raggiunta
sull’allora granitico terreno del dogma, che mostrò la propria forza di
assimilazione trasformando qualcosa di spaventosamente vivo nella bella
intuizione dell’idea originaria. Essa però
avrebbe potuto avere luogo su un terreno completamente diverso: quello della
visione stessa e della sua spaventevole realtà, probabilmente a danno del
concetto cristiano di Dio e indubbiamente ancor più a danno di frate Niklaus
che in quel caso non sarebbe diventato beato, ma magari un eretico (se non
addirittura un folle) e avrebbe forse terminato la sua vita sul rogo”.
Qualcosa di simile è forse capitato a Giacomo Ricci, storico
e critico dell’architettura, che una decina di anni fa ha avuto anch’egli
qualche terrificante visione. Cosa abbia
visto non è dato saperlo. Di certo, anch’egli ha trasformato qualcosa di
spaventevolmente vivo nella bella intuizione di disegnare da allora
(ossessivamente, come si conviene alla traduzione di un simbolo) immagini di
architettura (come si conviene ad un architetto). La silloge è trasparente e
sarebbe perfino banale – un architetto che disegna architetture – se non fosse
poi intervenuto il “diavolo” ad intrigare le cose. Perché se il simbolo (sun-ballo) mette
insieme, fa coincidere visione e disegni, il diavolo (dia-ballo) li disunisce,
aprendo a Ricci spazi di ragionata follia o, meglio, spazi folli governati
dalla ragione.
Le opere di Ricci sono infatti dimostrazioni per assurdo della
possibilità di rappresentare il sogno, l’oscuro, il gratuito, le personali
nevrosi e manie, lo sberleffo, l’illazione, il diavolo appunto. Ricci vuole
dimostrare che il diavolo esiste e parte dall'ipotesi della sua
indimostrabilità. Ipotesi vera se c’è un rapporto logico tra disegno e
significato: ipotesi falsa se il rapporto c’è ma non è logico. E nulla di
“logico” v’è negli ultimi inquietanti quadri di architettura esposti in mostra
perché i disegni di palazzi e città non significano rappresentazioni di palazzi
e città, ma qualcosa d’altro: significano il sogno, l’oscuro, il gratuito, le
personali nevrosi e manie, ecc., il diavolo appunto.
La scissione luciferina tra visione e rappresentazione è
fatta da Ricci con due semplici artifici: concatenazione irreale di cose reali,
rigorosa coerenza della illogica concatenazione. Che, ad esempio, una scena di
città, passando attraverso uno strizzapanni, ne esca appiattita e stirata è
ragionevole pensarlo; come è possibile che palazzi e chiese possano stare
comodamente assisi sul tavolo da cucina (ed infatti i cantori della metropoli
parlano di galvanizzazione) o che nuvole e palloncini facciano decollare
fabbriche e campanili (come da qualche tempo accade nelle basi spaziali).
Tutti elementi reali, realisticamente disegnati, concatenati
tuttavia in modo irreale. Stando così le cose, nulla v’è di più indiscreto che
chiedere il “significato” di tutto ciò. Esiste, certo, ma a noi non è dato
saperlo.
Talento grafico, cultura, referenti autorevoli, gran lavoro
sulle tecniche di rappresentazione: tutti registrabili. Il significato no, esistente ma indicibile,
come si conviene al diavolo.
C’è tuttavia un piccolo disegno di stampo leonardesco che,
unico, forse tradisce un seme di significato. Si chiama Macchina per parlare
alla luna. Sublime “sciocchezza” d’un architetto che studia per diventare poeta
e nel frattempo si mostra in una mostra per mostrare che il sonno della ragione
genera dimostrazioni.
Altrove
di Giacomo Ricci
“Come ci afferra il grido degli
uccelli
Qualunque grido che sia mai stato creato,
Ma già i bambini, giocando all’aperto,
gridano prossimi alla verità del grido.
Giocano il caso. Negli interstizi di questo,
dello spazio-mondo (in cui l’intatto grido
dell’uccello penetra come uomini nel sogno)
spingono i cunei degli strilli loro.
Ahimè, dove siamo? Sempre più liberi,
come gli aquiloni strappati via,
sospesi
a mezz’aria vegliamo con irrisori lembi
dal vento sbrindellati – Dai ordine a chi
grida, oh dio del canto! Ch’ebbri si destino
portando come corrente la testa alta e la lira.”
Rainer Maria Rilke, Sonetti ad Orfeo, II, XXVI
Credo che, da piccolo, anche a
me sia capitato di attraversare uno specchio inseguendo, come Alice, un
bianconiglio balbettante che correva come un pazzo per un verdissimo prato con
una sveglia nelle mani.
Sinceramente non ricordo come e quando tutto ciò sia
accaduto. Tutto si perde in una nebbia grigia. Ma, tra i vapori, nel passare del tempo, dei frammenti di quella realtà sono
emersi lentamente. I miei disegni provengono da quel mondo al di là dello specchio,
sono la testimonianza di un fondo dell’anima perduto sotto l’infinità banalità
del quotidiano.
Per molto tempo ho creduto che non fossero opera mia
e che, nascosto non so da quale parte, qualcuno mi suggerisse, in una sorta di
strana scrittura automatica per simboli, le forme e i personaggi di quei
disegni.
A poco alla volta, abituandomi a stare in uno strano
luogo di mezzo (forse tra la cornice e lo specchio, con il corpo al di là di
questo e gli occhi al di qua) ho capito che ero io l’autore e che quel qualcuno
che se ne stava altrove era una porzione di me bambino che ancora scalciava per
avere diritto alla sua esistenza.
Credo che ognuno di noi abbia un se stesso-bambino nascosto da qualche parte che vuole tornare a
vivere ed ascoltare storie. Le storie, raccontate dalle nostre nonne, che ci affascinavano e ci facevano un po’
paura. Le storie nelle quali è perfettamente logico che su di un tavolo di
legno se ne stia una piccola chiesa di campagna e, più in là, ci
appaia sdraiato sulla sabbia un libro
dal quale un fiume se ne esce invadendo il paesaggio e finendo in una
bottiglia. Mentre in cielo uno stormo di oche cavalcate da frac vuoti con
bombette e sciarpe vanno correndo verso l’orizzonte ed il sole, per sfuggire alla notte che s’è rinchiusa in
un cassetto insieme ad un manichino rosa
che legge versi di Rilke da una piccola pergamena scritta a caratteri
dorati.
Tutto questo non accade in questo mondo. Ma basta passare
lo specchio per vedere e dimenticare le stupidaggini che ci circondano asfissiandoci e, alla fine,
sorridere. Altrove.