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ebook di ArchigraficA

mercoledì 21 agosto 2013

L'idiota è il folle





di Giacomo Ricci


Ho giusto finito di leggere L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Per la verità è, la mia, una rilettura.
E, per la precisione,  la terza.
La prima risale all’epoca in cui ero poco più che adolescente. La seconda alla mia prima giovinezza. E ora, dopo molti anni, la terza, della maturità, anzi della vecchiaia.
Non so a voi, ma a me accade, dopo molto tempo, di perdere i dettagli della storia, e, spesso, finanche la trama. Qui, ad esempio, avevo completamente dimenticato della morte finale della protagonista, Nastas’ja Filippovna per mano del suo disperato amante Rogozin. Ma tanti altri elementi s’erano perduti nei meandri della memoria.
La terza rilettura è stata dunque opportuna per riscoprire uno dei libri più “pericolosi” di Dostoevskij e trarne un piacere che avevo irrimediabilmente abbandonato.
Perché il senso profondo della lettura, una sorta di calco per l’anima che il libro costruisce per custodire e coltivare i propri sentimenti, quello no, non lo perdo mai. Mi resta come un’impronta, una traccia da seguire per scovare, spesso, il senso, se mai esiste, di quello che faccio, dei miei pensieri, delle mie sensazioni. Trovarne l’origine, il luogo, il posto dove giace un possibile significato.
“Pericoloso” questo libro.
Ne capirete subito il perché.
E per questo, come scrive nella sua acuta presentazione Mauro Martini, i tentativi sono sempre stati quelli di “anestetizzarlo”, disinnescarlo.
Perché è come una specie di bomba a tempo, destinata a scardinare le certezze, i principi, la morale, le convenzioni di un’epoca (ma direi anche, e forse soprattutto, della nostra contemporanea) e smascherare senza mezzi termini la natura dell’uomo che sotto queste maschere si nasconde.
Natura che è dolore, disperazione, solitudine, smarrimento.  
Immaginate di far comparire, dopo duemila anni, Gesucristo nel mondo in completa disfatta della Russia di metà Ottocento, un personaggio mite e “splendente”, capace di comprendere, com-prehendere in senso pienamente etimologico, interiorizzare, abbracciare, mettere dentro di sé,  assumere i mali, le miserie, le debolezze dell’umanità che lo circonda e, soprattutto, di perdonare, di umiliarsi di fronte all’umanità dissennata che lo circonda e di prendere sempre parte per chi gli sta contro, anche se costui non fa nulla per nascondere il suo disprezzo, un disprezzo-difesa verso colui che sente, nella sua pazzia, di esser il solo saggio, l'unico che ha chiaro come comportarsi nel mondo di violenza che l'uomo ha costruito.
Un atto di profonda com-prehensione dell’altro, dunque, di tutte le sue miserie, un atto d’amore incondizionato che si trasforma immediatamente in struggimento, in risoluzione di quel tormento assumendone sulla propria pelle la risoluzione, lo scioglimento.
Perché questo è, in parole povere, il principe Myskin , perno intorno al quale ruota la storia e soprattutto l’umanità intrappolata nei suoi schemi, nelle sue brutture, nelle sue infinite miserie di ogni giorno, convenzioni, leggi, modi di fare, comportamenti, ingordigie, sentimenti che esplodono e che si scontrano.
Così si capisce la natura che sostanzia il principe, l’idiota, per l’appunto, malato di un’epilessia che lo annichilisce, facendogli perdere finanche le dimensioni del tempo e dello spazio per giorni.
Ma questa figura “splendente” del principe che  tenta di illuminare un mondo popolato da uomini e donne che invece vivono nella tenebra e ignorano che tutte le leggi che hanno costruito non sono che trappole, miserie per sfuggire all’assurdità della vita, è ovviamente destinata a restare incompresa, incompiuta e mistificata. Che cos’è uno che accetta dell’altro e dell’umanità tutto ed è sempre pronto al perdono e a capire, interiorizzare le ragioni degli altri se non un “idiota”?
I personaggi che costituiscono il mondo nel quale il principe si muove e sente sono come le marionette in uno spettacolo convenzionale e falso, aderente soltanto a significati imposti. Assolutamente non disposti ad aprirsi l’un verso l’altro, sempre in guerra, pronti a inseguire la loro miserevole felicità effimera e falsa, fatta di miserie, contrapposizioni, guerre, lotte, sopraffazioni.
Pronti ad inseguire il guadagno, passando sugli altri senza scrupoli.
Eppure sono colpiti dalla luce del principe pur non comprendendola affatto.
Lo commiserano perché è altro dal mondo, è fuori, è anormale. Anche qui il termine va ridotto alla scheletrica etimologia, ciò che non è secondo norma.
Anche l’amore è impossibile al di fuori dell’egoismo in questo mondo miserabile di esseri meschini.
Perché ho scritto, in esordio,  che si tratta di uno dei libri più “pericolosi” che Dostoevskij abbia scritto?
Perché indugia al bene, perché ne fa l’unica uscita possibile. Perché mostra che l’ingenuità dell’animo, quello che si fa bambino e non ha paura di apparire fuori dal mondo e dalla spirale delle sue necessità – feroci, becere, violente, assolute, devastanti, “razionali” –, è l’unica strada percorribile per mantenere la propria coerenza dell’anima. Perché è una strada “astorica”, fuori dalle leggi del mondo ferree dell’economia di mercato. Perché chi accetta di tornare all’ingenuità dei bambini è il folle, colui che tutti sfruttano e che è necessariamente condannato a una via senza uscita, la “follia” per l’appunto. O meglio a essere un “idiota” fino alla morte.
Al di là della follia che si richiude in se stessa non c’è che il male.
Una visione assoluta e disperata questa di Dostoevskij, che, nella sua totale negatività, non lascia spazio di redenzione. L’unica redenzione possibile è la “bellezza”. Una bellezza fuori dal tempo, fuori dal mondo degli uomini, fatta di pause interiori poco apprezzabili, di sospensioni, smarrimenti, esseri perduti che s’incontrano solo per attimi, prima che la spirale del mondo li travolga definitivamente. E senza speranza.
Forse è il libro più bello che abbia mai letto.
E penso che, presto, lo rileggerò di nuovo.