di Giacomo Ricci
Ho giusto finito di leggere L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Per la verità è, la mia, una rilettura.
E, per la precisione, la terza.
La prima risale all’epoca in cui
ero poco più che adolescente. La seconda alla mia prima giovinezza. E ora, dopo
molti anni, la terza, della maturità, anzi della vecchiaia.
Non so a voi, ma a me accade, dopo
molto tempo, di perdere i dettagli della storia, e, spesso, finanche la trama.
Qui, ad esempio, avevo completamente dimenticato della morte finale della
protagonista, Nastas’ja Filippovna per mano del suo disperato amante Rogozin.
Ma tanti altri elementi s’erano perduti nei meandri della memoria.
La terza rilettura è stata dunque
opportuna per riscoprire uno dei libri più “pericolosi” di Dostoevskij e trarne
un piacere che avevo irrimediabilmente abbandonato.
Perché il senso profondo della
lettura, una sorta di calco per l’anima che il libro costruisce per custodire e
coltivare i propri sentimenti, quello no, non lo perdo mai. Mi resta come
un’impronta, una traccia da seguire per scovare, spesso, il senso, se mai
esiste, di quello che faccio, dei miei pensieri, delle mie sensazioni. Trovarne
l’origine, il luogo, il posto dove giace un possibile significato.
“Pericoloso” questo libro.
Ne capirete subito il perché.
E per questo, come scrive nella
sua acuta presentazione Mauro Martini, i tentativi sono sempre stati quelli di “anestetizzarlo”,
disinnescarlo.
Perché è come una specie di bomba
a tempo, destinata a scardinare le certezze, i principi, la morale, le
convenzioni di un’epoca (ma direi anche, e forse soprattutto, della nostra
contemporanea) e smascherare senza mezzi termini la natura dell’uomo che sotto
queste maschere si nasconde.
Natura che è dolore, disperazione,
solitudine, smarrimento.
Immaginate di far comparire, dopo
duemila anni, Gesucristo nel mondo in completa disfatta della Russia di metà
Ottocento, un personaggio mite e “splendente”, capace di comprendere, com-prehendere in senso pienamente
etimologico, interiorizzare, abbracciare, mettere dentro di sé, assumere i mali, le miserie, le debolezze
dell’umanità che lo circonda e, soprattutto, di perdonare, di umiliarsi di
fronte all’umanità dissennata che lo circonda e di prendere sempre parte per
chi gli sta contro, anche se costui non fa nulla per nascondere il suo disprezzo, un disprezzo-difesa verso colui che sente, nella sua pazzia, di esser il solo saggio, l'unico che ha chiaro come comportarsi nel mondo di violenza che l'uomo ha costruito.
Un atto di profonda com-prehensione dell’altro, dunque, di tutte le
sue miserie, un atto d’amore incondizionato che si trasforma immediatamente in
struggimento, in risoluzione di quel tormento assumendone sulla propria pelle
la risoluzione, lo scioglimento.
Perché questo è, in parole povere,
il principe Myskin , perno intorno al quale ruota la storia e soprattutto
l’umanità intrappolata nei suoi schemi, nelle sue brutture, nelle sue infinite
miserie di ogni giorno, convenzioni, leggi, modi di fare, comportamenti,
ingordigie, sentimenti che esplodono e che si scontrano.
Così si capisce la natura che
sostanzia il principe, l’idiota, per l’appunto, malato di un’epilessia che lo
annichilisce, facendogli perdere finanche le dimensioni del tempo e dello
spazio per giorni.
Ma questa figura “splendente” del
principe che tenta di illuminare un
mondo popolato da uomini e donne che invece vivono nella tenebra e ignorano che
tutte le leggi che hanno costruito non sono che trappole, miserie per sfuggire
all’assurdità della vita, è ovviamente destinata a restare incompresa,
incompiuta e mistificata. Che cos’è uno che accetta dell’altro e dell’umanità
tutto ed è sempre pronto al perdono e a capire, interiorizzare le ragioni degli
altri se non un “idiota”?
I personaggi che costituiscono il
mondo nel quale il principe si muove e sente sono come le marionette in uno
spettacolo convenzionale e falso, aderente soltanto a significati imposti.
Assolutamente non disposti ad aprirsi l’un verso l’altro, sempre in guerra,
pronti a inseguire la loro miserevole felicità effimera e falsa, fatta di
miserie, contrapposizioni, guerre, lotte, sopraffazioni.
Pronti ad inseguire il guadagno,
passando sugli altri senza scrupoli.
Eppure sono colpiti dalla luce del
principe pur non comprendendola affatto.
Lo commiserano perché è altro dal
mondo, è fuori, è anormale. Anche qui il termine va ridotto alla scheletrica
etimologia, ciò che non è secondo norma.
Anche l’amore è impossibile al di
fuori dell’egoismo in questo mondo miserabile di esseri meschini.
Perché ho scritto, in esordio, che si tratta di uno dei libri più “pericolosi”
che Dostoevskij abbia scritto?
Perché indugia al bene, perché ne
fa l’unica uscita possibile. Perché mostra che l’ingenuità dell’animo, quello
che si fa bambino e non ha paura di apparire fuori dal mondo e dalla spirale
delle sue necessità – feroci, becere, violente, assolute, devastanti, “razionali”
–, è l’unica strada percorribile per mantenere la propria coerenza dell’anima. Perché
è una strada “astorica”, fuori dalle leggi del mondo ferree dell’economia di
mercato. Perché chi accetta di tornare all’ingenuità dei bambini è il folle,
colui che tutti sfruttano e che è necessariamente condannato a una via senza
uscita, la “follia” per l’appunto. O meglio a essere un “idiota” fino alla
morte.
Al di là della follia che si
richiude in se stessa non c’è che il male.
Una visione assoluta e disperata
questa di Dostoevskij, che, nella sua totale negatività, non lascia spazio di
redenzione. L’unica redenzione possibile è la “bellezza”. Una bellezza fuori
dal tempo, fuori dal mondo degli uomini, fatta di pause interiori poco
apprezzabili, di sospensioni, smarrimenti, esseri perduti che s’incontrano solo
per attimi, prima che la spirale del mondo li travolga definitivamente. E senza
speranza.
Forse è il libro più bello che
abbia mai letto.
E penso che, presto, lo rileggerò
di nuovo.