“…Mike
Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. Di costui
pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la
metodologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e
ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di una
funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente
quantitativo (…) Non accetta l’idea che
ad una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle
varianti. Nabucco e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa: egli reagisce di
fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che A
è uguale ad A e che tertium non datur.
Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di conseguenza conservatrice, paternalistica,
immobilistica”.
Così,
nel 1961, scriveva Umberto Eco nel suo Fenomenologia
di Mike Bongiorno, con la raffinata ironia che costituisce uno dei tratti
più singolari della sua intelligenza e degli aspetti più geniali della sua
ricerca di autore ed esponente di spicco della cultura italiana contemporanea; fu,
questo, un minisaggio rimasto letteralmente memorabile nel panorama letterario dell’epoca, quasi una
pietra miliare nella storia del Bel Paese del secondo dopoguerra; in poche
battute, al di là dell’ironia che sfocia
direttamente nel comico per le immagini che evoca del noto presentatore,
Eco centra limiti, disagi, comportamenti e prospettive dell’uomo-massa
contemporaneo, le sue aspirazioni (meglio, le sue non-aspirazioni), i confini
inamovibili dei suoi orizzonti di significato. Ciò che premeva al futuro autore
de Il nome della rosa, era marcare,
con l’evidenza del paradosso, i limiti patetici
della cultura italiana di quegli anni. Mike Bongiorno era, con il suo modo di
essere, l’emblema di quella società, di quel modo di “crescere”, di
quell’annichilimento dell’uno accanto all’altro, del “borghese piccolo piccolo”,
mediocre, ammutolito di fronte all’apparecchio televisivo e nullificato nella massificazione
del primo consumo rudimentale degli anni sessanta.
Quando
lo lessi per la prima volta l’effetto che ne ebbi fu lo stesso di vedere
Chaplin tritato negli ingranaggi di “Tempi Moderni”, di Totò in cerca di una
casa, inebriato dal ritmo ossessivo dei timbri, che li usa come le bacchette di
un fantastico tamburo e marca con l’inchiostro il posteriore dell’abito
bianco del sindaco-onorevole in visita
agli uffici comunali; o di Stanlio ed Onlio
che ballano e cantano fuori di un Saloon tenendosi i lembi delle giacche impolverate e pesanti tra
indice e pollice come fossero eterei tutù, o del giovanissimo Alberto Sordi che doppia Onlio in “Guardo gli
asini che volano nel ciel”, o Fracchia-Fantozzi che miseramente scivola dal suo
sedile amorfo-mobile sotto la scrivania di un terribile Gianni Agus-direttore,
o di Buster Keaton che, alle prese con il salvadanaio per recuperare qualche
spicciolo per uscire con la ragazza, finisce per fracassare, a colpi di
martello, il muro e sbucare
nell’appartamento a fianco; o, ancora, di Totò, in tenuta da caprese doc, che
premia l’imitatore di Picasso facendolo sedere
su una sedia, tappandogli un occhio, chiedendo aiuto per tenergli aperto
l’altro e, finalmente, sputandoci
violentemente dentro.
Insomma,
quella di Eco era una battuta comica,
basata sulla dabbenaggine diffusa nella nostra piccola Italia che cominciava a
prender fiato dopo una guerra tanto devastante,
che il nostro impertinente e geniale studioso di semantica e linguaggio sfruttava
in maniera intelligente, per sottolineare, con la forza del paradosso – proprio
quella che, secondo lui, difettava a
Mike Bongiorno – una incongruenza fin
troppo evidente del nostro sistema di comunicazione televisivo; ricorreva
all’effetto comico per meglio rendere
l’idea, per enfatizzarne il risultato
dunque. Fin qui nulla di strano. Che un agguerrito critico, abilissimo nell’uso
sapiente del linguaggio, sfrutti immagini a suo profitto è cosa certamente
notevole, ma, a suo modo scontata.
Ma
permettetemi di rivolgermi a quelli della mia età che hanno letto il bel saggio di Eco: vi aspettavate che, tra
Mike Bongiorno e Eco, il più vicino al vero, quello che aveva capito tutto
della futura evoluzione del nostro paese e delle sue istituzioni culturali più
prestigiose (le nostre Università, per l’appunto) fosse il presentatore
televisivo? E già: con una intuizione, questa davvero geniale,
ha anticipato l’intera filosofia che regola le nostre Università.
Come
si mostrano queste istituzioni ai giovani che chiedono di accedervi? Quale
cultura offrono, come li selezionano? Con complessi sistemi di valutazione
attitudinale? Allestendo corsi di accesso, prevedendo strategie, mettendo in
piedi scenari adeguati di valutazione, utilizzando le migliori risorse a loro
disposizione (cioè i migliori professori che ci sono ancora, nonostante tutto,
a dispetto di tutti i tentativi che si fanno per metterli fuori uso) per organizzare corsi preventivi, aprendo loro
gli occhi sulla prospettiva scientifica e disciplinare che li attende? Ci
aspetteremmo che ad un aspirante medico si mostri la complessità della ricerca
sul cancro, le prospettive, le difficoltà, la fatica intellettuale, lo studio quindi la vita difficile che lo attendono.
Agli
aspiranti studenti-architetti ci aspetteremmo che venisse loro mostrata la straordinaria
storia dell’architettura, la costruzione della città, le teorie di raffinatissimi
intellettuali come Leon Battista Alberti, la genialità sorda, cupa, testarda,
incredibile di un Brunelleschi,
l’ingegno fine di un Eiffel, l’incredibile industriosità dei costruttori gotici
che seppero, con le sole mani,
aiutandosi con corde, pali di legno,
asce e scalpelli erigere cattedrali la cui navata centrale arriva all’altezza di quasi cinquanta metri, senza la presenza di
matronei, lasciando che le pareti potessero essere traforate al punto di inondare di luce l’interno, in una sinfonia
di colori, di chiari e di scuri filtrati dai vetri. Ci aspetteremmo che venisse
solleticata la loro intelligenza, la loro curiosità, che venissero mostrate le
difficoltà che esistono oggi di erigere alcunché non solo in Italia ma anche
altrove, del confronto immane che un costruttore oggi deve affrontare con il
nostro pianeta sempre più in difficoltà e l’ambiente naturale in un
indecifrabile declino, gli elementi
impazziti e il caldo che d’estate brucia alberi e terra.
Niente
di tutto ciò.
Innanzitutto
il sistema di valutazione scelto – non si sa perché, da chi, in base a quali
motivi, a quale logica e in vista di quali obiettivi – è, manco a dirlo e con buona pace di Eco, quello dei quiz, quello di “un cervello
elettronico”, dove “A è sempre A, tertium
non datur”, quiz pienamente “aristotelici per difetto” nella forma e nella
concettualizzazione da piccola enigmistica tascabile di fine settimana;
esperienza intellettuale – si fa per dire – limitata, da consumarsi magari sotto un albero dalla grande chioma, su una
panchina, con un cagnone sui piedi e per compagni, a destra e sinistra, due
barboni simpatici come Fiorello e Bongiorno, per non guardare le cose, per non
affrontare i problemi. Non in saloni
enormi, stipati in tanti, in un tempo ristretto, con il cervello che se
ne va in tilt e di quello stress non si capisce il perché, la “ragione
sufficiente”, direbbe Rosario Assunto, estetologo, filosofo del paesaggio,
cultore dei giardini storici, “architetto della natura”, critico dell’idiozia
accademica imperante contemporanea.
In
altre parole, cari colleghi architetti, presidi, direttori, presidenti di corsi di
laurea e così via, non abbiamo a che fare con pensionati di ottant’anni che non
si aspettano più nulla dalla vita e per tenere sotto strizza il cervello si
danno al piccolo rebus, all’indovinello, alla pazziella logica che fa ridere, ma con giovani di diciotto, diciannove,
vent’anni, intelligenti, smaliziati, che i computer li sanno usare bene perché ci
sono cresciuti insieme e che, forse, li stanno anche per accantonare perché si
sono stufati della loro logica a scatolette cinesi, ne hanno le palle piene di finestre che si
aprono, logica d’accatto, cad e multimedialità; che non sanno più che farsene di una cultura
nella quale A è sempre uguale ad A. Che, spesso, sono inseguiti da presso da un
mondo che non li accoglie, che fa di tutto per buttarli tra le braccia della
droga, la bianca e pallida signora che, in quattro e quattr’otto ti fotte, dà
la morte.
La
nostra è la cultura della complessità e, ci piaccia o no – e questo i
matematici e i logici seri , quelli che non si sono arresi ad insegnare piccole
nozioni di algebra nella scuoletta media di periferia, nei licei o nelle
università, lo hanno ben compreso e spendono le loro migliori energie per
capirci qualcosa – richiede nuove strategie di approccio, più intelligenti,
meno schematiche, molto più complesse dell’aristotelismo di ritorno di sommesso
profilo psicotecnico da forze armate di basso
livello. Non sono più validi gli schemi di modellizzazione logica usuali e
classici. Può essere che A sia A, ma
molto spesso è B, C, D, e forse anche 1,
2 o 3 e, spessissimo, niente di tutto ciò: si tratta del naufragio quasi
completo dei nostri schemi di astrazione logica; oggi è necessario inventare, ci vuole una cultura che faccia
paralleli, debordi di campo in campo, selezioni, saggi, butti via per poi
riprovare, sperimentare a più non posso, ci vuole un cervello elastico come
un’onda, trasparente. Ci vuole quella che Franco Rella, citando Nietzsche, chiamava “ragione porosa”, capace di farsi
penetrare da tutto, da ogni fenomeno e trarre profitto dalle esperienze che
stanno, incomprensibili, sotto gli occhi
di tutti . Altro che quiz alla Mike Bongiorno!
Ma
la cosa non si ferma qui. E’ ben peggio. Se la forma del quiz è noiosa all’
inverosimile come spettacolo televisivo, essa
diventa intellettualmente ripugnante se usata per
saggiare l’intelligenza di una mente giovane; figuratevi che accade quando si
esamina il contenuto di questi quiz! Ma qual
è il contenuto? Mi sono reso conto che è difficile accedere al contenuto dei
quiz. Perché sono, prima delle prove,
ovviamente, segreti. Dopo, lo sono
ancora per questioni di privacy. Sono riuscito a scovarne qualcuno tramite la password
di mio figlio che li ha sostenuti due giorni fa, superandoli. Così ho scoperto
che, per accedere alle facoltà di architettura italiane, si deve, tra l’altro, sapere quasi tutto dei francobolli italiani, dalla “posizione
storica” alla “lettura del francobollo sotto il profilo estetico”, fino a
comprendere quando un francobollo “nasconde una crisi politica”, economica e se
è valutabile per la bellezza, per la funzione o per la data di emissione e se è
stato emesso per scopi di collezionismo filatelico o per celebrare importanti
eventi. Si passa dal significato della
luce in Sant’Agostino alla prospettiva razionale degli sfondi di Caravaggio,
allo spazio d’ombra e se il nero pece sia stato lì posto per far risaltare i
primi piani. Passando tra reti di
numerini sospesi e cancellati, dadi con simboli vari, si giunge alle chiavi di
casa, non quelle di Non aprite quella
porta (l’horror c’è ma più avanti, come vedremo) ma quelle che aprono la
porta d’ingresso ma non la cantina.
L’aristotelismo
da forza militare di base e da enigmistica per vecchietti rincoglioniti,
stramazzati dal caldo sotto un albero con la Settimana Enigmistica nelle mani, impazza;
Alì Babà se la passa bene ed ha un numero imprecisato di odalische-concubine,
alcune con i capelli neri, altre con gli occhi neri, per la precisione i 4/5
hanno i capelli nero avorio e i 3/4 hanno gli occhi neri; tipica domanda da agosto infuocato: quante
sono le odalische che hanno sia gli occhi che i capelli neri? Non posso fare a
meno di scacciare dai miei pensieri l’immagine del solito Totò che, alle prese con il problema di
aritmetica del figlio, nel quale si parla dell’ortolano che aveva raccolto non so
quante zucchine e ne aveva perse tante altre, non ce la fa più e dice: “Ma non se ne poteva
stare a casa sua e mandava un altro a raccogliere i cocozzielli?”
E
poi non ho potuto fare a meno di crepare
dal ridere – io a casa mia, davanti al mio computer, tranquillo e rilassato, ma
immagino quali saranno stati i commenti dei ragazzi più attenti e smaliziati –
quando ho letto di un tal Nonno Ubaldo che dice al nipote di aver
attraversato l’Atlantico e battuto in velocità le balene. Forse, azzardava il
quiz, Nonno Ubaldo era un bugiardo. Perché?
E di qui tutta una serie di ipotesi sulla natura della bugia; la
risposta, non ci crederete, è perché se
Nonno Ubaldo ha battuto le balene, non ha potuto attraversare l’Atlantico.
Confesso la mia ignoranza e sono pronto a non ritenermi adatto all’insegnamento
dell’architettura, perché, per quanti
sforzi abbia fatto, non l’ho ancora
capita: perché nell’Atlantico non ci sono le balene? Perché le balene non
attraversano l’Atlantico? Per me, a lume di naso, Nonno Ubaldo sarebbe morto
d’infarto, correndo per l’Atlantico appresso alle balene, dopo i primi venti,
trenta metri. E, poi, dipende, dall’età;
se Telesforo – sì, avete capito bene, sono andato a controllare, è questo
il nome del nipote di Nonno Ubaldo – ha 19-20 anni come uno studente che s’iscrive
all’Università, Nonno Ubaldo, se ha
fatto proprio in fretta e lo stesso ha fatto suo figlio, deve stare sull’ottantina
o giù di lì e a buttarsi nelle acque dell’Atlantico, a quell’età, è certamente morto quasi sul colpo, quindi di
metri ne deve aver fatti veramente pochi.
C’è,
come ho detto, il finale horror-fantasy, con Angelica, dolce ed “intelligente”
principessa cinese, trattenuta in una
stanza ottagonale, con non ricordo più quante porte, dal feroce, “perfido” mago Atlante e una serie di servi
malvagissimi pronta a farla divorare dai draghi se non si rompe il cervello a indovinare chi di loro, tra la stragrande
maggioranza che le confonde le idee per perderla, dica la verità. Naturalmente
lo schema è sempre quello del sillogismo; stavolta la grande complicazione
intellettuale è che le implicazioni sono incrociate e dunque per sbrogliare
la matassa si procede a ritroso, per
fasi interdipendenti. Nient’altro che un piccolo scioglilingua concettuale.
Così,
se ci riesco, sono architetto. Ma ho ancora la testa che mi gira per via delle
risate a proposito del Nonno che se ne
va a nuoto per l’Atlantico a fare le corse con le balene.
E
poi mi convinco: con questo mestiere è meglio non averci a che fare. Non sono
proprio preparato per insegnare l’architettura. Parlerei di Brunelleschi e
delle cattedrali. Dei Nonni che fanno le gare, di Barbablù e delle odalische di
Alì Babà con gli occhi neri so veramente poco. Preferisco il mio vecchio
mestiere tradizionale con il quale si affrontano rompicapo di altra natura: per esempio, come fare
una città che funzioni, che sia più bella e che costi poco e che sia anche in
accordo con la natura. Come fare per costruire case nelle quali venga la
felicità di vivere come quelle che disegnava Wright.
Ma
questa è un’altra storia che mi sembra lontana dai quiz. E, devo dire, anche lontana da Mike Bongiorno
che, tutto sommato, non ha mai avuto la pretesa che la sua maniera di essere diventasse
procedura accademica di valutazione attitudinale. Non se lo sarebbe mai sognato. Il sogno, anzi
l’incubo, è venuto in testa a qualche altro che si nasconde dietro la sigla
CISIA (Centro Interfacoltà delle Scuole
di Ingegneria e Architettura).
“Addà
passà a ‘ nuttata” diceva Eduardo. Speriamo
che passi in fretta.