Chi era Silvio Fiorillo
di Giacomo Ricci
Di Silvio Fiorillo si sa molto poco.
Nacque certemente a Capua e fu attore girovago della scuola napoletana.
Fu molto spesso alla corte di Luigi Gonzaga, duca di Mantova.
A Mantova ci fu il cuore della commedia italiana del Cinque-Seicento con i più grandi attori del momento.
Come quel Tristano Martinelli, inventore geniale della maschera di Arlecchino che fu, anche, compagno di scena e di cordata di Silvio.
Fiorillo interpretò, per quasi tutta la sua vita, la parte di Capitan Matamoros, figura di soldato “spaccone”, spagnolo, irascibile, ammazzamori. Da cui il nome.
Fiorillo fu spesso anche a Napoli e lavorò nella compagnia della Stanza della Commedia Vecchia, alla via di Medina. Dove ora c’è la chiesa di San Giorgio dei Genovesi, proprio di fronte alla piccola rampa di scale che portava al San Bartolomeo.
Lì c’era la sede del vecchio teatro di commedia napoletano che lavorava quasi sempre con compagnie locali, di napoletani.
Qui, nella compagnia diretta da Bartolommeo Zito, Fiorillo inventò, nel 1609, la maschera di Policenella.
Il nome deriverebbe da quello di un falegname, rissoso e burrascoso, che aveva bottega proprio accanto all’ingresso della Stanza della Commedia.
Come si può ben immaginare, i traffici e i rumori delle lavorazioni del legno, entrarono ben presto in contrasto con il via vai degli spettatopri e gli interessi dei teatranti.
Il falegname pare si chiamasse don Mariotto Pollicenella o qualcosa di molto simile.
Silvio Fiorillo, per liberarsi dell’incomodo vicino, ebbe un’idea geniale. Come sempre gli capitava per poter sopravvivere nella sua burrascosa vita di attore girovago costretto ad affrontare viaggi, difficoltà economiche continue e la concorrezza agguerritissima dei “colleghi” del nord Italia come Tristano Maertinelli che, in quanto a furbizia, non scarseggiavano affatto.
Ideò una insolita e intelligente presa per i fondelli, inventando una maschera “ridicolosa”, sfottente e dissacrante che fece mettere gran scuorno al falegname, esasperandone vizi, difetti e, soprattutto, smerdiandone il nome.
Mentre sulla scena della Commedia Vecchia trionfava la maschera di Policinella, servo svagato, affamato, inconcludente e volgare, il vero don Mariotto Policenella, per la vergogna, dovette traslocare. Con grande gioia degli attori. Egli era diventato oggetto del ridicolo di tutti i popolani che volentieri si recavano a sfottere l’ispiratore “ridicoloso” nel nuovo personaggio della commedia dell’arte del Seicento. Ci possiamo immaginare, una volta presolo di mira, Fiorillo che cosa ne dicesse dal palcoscenico, quanti peli gli contasse, quanta magagne familiari della moglie veniva spiattellate in pubblico. Gli stettatori trovavano molto divertente avere a due passi il modello da cui la maschera era nata, ridendone, si può immaginare, di gran gusto.
Tutti i difetti del masterascio m anche le invenzioni di Fiorillo, finivano driitti dritti sulle tavole del palcoscenico, sotto gli occhi - e lo sfottò – di tutti.
Chi poi portò, negli anni successivi, Pollicenella alla sua gloria e ai canoni caratteristici della sua figura fu l’attore geniale Andrea Calcese.
Ma il primo a cacciar fuori l’asso dalla manica e a scriverne, proprio nella commedia della Lucilla Costante che qui si ripropone all’attenzione del lettore, fu Silvio Fiorillo, legando la maschera alla tradizione solidissima degli Zanni che, nel Nord, aveva radici che affondavano direttamente nel medioevo.
Buona Lettura.
Giacomo Ricci
Silvio Fiorillo
La Lucilla costante
Con le ridicolose disfide, e prodezze di
POLLICINELLA
Milano
per Gio.Battista Malatesta Stampatore R.C.
1632
ArchigraficA Edizioni
2012
Comedia curiosa
DEDICATA
All’Illustrissimo et eccellentissimo sig.
Il DUCA DI FERIA
In Milano, per Gio.Battista Malatesta Stampatorte R.C.
1632
ALL’ILLUSTRISSIMO
ET
ECCELLENTISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR
DON GOMEZ SVAREZ
De Figuertoa, e Corduoa
DUCA DI FERIA
Del Consiglio di Stato di S.M. suo Governatore dello Stato di Milano & Capitano Generale in Italia &c.
Sogliono più delle volte Illustriss.& Eccellentissimo Signore, i buoni, & fidi servi di mostrarsi grati a chi di perfetto cuore amano, indolcendoli l’orecchio, e l’animo con grata, & sonora melodia di alcuni soavi, e dilettevoli componimenti, io dunque Signore Eccellentiss. che lei fui, & sono così divotiss. Servitore; & non essendo dall’arte, ne dalla natura stato arricchito, ne addottato, di ciò, che farmi havrebbe potuto degno di eterna fama, e bob sapendo in che risolvermi per potermegli rendere grato; presi più, e più volte in mano la penna, molto desideroso di celebrare ( se potuto havessi) qualche minima parte della somma, & infinita sua grandezza, e della giustissima bilancia, che con retta mano e religiosamente in questo Real Stato in pace, e in guerra con infinita meraviglia di tutti ha sostenuto, e sostiene; ed accennare gl’infiniti meriti, e grandezza del Eccellentissimo Signor Duca di Feria suo dignissimo genitore di gloriosa memoria Viceré di Sicilia, e mio Signore, e dopo tutto in me raccolto, con più sano, e maturo giuditio, giudicai, ch’assai disdicevole cosa stata sarebbe il volere io porre in carta, ciò che con ribombante tromba di oro la relatrice fama nel mondo ha sparso, e che meglio assai stato sarebbe, con molta osservanza il tutto riverire, che poco & imperfettamente favellarne, non essendo la mia penna, ne di Canoro Cigno, ne di unica Fenice per poter giungere nerlla eminenza di sì glorioso segno; si che Illustriss. & Eccelentiss. Sig. mio, iscusando per la sua innata gentilezza, la mia molta imperfetione, accetterà la buona volontà, con questo mio picciol dono Comico, che con me stesso gli dedico, e consagro, e facendogli humilissima, e divota riverenza, gli auguro dal Cielo ogni compita felicità, & accrescimento di Stato. Milano li 29 Ottobre 1632.
Di V.E.
Humilissimo e perpetuo servitore
Silvio Fiorillo
PERSONAGGI
ALBERTO,vecchio padre di Lucilla
SCALTRINO,fanciullo di casa
CAPITAN MATAMOROS
CLARICE,sorella
FIORETTA,serva
CAPITAN SQUARCIALEONE
SCARAMUZZA,servo
FULGENZIO
POLLICINELLA,servo
VOLPONE,ruffiano da sé
BRAVI,due
e
SGUATARI,tre
In Capua si rappresenta la Favola
PROLOGO
Gentilissimi spettatori, ecco che oggi, pur da noi, rappresentata vi sarà la comedia della Lucilla costante e le ridicolose disfide di Pollicinella. Dunque statela ad udire, di grazia, e con attenzione; e godetela in quel modo appunto, che avvenir suole a coloro che, doppo di avere in sontuosi conviti assagiato saluberrimi ed esquisitissimi cibi, gustano nel fine varii e improfittevoli frutti, con non poco e, forse, maggior diletto.
Vi protesto però di non arrogarmi, né promettermi, che ella apportar vi debba quel sommo piacere che le altre, da' sublimi autori composte, arrecar vi sogliono. Poiché varii sono i gusti e infiniti i capricci e gli umori di quelli che mirano, odono e legono, non potendosi a tutti sodisfare, sì perché ella non sia degna forse di loro, né di poter fra le altre comparire, per far di sé pomposa mostra su i vaghi e superbi teatri; o pure perché abbino la mente tanto colma di altri più artifiziosi e maggiori componimenti, che ella non vi possa trovar loco in essa. Pure, sia come si voglia, in quel modo che è stata dall'autore composta, vi sarà da noi recitata, molto confidati però, con esso uniti, che dove il suo poco potere ha mancato, debba supplire la sua e nostra buona volontà e vostra sovra umana gentilezza.
E vi si avverte insieme e prega, generosi signori, a non dar macchia al vostro lucidissimo specchio, poiché tale è la comedia delle nostre umane azioni, che si schiara e allumina per commun piacere e diletto, e per giovare e non per danneggiare altrui.
E ciò che da noi comici vi si dimostra, spesso fra le umane cose si scorge, e che il vero sia, mostra in sé, due esemplarissime strade: l'una che il male palesa, perché guardar ce ne debbiamo; e l'altra il bene, che senza alcun dubbio abbracciar si deve, e non far come il buon poeta, che sovra la crudeltà della sua donna scrisse: «E veggio il meglio, e al peggior m'appiglio».
E per darvi buon saggio del vero, in questa nostra comedia scorgerete e udirete donne costanti, amanti fedeli, vecchio facile a creder, e capitani iperbolici; ruffiano astuto, servo incauto, parasito che, della gola tirato e lusingato, si riduce a combattere contro di chi non dovrebbe; e altri che per non darvi tedio li tralascio.
Delle donne costanti vi si dinota a star costantissimi al bene operare; de gli amanti fidi a non esser infedeli a chi vi ama; dell'astuto ruffiano di non fidarsi molto di chi vi viene spesso per casa, coperto di pelle di agnello e foderato di quella di astuta volpe; del parasito di non lasciarvi da loro adular, né che ve debbiate tanto sommergere nel suave diletto della dolce crapula, così per vostra salute come per benefizio della borsa; del vecchio credulo che non debbiate così tosto dar credenza a ciò che non vedete; de i capitani buggiardi di guardarvi di chi molto di sé si promette, per non rimanerne sul meglio in bianco; dell'inaveduto servo, di andar più circonspetti nelle vostre onorate e degne azioni.
Fatte dunque grato silenzio, ché ora si darà prencipio, e senza alcun dubbio con la esperienza conoscerete del tutto il vero. A Dio.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Capitan Squarcialeone, Scaramuzza servo
Squarcialeone.Il volermi tu contradire, o Scaramuzza, alle mie bramose voglie e al mio ardente desiderio, credimi certo che è un volerti procacciar la morte, procurarti l'inferno e l'infelice e tormentoso albergo tra le anime dolenti e disperate. Se io amo la bellissima Clarice più che me stesso, come vuoi che la disami? Poiché il vago e potentissimo Amore, a dispetto dell'armi tutte e della mia insuperabilissima bravissima bravura, e di Marte e di Bellona, gli ha dato in man le chiavi di questo durissimo ed infrangibil petto, e l'ha fatta verace e sicura dominatrice delle viscere di questo animosissimo cuore. E con inviolabil fede ho promesso di amarla, e perciò non posso e non debbo essergli manchevole, già che con ogni sua potenza e suprema autorità egli mi constringe e sprona e sforza che io debba star constantissimo e voglioso in amarla, servirla e adorarla, se adorar si può cosa mortale e non divina in terra.
Scaramuzza. Sì, sì, sì, sì, adonca si è così, non me n'empaccio, perchè, disse da sapio chilo gran poeta: piscia, vrachetta, ché chi la vole cotta e chi la vole cruda. Chi vo' vascuotte e chi vo' pane muollo. Amore è amaro, e chiù che toro tira, triche varlache ca la casa chiove! E tanto chiù ca io per zi', me sento spisso spisso pogniere e ardere lo core, ca vao 'n ammore de Scioretta, idest, cioè, della zitella de la signora Chiarice. E l'ammore mio co lo suio non è ammore npececato con la cera, né manco co la sputazza; ma co la pece cosuto e tacconiato a spao duppio, che non se pò chiù ascioglier e chiaito muorto. E pe fare, a bo' sorìa, vedere, canoscere e sapere ca ve songo buono e fedele servetore e schiavo, non solamente a la signorìa vostra, ma per zi' a li cane, a li gate, a li surece e a li pulece de tutta la vostra razza, mo ve voglio precoleare aiuto per miezo de la nammoratella mia, sì che, signore mio bello, veccome prunto e preparato come anase confitto e, aùtto faore, dapo' non voraggio da vo' sorìa sulo che me facite deventare marito de Scioretta, e starimmo pace.
Squarcialeone. Scaramuzza, ti giuro da vero capitano, da invincibile feritore, ammazzatore e vero conquistatore d'imperii, per la spada di Marte, per lo tridente di Nettuno, per lo bidente di Plutone, per la lancia di Pallade e per lo scudo di Medusa, che se tu ciò farai e t'adopererai in mio servigio, ti farò un de' miei primi soldati e camerata. E se ti porterai da valoroso, subito ti farò mio caporale, e doppo sergente, alfiere, capitano, luogotenente di cavalleria, collonello, mastro di campo e generale.
Scaramuzza. Delle padulle de Napole!
Squarcialeone. E al fine, se vorrai, ti farò conduttiero generalissimo di tutti i miei numerosi eserciti.
Scaramuzza. De la varva e de la cammisa!
Squarcialeone. E ti farò da tutti per nome chiamare il gran capitan Crollatorri, il general Saltamonti, il capitan Trangugia palle di bombarde, Sputachiodi, Stracciacatene, Tritaeserciti, Sfondaporte, Rodiferro, Levainsegne, Spiantacolonne e Urtamura.
Scaramuzza. Si ca staraggio nbriaco! Chesta è na bella canzona da cantare a canto a lo fuoco la sera de' capo d'anno co lo zuco zuco, co lo colascione e lo cò cò. Ma bastarà d'essere chiamato guataro de cocina, attizza fuoco, vota spito, scumma pegnato, lava scotelle, magna forte, zucca medolla, e d'avere assai fissole da spennere. Orsù, ve voglio servire, ma me sbatte lo core e li permunne me aballano dintro lo cuorpo; state a la larga si a besognasse foìre, ch'aggio paura che non venga lo capitanio spagnuolo e me asocciasse lo iepone co na bona chiatoneiata, e puro che non siano cortellate a spacca stromola!
Squarcialeone. O che viltà è la tua? Animo e cuore, cospettonacionacissimo delle corna storte di Vulcano, poiché dovunque io sono non si parla di paura, ché fugge il timore, va in fumo lo spavento, invisibile la pusilanimità, me riverisce il fato, mi abbraccia la sorte, mi onora la possanza e mi chiama con strepitante e rimbombante sono di tromba la gloriosa fama alla guerra, all'assalto, alla Scaramuzza, all'impresa, alla vittoria dell'imperio dell'universo tutto!
Scaramuzza. Pe digni respete state a la larga, che no ce occoresse de mettere 'n'opra lo spatone a dui piede, perché vo' sorìa lo ioca buono. Mo tozzolo. O là, o de la casa !
SCENA SECONDA
Fioretta, Scaramuzza, Squarcialeone
Fioretta. Chi è quel che batte? O là, se' tu il fornaio?
Scaramuzza. So' chillo che vorrìa nfornare e sfornare.
Squarcialeone. Allegramente Scaramuzza, coraggio, fratello!
Scaramuzza. Ohimè, segnore, steteve zito, ca m'ha paruto da sentire la voce de chella che io festeggio. Me sparpateia lo fecato 'n cuorpo comme a galina storduta! Ietateme, de grazia, no pegnato de vruodo frido 'n face, ca me adevelisco.
Squarcialeone. E, di grazia, sta' pur sora di te e parlali arditamente.
Scaramuzza. Mo torno a tozzoleiare. O là, o da la casa?
Fioretta. Chi è là, chi batte l'uscio?
Scaramuzza. Chillo che venne lo caso muscio.
Fioretta. Che dimanda costui? Il signor capitano non è in casa.
Scaramuzza. E chesto volimmo nuie.
Fioretta. Oh misser Scaramuzza, che vi è di novo, cor mio?
Scaramuzza. E sulo sto cor mio no sarìa a bastante a refregeriare l'arme desperate? Ohimè, bene mio, ca vedenote e sentenote parlare, tutto me sento decreiare, tutto movere e scomovere, e tutto desfare e liquafare. Ora mo sì, ca me ne vao 'n brodetto e 'n zuoccolo.
Squarcialeone. Scaramuzza, allegramente! Dimandali di Clarice, tratteli dell'amor mio.
Scaramuzza. Adaso, segnore. E como stai, Scioretta mia?
Fioretta. Bene, stando in tua grazia. E qual mia bona sorte or mi ti ha qui guidato?
Scaramuzza. Ammore, ammore, bene mio, che fa che caudamente io te desidera per mogliere, pe frequentarte spisso a boglia mia. Ma siente sto suonno, che de te me aggio sonnato.
Fioretta. Dimelo, di grazia, che sognio è questo?
Squarcialeone. Diglielo, Scaramuzza.
Scaramuzza. Mo nce lo dico, ca l'aggio puosto 'n vierze.
Fioretta. Dunque tu sei poeta?
Scaramuzza. Poetissimo, ora siente e stupisce.
Squarcialeone. O Scaramuzza, fa' presto, ché Marte mi aspetta a cena!
Scaramuzza. Aspettate no poco signore, ca mo ve servo, pertonateme.
Spisso me sonno ca me fai tirare
tanto de cuollo, sorta de na forca,
e che me dice: Vate fa' squartare,
brutto vozzacchio, figlio de na porca.
Ca de me tanto te ne puoi scordare,
te so' crudele chiù che n'è na torcia,
sfratta, vattene e curre, va' in bordiello,
ca vaìna non c'è pe 'so cortiello.
E si è lo vero, comme suonno è stato,
io me ne scrudo, ca danar non aggio,
nasciete a chisto munno sbentorato,
così non fosse, o quanto me n'arraggio.
So' forzato, nervuto, e songo ammato,
e chiù balente de Guidon Selvaggio,
e c'ho un fratiello mio nasciuto in Ascole,
che non fa fare se no figli mascole.
De gran vertute, ogni vertute avanza,
se te ne vuoi servire, io te lo presto,
nate giamelle simmo ad una panza,
chiù che sorgente sempre mai sta lesto.
E n'è spennato, ca n'è stato 'n Franza,
né manco porta mai capiello 'n testa,
ha dui nepute appriesso e non te adula
quanno isso serve guardano la mula.
Squarcialeone. Mi par, Scaramuzza, a dirti il vero, che tu sei quello che a me qui fai tener la mula. Vorrei che desti al tronco del mio negozio, corpo del can trifauce e delle furie d'Averno!
Scaramuzza. Mo signor, no me sgarrate, ca mo me spedisco e ve servo, no cospetediate tanto! Che tenne pare de sto parlare mio mescaticio e infrogecato napolitano e toscano? Ca così me suole parlare tu, vita mia bella nfanfararella
Fioretta. . Il sognio è sognio ed è falacissimo, perché te amo al pari della mia vita; circa della poesia non me ne intendo, perché non ho mai potuto assagiare l'aqua del Castalio fonte.
Scaramuzza. Sì, sì, t'aggio intiso, che sta a bascio quanno se scenne lo monte Parnaso , dove stanno le Muse a cogliere rose e sciure de cettangolo. E si non è conforme tu mierete, pigliane lo buon armo, perché quanno fice ste vierze non ce vedeva, ché era de notte, e lo cerviello me se sbottava, penzanno a 'sa bella facce toia, spiritillo mio.
Fioretta. Molto ti ringrazio della tua bona volontà e, in somma, desidero di esser tua moglie.
Scaramuzza. E io de te essere marito, ma pe arrivare allo designo nuestro, besognia, anze, che è de necesetate, che aiutammo lo signore capitanio Squarcialeone patrone mio, che è nammorato de la patrona toia de tale manera che lo pover'ommo se sente lardiare lo core e sfriere dintro de la fersora d'ammore, penzanno alle bellizze soie.
Squarcialeone. É verissimo, per l'anima di Leonbruno, di Antifor di Barosia e di Bovo di Antona! Io mi distrugo, mi affligo, mi martiro e mi muoio per lei. Fioretta, rimedio al mio gran male, soccorso al mio dolore, pietà al mio languire, refrigerio alla mia pena, aqua al mio gran foco, riparo alla mia disperazione.
Scaramuzza. E mazata 'n coppa de spalle, pe fare le sergazione.
Fioretta. Ohimè, signor mio, non vi dolete tanto, perché molto vi compatisco, perché amo ancor io.
Scaramuzza. E ama a mene, sto schieco bello, che me fa sparafonnare de dolore.
Fioretta. Però, che potrò far io per servirla, mio signore?
Squarcialeone. Odi, madonna Fioretta, chiamarla, acciò dir gli possa l'intrinseco del mio core e la mia pena; ch'io ti prometto e giuro, per la castità di Diana e per la beltà infinita di Venere, che il mio fedel Scaramuzza sarà tuo marito, con il carico di poter commandare con suprema potenza come patrone assoluto a mezza l'Italia.
Scaramuzza. Chienna de pecore e de vuoi.
Squarcialeone. E se questo sarà poca per ora, abbiate pazienza e accetatelo di paraguanti, che appresso tutta la Spagna sarà vostra, e gran parte della Francia.
Fioretta. O mio signor capitano, di grazia la mi perdoni se io gli dirò quella bella sentenza di madonna pocofila: chi molto promette poco attende, poiché le molte promissioni sono sorelle delle finte larvi. La si degni di grazia di promettermi poco per attendermi molto.
Scaramuzza. E lassalo dicere, sore mia, ca chisso è lunateco, basta che nui aggiamo lo atiento nuestro, e de lo riesto comme vene vene, disse chillo. Ha ragione signore, de grazia non facite che lo gran nomme vuestro de gran Squarcialeione se converta in Squarcione, abotta pallone e spaca pantano (perdonateme se lo dico).
Squarcialeone. O puttanacia di me, tu mi faresti con viperina lingua e voce diabolica renegare e biastemiare, e mandare in tanta mala mal'ora, quel giorno, quell'ora, quel punto e quel momento che il gran Gradivo e bellicoso nume discese dal suo quinto giro per cingermi al fianco questa mia arcitaglia, squarcia, passa e trapassa, e torna a ripassare, leonissima massima sbudellatrice spada! Se io vi prometto un mezzo mondo, vi giuro per la incomparabil forza di questo smisurato braccionacio di donarvene cento, ducento, e mille mondi!
Chiamala, Fioretta mia, non mi far più penare. Pregaglilo tu, Scaramuzza, che se' suo amante.
Scaramuzza.Scioretta mia, io te lo preo, te lo strapreo, e te lo arcepreo, e te lo sconciuro, comme se fosse spiritato. Chiamala priesto, bene mio.
Fioretta. Non occorono cotanti preghi a chi desidera servire! Ora ne vedrete l'effetto. Statevi da me lontano e fingete di sopragiunger all'improviso.
Scaramuzza. Ha ragione, facimoce chiù là.
Squarcialeone. Sì certo, non è mal pensiero il suo.
Fioretta. Signora Clarice, signora, signora, lasciatevi vedere, o che graziosi mascari!
SCENA TERZA
Clarice con i sudetti
Clarice. O là, che dicesti Fioretta di mascari?
Fioretta. O vi siete molto trattenuta, signora! Già se ne sono iti da quella parte e vanno per quel vicolo.
Squarcialeone. É verissimo, signora. Per certo che erano sopra modo belli e sontuosamente vestiti.
Scaramuzza. E nc'era io presente, o che belle femene vestute da uomene, e che belle uomene vestute da femene, o belle zanne, o che gustuse trastulle! Me pareva de vedere chille mascare de Romma, chelle belle mascarate de Napole.
Clarice.Che vorreste voi altri dir per questo? Chi vi invita qui a ballar senza suoni?
Fioretta. Che vogliono, che dimandano costoro? Il signor capitano mio padrone non è in casa.
Squarcialeone. Io non cerco, nè, bramo di parlare al signor capitano vostro patrone, ma ben cerco la grazia, la sovra umana bellezza della signora Clarice.
Clarice. Che grazia e che bellezza di me cercate? Che avete a far voi meco, che cotanto ardito qui sète venuto ad adularmi senza rispetto alcuno? Dove mi avete mai conosciuta, che così inconsideratamente mi parlate?
Squarcialeone. Ah, signora Clarice, piano, non ve adirate tanto contra di chi vi ama.
Clarice. Non ho bisogno di esser amata da chi non amo, e perciò dico che chi dice ciò che li piace ode in risposta quel che gli dispiace.
Squarcialeone. Io ho udito quel che non voleva, da chi dir non lo doveva, però il tutto, signora, prudentemente sopporterò, conoscendo che cotanta alterezza deriva dalla vostra infinita beltà, armata tutta di sdegno e d'ira. Vi esorto a non confidar tanto in essa, signora, ché ancor ella è sottoposta al tempo e alla fortuna, raccordandovi che gli ardenti folgori del cielo sogliono più agevolmente percuotere gli alti e superbi edificii, che gli umili e bassi. Come dunque così crudelmente dispregiate chi vi preggia, odiate chi vi ama, fuggite chi vi segue? ma con che raggione? Io mi meraviglio e dolgo di questo, se è proprio donnesco difetto di non esser dissimile alla morte, che sfugge chi la desìa, e abbraccia chi la aborisce.
Scaramuzza. Anze, che la femmena è comme a la valanza de lo saucicciaro, che da chella banna chiù penne dove nc'è chiù carne.
Squarcialeone. E con tutto ciò ben conosco, signora, che quasi inconsiderata farfalla, con dolce diletto, vengo a procacciarmi la morte al vostro amoroso foco, e pure disposto sono di star sempre costantissimo ad amarvi.
Clarice. E io costantissima in odiarvi e in procurar la vostra pena.
Squarcialeone. Dunque sarò un novo Prometeo preso e legato, non da Giove sopra del gran monte Caucasso con il cuor sviscerato dall'aquila rapace, ma dai begli occhi vostri; anzi che voi la vera aquila siete, poiché non solamente sbranate il misero mio cuore, ma lo rapite e molto me ne consolo e contento, e me ne pregio, per aver collocato in sì alto oggetto il mio amore. E chi sarebbe mai tanto di giudizio privo, che lasciasse di seguire così alta e generosa impresa? Poiché voi sola siete il vero fonte di ogni bellezza, avendovi la gran madre natura adotato di grazie tali che né sono state, né sono al presente, né possono essere in bella donna mai, sì che ciò che è di bello al mondo è in voi signora, e ciò che non vi è di bello non è in voi; e credetemi che né da Zeusi, né da Apelle formata né colorita fu mai così bella figura. Dunque, participate molto delle grazie celesti, e se quelle per naturale estinto sogliono giovare alle cose caduche e mortali, perché con la grazia vostra non giovate alla immortalità del mio amore e della mia bravissima bravura, che tanto in maestà alla vostra beltà si rassembrano?
Clarice. Non so che far io debba, signor capitano, di cotante lodi, che ella oltre ogni mio merito mi dona. Se io l'accetto sarò tenuta da ambiziosa e superba, se le refiuto verrò a trattarvi di adulatore e da bugiardo.
Fioretta. Perdonatemi, signori, se io vi interrompo le vostre belle parole, perché vorrei con lor bona grazia e licenza dirvi una cosa.
Clarice. Di' pur, Fioretta, ciò che dir ti piace.
Scaramuzza. Parla tu puro, gioia mia, rosa moscarella dello naso mio e sceruppo nzucarato e medicina defrescativa da fareme vacuare tutti li male umure, ch'aggio 'n cuorpo.
Fioretta. Dirò , signori, poiché son molte le lodi che il signor capitano ha date, dividetele in due parti: la metà che saranno le veraci, signora, se le serba per lei, e le altre fallaci e iperboliche rinunciatele a lui.
Scaramuzza. É lo vero, po' che ogni simele apetisciarìa lo suio simile, disse Tadeo de le melella, parlanno co Marco Ambruoso de lo ioio, che beneva cepolle allo mercato.
Clarice. Orsù, per finirla, e per non perder più qui in vano il tempo, farò ciò che giudicato sarà dal signor Capitano, e lo starò ad udire con diletto, conoscendo che egli molto si preggia e crede che io dia fede alle sue iperboliche parole.
Squarcialeone. La ringrazio signora, e perciò giudicherei che già che la mia signora Clarice non le vole accettare, che con queste e altre maggiori unite ne fusse fatto da noi un ricco presente ad Amore, essendo quello che merita ogni onore per avermi egli fatto affezionato servo di così degna padrona. E così non sarà lei tenuta da superba, né d'ambiziosa, né io d'adulatore e bugiardo.
Clarice. Date dunque questo così ricco presente a lui, poiché li siete tanto obligato; ché io non ho a far seco, né lo conosco, né bramo altro da voi.
Fioretta. In modo che sarà meglio (perdonatemi signora) che se ne adorni il signor capitano, perché lui certo è degno di gran merito.
Scaramuzza. Signora, isso non ha besuogno de chisto presiento, né de essere da nullo laudato, ca se sa muto buono laudare chiù isso co una sola parola, che no sarìano ciento poete con ciento milia livre.
Squarcialeone. Io non le voglio, signora, ch'è verissimo (per vita della guerra) ciò che dice il mio caporale, poiché di già a tutto il mondo è noto che io sono gran mastro di guerra. E tanto sarebbe il dirmi che io sia bravo, forte, orribile e arcivalentissimo valente, quanto a dire che vi sono innumerabili stelle nel cielo e che riluca il sole, e sia molt'aqua nel mare. E io son così capitalissimo nemico d'uomeni vanagloriosi e buggiardi, che non ve lo potesti imaginare.
Scaramuzza. E ' lo vero, perché isso vo' essere sulo a dicere buscìe, e per zò da tutte è chiamato cuorpo de verdate, perché se le tenne allo stomaco e mai dice lo vero.
Squarcialeone. E se tanti e tanti famosissimi poeti, con sonoro ed eroico stile, celebrano e cantano le mie generose azioni, la bravura, i risoluti assalti, le tremende scaramuzze, le distruzioni, le morti, le vittorie e i miei fatti egreggi...
Scaramuzza. E le foiute e le ritirate.
Squarcialeone. Non è colpa mia, signora, poiché di ragion non debbo impedire il velocissimo corso e furore di Apollo, poiché egli di sua propria mano e dottissimo ingegno ha composto e scritto per mia gloria un gran volume delle mie invitte prove, detto Il famoso Squarcialeone. Ma per non uscire dal nostro dritto sentiero, dicovi signora, di novo, che vi dobbiate disporre ad amarmi e non prendete iscusa di non conoscere amore, ché non amando di tanto merito dimostraste di essere la dea della discordia e della crudeltà.
Clarice. Se io vi fosse crudele, non vi dissuaderei a lasciar l'incominciata impresa, perché non desidero il vostro male, raccordandovi che mi dicesti che come farfalla cercate di distrugervi nel mio ardore e io per voi non ardo, anzi m'aggiaccio, e tanto più che chi segue amore non solamente si arde, ma si incenerisce e more; poiché egli è un ascoso fuoco, gradita piaga, saporito veleno, dolce amaritudine, dilettevole infermità, giocondo supplizio e una piacevol morte. E perciò fuggo di amarvi, né voglio che mi amiate.
Scaramuzza. Ed è amore ancora no macarone senza caso, caso senza cortiello e cortiello senza ponta.
Fioretta. Na minestra senza sale, fummo senza rosto, che ci sta nel cor nascosto.
Scaramuzza. E stamoce zitto nui, ca no sapimmo che nce dicere, né che nce pescare.
Fioretta. É vero, ma lo dico per tener allegra la padrona.
Clarice. E vi assicuro che niuna cosa fa scemar più l'amore, quanto il non esser riamato, e lo fa crescere la vera corrispondenza in esso; sì che, essendo chiaro e manifesto a voi che non vi amo, perché amarmi? Se io vi fuggo, perché seguirmi? Cercate, dunque, donna che vi ami e vi corrisponda; ché amando me amerete una statua di marmo, un cuor di ghiaccio e un petto di diamante. Vi lascio signore. Passa tu dentro, madonna civettina, e tu, bragone selvatico, và a far delle tombole in piazza, né più il passeggio intorno alla mia casa! E questo vi basti.
Fioretta. Entro, signora. O poverina me, come sta adirata! A rivedersi, Scaramuzza mio. Vi son serva, signor capitano.
Scaramuzza. Schiavo, core mio bello.
Squarcialeone. Mi raccommando, madonna Fioretta.
Scaramuzza. Che ve ne pare, signore mio, de sta femena senza n'onza de cerviello 'n capo? Ha lo bene e no lo sa canoscere. E quale gran cavaliero, quale bravo porà mai trovare, che l'amma e boglia bene chiù de vostra signorìa, e che la porrìa fare diventare regina de denare o de coppe; dico, cioè voglio dicere, farla ricca.
Crediteme che senza pilo ne lo manto ca deve fuorze avere quarcun autro nammorato; e per zò ve fa la schifosa, la vrocolosa, la contegnosa e la cianciosa. Ma no per chesto ve desperate, ca Scioretta ve aiuterà, e nce avviserà de ogni cosa. E tanto chiù che avite dato prenzipio a lo necozio, ché abasta dicere na parola alla orecchia della femmena, e po', lassa lavorare allo brutto papao, ca isso ne caccia lo fracito.
Squarcialeone. Io non credo che persona veruna la debba né possa pretendere, sapendo pur quanto da me sia amata costei, né mai altri, essendoli manifesto il mio volere, cercheranno di privarme di ciò che bramo. E giuro, Scaramuzza, per quel supremo onore che ho acquistato in tanti anni, così nella Fiandra, come in Ungheria, che con sguardi di basilisco, con il girar de gli occhi, inarcar di ciglia, con il fulminar del brando e con la mia forza orribile, io gli ridurrò in color di morte, li frangerò le osse, li cavarò le budella, li mangierò i cuori, e farò minutissima notomia delle persone loro. Orsù, andiamo a leggere gli avisi del Perù.
Scaramuzza. Iamo, che te rumpe pe miezo, ca m'aveva enfetato de chiachiare.
SCENA QUARTA
Alberto solo
Alberto. Me meraviglio. Certo che non so come possibil sia che in questa canuta età Amor si possa prender di me gioco, poiché essendo innamorato della bellissima Clarice, viver non posso un solo momento senza mirare se non lei, almeno questa sua casa, vero erario dove si rinchiude ogni mia gioia, ogni mio ricco tesoro. Io ero molto desideroso di vivere lungamente non pensando che mi si dovessero così scemar le forze; e che pensavo io, che avessero gli anni a ritornar a dietro a rinovellarmi qual unica fenice? Egli è pur vero ciò che il famoso poeta scrisse: «Stamane era fanciullo e or son vecchio», e giudiziosamente disse quel buon poeta: «Dalla culla alla tomba è un breve passo». E senza dubbio alcuno il mio passato tempo mi ha paruto un sogno, e ancora nella mia mente si rinchiudono quei dolci e dilettevoli pensieri giovanili, e farei più di un disordine se lecito mi fosse, e non mi interessasse la borsa; e quanti perigliosi varchi ho passato per giungere a questo segno, orsù pazienza. Non si deve contendere con la natura! Son vecchio, mi dispiace, ma non me ne pento, che non vorrei esser un'altra volta giovane, per non avere a varcare tanti impetuosi mari, e pazzo è quel viandante che, essendo gionto al desiato fine del suo lungo viaggio, voglia ritornare al principio di esso, per aversi ad affaticar di novo. E ciò dico, più per riprender me stesso, che per altro fine, non già per non essere al servigio e piacimento della mia bella Clarice, né meno per esser questo disdicevole all'esser mio, ché ancora caldo il sangue, e non tepido, per le mie vene bolle, e vorrei che se ella mai sposa mi divenesse, che le forze non mi abbandonassero per poter seco fare amorosa battaglia, benché non lascierei d'adoprar l'ingegno; e dirò che dove manca natura, arte procura. Ma ecco, appunto, che di colà ne viene il fratello, vorrei starmene in questa parte da lui discosto, per osservare e intendere ciò che egli fra di sé stesso ragionando viene.
SCENA QUINTA
Capitan Matamoros e Alberto
Matamoros. Por cierto mucho agradezco mi dichiosa fortuna y muy obligado quedo a la gran maestra natura, pues que me ha criado y formado por servir a quella, que mas que a mi alma quiero, fuerte, gallardo, terible y membrudo y mucho mas que orible, que cosa muy facil me sarìa por ella sufrir qualquier gran golpe de muy contraria fortuna. No espantandome, ni del mucho calor del berano, ni el mucho frio del invierno, ni los trabajos de guerra, pues que poco se me darìa lo estar toda la noche, por ella, desnudo a costado ensima de la dura y humida tierra, de baxo de l'abierto cielo, sin dexar las armas y tener en 'l esquirdo lado mi vitoriosa espada, con la muy reluciente daga en la derecha mano, con el fuerte hielmo en la diamantina cabeça. Y dormiendo despertado estar con este ojo derecho abierto y con el otro serado, dexando de dormir de mi soberbio palacio sobre los colchones y almuadas llenos de limaduras de yerro, limado da las armaduras de los gran capitanes, maestros de campos y generales generalisimos, mis defuntos enemigos. Y por esto, no tengo yo por dificultosa cosa de conquistar la soberana belleza de tan gratiosa dama.
Alberto. Il Cielo mantenghi la di vostra signorìa inespugnabile fortezza e singolarissima bravura, signor capitano mio signore.
Matamoros. O mi señor Alberto, bien venido sea vuestra merced y mantengale el Cielo siempre en mi buena gratia. Que hay de nuebo, señor?
Alberto. Nulla signore, se non che son più vostro che mio. Però la prego a darmi qualche buona nova di queste guerre d'Italia , si se faranno le paci o averemmo da star sempre in continua guerra.
Matamoros. Nunca jamas se haràn, se yo no me resuelvo un dia de irme a España a tratallas y a concluillas con la majestad del rey mi señor, y despues luego passarme por la buelta de Francia y desde alli con un salto en Alemana.
Alberto. E perché non lo fate, signore? Vi raccomando il mondo!
Questo è un umor malenconico , che si ha posto nel capo, bisogna assecondarlo per fargli piacere.
Matamoros. Yo señor no me voy a España por no perder mi gravedad, ni en Francia por no tener pesa d'umbre, ni en Alemana por no ceder al emperador.
Alberto. E perché caro mio signore? Ditemelo, di grazia, se la dimanda è lecita.
Matamoros. Porque el rey catolico no me quiere dar de la alteza, el de Francia no quiere estarme adelante con el sombrero en la mano, y la majestad cesarea no me quiere ceder el mayor lugar.
Alberto. Certo che cotesti gran potentati non hanno ragione, essendo ella tanto degna de tanti meriti, però quel di Spagna potrebbe farvi dar dell'altezza un giorno, ché molto lo meritate.
Matamoros. Sì por cierto, porque, a fe de cavallero, de mas alto linaje y nobleza nacidos fueron mis antepasados, que no fue el gran sultan Soliman Otoman, emperador de Bisanzia; mas del gran Tamurlan; mas del Africano; Maluque, Giraffa, Saltem, Alibaluque Marzoque.
Alberto. Può far il mondo, costui certo sarà di razza di giudei o de Turchi, perché questi ultimi nomi non gli ho mai uditi leggere in processo, però questo poco mi giova, né mi nuoce, a me solo basti che egli conceder mi voglia sorella, e cicali pur quanto gli piace. Signor capitano mio osservandissimo, io son qui per veder trattar seco cosa di non poca importanza.
Matamoros. Y yo tambièn, con vuestra merced, señor.
Alberto. E sovra di che, di grazia?
Matamoros. De fiestas y de alegrias.
Alberto. E io di nozze, se pur ella se ne compiacerà.
Matamoros. De bodas? Que sì, que quiera darme la señora Lucila en matrimonio.
Alberto. Che sì che vorrà darmi in moglie la signora Clarice. Dicami di grazia, signore, il suo desiderio.
Matamoros. Yo cedo a mi señor Alberto la preminenza como si el fuera mi padre.
Alberto. E io per la sua grandezza le supplico ad esser il primo.
Matamoros. Para servirle, me contento. Señor Alberto, el amor grande que a la señora Lucila tengo, hija de vuestra merced, me tiene sojulgado de baxo de su imperio, de manera tal, que deseo que vuestra merced se contente de darmela por esposa, haviendome contentado dejar de concluir matrimonio con la hija del persiano, del Trasilvano, y con la sobrina del gran Baldugian emperador dell'Eteopia, porque ella solo desco y ella quiero por mi señora, cuando però el mi señor Alberto quiera contentarse que un tan gran cavallero le sea yerno y marido de dama tan hermosa.
Alberto. E io, signore, ho lasciato occasione di amogliarmi con la figliuola del signor Pandolfo de gli Onorati da Siena, della sorella del signor Muzio Fiorillo Capuano, della figliuola del signor Fabio Gaudioso, della nipote di messer Cencio Cencino Cenceto de Cencenati Fiorentino, con desiderio di essere legitimo sposo della signora Clarice mia signora e sorella del valorosissimo signor capitano Matamoros mio singularissimo padrone.
(Pò far la fortuna, so bene che non vorrò ch'egli mi avanzi un punto a dir delle menzogne!)
Quando però e l'uno e l'altro si vorranno di ciò compiacere.
Matamoros. Señor, por mi parte recivo su buena voluntad y muy gran merced y dichiosa ventura.
Alberto. E io il tutto riceverò a grazia singolarissima, e circa della dotte fra noi, non vi sarà disparere alcuno, però con sua buona grazia ne vorrò dar prima contezza a lei, e contentandosene, verrò subito a darne parte a vostra signorìa.
Matamoros. Y yo de la misma manera haré con mi hermana, y se lo avisarè, ya que con tan justa medida y razonablemente me ha respondido, en la plaza le estaré a guardando. Beso las manos de vuestra merced, señor, a Dios.
Alberto. E io baccio quelle di vostra signorìa, che sono state mai sempre valorose, vittoriose, invincibili e supreme.
(Alberto solo)
Deve aver certo un gran buon tempo costui a credersi ch'io li creda le sue fraponerìe, però a simil persone per non recarseli odioso non bisogna contradirgli, anzi gonfiarli, acciò se ne vadano in popa, e tanto più lo devo fare per giungere al mio desiato intento. Veramente si conosce che egli sia matto in questo genio di stimarse tanto, però del rimanente ho inteso che è un zuccaro nel praticarlo, e dirò come disse colui:
Un parla troppo, un poco, un corre, un resta,
questi ride, quel piange, e in varie guise
tutti abbiam di pazzia colma la testa.
E già che ragionando, a poco a poco, mi sono approssimato alla mia casa, vo' farlo saper a Lucilla.
O là, o di casa, Lucilla ! Scaltrino, che dico io? Vecchia, mandatemi Lucilla qui fuora.
SCENA SESTA
Lucilla e Alberto
Lucilla. Fermati, ballia, ché mio padre mi chiama. Signor Padre, perché non entrate in casa, vi è forsi qualche novità circa l'infermità della signora zia?
Alberto. Dicono i medici che sia megliorata. Però, a dirti il vero, per cosa di non poco rilievo ti ho chiamata qui di fuora, poiché in fretta convien che io ti parli, avendo dopo subito a girmene verso l'osteria della Posta, perché vi è gionto il procaccio, che va in Napoli, per sapere alcuni avisi di Roma circa i miei corrispondenti.
Lucilla. E ben, signore, che cosa avete a dirmi? Abbiamo forse qualche buona nova? avetemi comperato alcuna bella cosa?
Alberto. Bonissima è la nova, perché ho trovato chi te la comprerà.
Lucilla. E come, dunque altri che vostra signorìa potrà in ciò sodisfarmi?
Alberto. Sì, e doppiamente, in somma io vorrò che tu ti contenti di passare alle seconde nozze, perché vorrò prender moglie ancor io, n'ho ritrovato un gran buon partito per te.
Lucilla. Marito più darmi?
Alberto. Marito di nuovo darti, perché ti meravigli?
Lucilla. Ah signor padre mio, e come non me n'ho da maravigliare, ché ancora non è finito l'anno che Lucidoro, mio primo marito, rese l'anima sua a chi dovea, e che ancora porto coperto il corpo di dolorosissimi panni, e il core di amarissima pena, e la rimembranza della sua infinita bontà spesso mi trafigge e tormenta l'alma! Non desidero altro sposo, poiché ho quello sempre scolpito nella mente e nell'anima mia. Vi prego dunque, o carissimo signor padre, con gli occhi di mestizia pieni, a non discompiacermi in questo, e vi supplico, se mi amate, che dobbiate lasciarmi nel mio mesto e doloroso stato, né men cercate di tôr voi altra consorte, ché io mi esibisco di aver buona cura così di voi signore, come di tutto il rimanente del nostro avere, e altro marito non vorrò mai che il mio carissimo genitore, né altri io voglio che abbi di me cura, solo che voi, signor padre mio carissimo.
Alberto. Io ti ho benissimo inteso, ed è vero che tu puoi tener buona custodia di me e di tutte le nostre robbe, ma il volermi far credere che io sarò il tuo marito e tu la mia consorte, per fino a un certo debito termine si potrebbe passare, ma non posso, e non è ragionevole, che io abbia da te ciò che potrei avere dalla moglie mia.
Lucilla. É bene il dovere di starvene voi nel vostro termine, e io nel mio, perché vi son figliola.
Alberto. Io non lo niego, ma lo dico acciò tu sappi la differenza che è tra la moglie e la figliola.
Lucilla. Troppo lo so, signor, così per mia buona fortuna non lo avessi mai saputo.
Alberto. Quando tu saprai che egli sia, a fé che te ne contenterai! Ma ben presto e per non tenerti a bada e piu sospesa, io te'l dirò.
Lucilla. Io non dimando chi egli sia, perché non ho curiosità di saperlo, non desiderando marito.
Alberto. Oh sei pur da poco! Ascoltami, questi, che io vorrò darti, è per nome chiamato il signor capitano Matamoros, capitano spagnuolo, quello, che vogliono le persone che per il gran valore del suo forte braccio disceso sia dalla prosapìa di Scanderbech.
Lucilla. E vostra signorìa, che è di maturo giudizio, si lascia dare ad intendere ciò che egli si sogna la notte? Io l'ho inteso celebrare per un parabolano costui, e non per altro.
Alberto. O che il vero sia, o pur che non sia, mi sarebbe di sommo contento che egli genero mi divenisse, per più degne cagioni.
Lucilla. Signor, di grazia, perdonatemi, ché io non voglio più altro marito, benché fosse monarca del mondo. Né di padrona, che io son di me stessa, vorrò divenir schiava di altrui, così goder voglio la mia cara libertà. Perdonatemi, signore, se in ciò vi contradisco.
Alberto. Orsù, Lucilla, già che il tuo volere sin ad ora è stato assai dal mio differente, e forse il tutto per voler del Cielo, e avendo ben udite le tue raggioni, son prontissimo a volerti in ciò compiacere. Dunque vivi lieta, poiché il mio volere dal tuo non è dissimile, ché io lo preggio più che il mio proprio contento, e perché molto te amo, non mi discostarò dalle tue voglie, e ora gli andarò a dare una sicura e certa esecutiva. Vuoi tu altro da me, cara Lucilla mia?
Lucilla. Io molto ringrazio la mia bona fortuna, che non mi ha dato severo, ma bene amorevole e giustissimo padre, e il volervene molto ringraziare è superfluo, ma il datore delle grazie sia quello che vi conceda felice e prospera salute e lunga vita. Con sua bona licenza, me ne ritornerò in casa, ché con questa allegrezza viverò contenta.
Alberto. Vattene pur felice, ché allora tutto giubilo e gioisco quando lieta e ridente ti veggo.
(Alberto solo)
Dunque sarà se non bene ch'io vadi a dare la risposta di questo al capitano, acciò che, non essendo sortito il matrimonio conforme il suo desiderio, non corra la voce per la città con qualche suo dispiacere. Cercarò con bella maniera, se potrò, di condurlo al mio volere, acciò mi dia la sorella.
SCENA SETTIMA
Fulgenzio solo
Fulgenzio. Oh quanto, e più d'ogn'altra vaga, vaga e bella la mia amata e cara Lucilla, non vi è donna mortal in terra che alla maestà del suo angelico aspetto adeguar si possa. Tutte le più belle fatezze, non solo delle più belle donne, ma ancora delle più famose statue e ben colorite figure, sono andato osservando, contemplando e giudicando; né mai una minima sol parte delle sue grazie in loro ritrovar ho potuto. E se prima di formar lei non avesse la gran madre natura creato l'oro, l'avorio, l'ebano, le stelle, le virmiglie rose, i coralli, le perle, l'alabastro, il latte, gli arabi odori, il netare, l'ambrosia e le nevi, senza dubbio alcuno da tutti giudicato stato sarebbe che dal chiaro splendore de' suoi biondi capelli l'oro avesse tolto il colore, l'avorio la candidezza della sua fronte, l'ebano il nero delle sue ciglia, le stelle la luce de' suoi begl'occhi, le vermiglie rose il colore delle sue colorite guancie, i coralli il rossore delle sue labra, le perle la bianchezza de' suoi denti, l'alabastro il candore della sua gola, le nevi la bianchezza del suo petto, il latte la purità delle sue mamelle, gli arabi odori la suavità del suo fiato, il nettare e l'ambrosia la dolcezza della sua soavissima lingua; e in fine quanto di bello fu ed è e sarà nel mondo, tutto è in lei. Dunque, dir ben posso io che fra tutti gli altri amanti non vi sia il più di me felice, poiché in tanta perfetta bellezza ho (mercé d'Amore) collocati gli amorosi miei pensieri, né bastevole io sono, né sarò mai a poter sublimar con il mio basso ingegno quello che è stato di già sublimato ad infinita perfezione. Meglio dunque sarà che, tacendo la lingua, lasci favellare al mio core. Ma che veggio, oh mia felice sorte? Ecco che dall'oriente della mia verde speranza è sorto quel luminoso sole che schiara l'oscurità che ingombrava la mia luce.
SCENA OTTAVA
Lucilla alla fenestra, e Fulgenzio
Lucilla. Se non mi sono ingannata mi ha parso di aver udita la voce di mio padre.Siete voi, signor padre?
Fulgenzio. Umilmente a lei m'inchino e baccio quella bellissima mano, c'ha del mio cuor le chiavi.
Lucilla. Non occorre che ella per me si prenda questo incomodo! Mio padre non è in casa, e perciò giudicavo di averlo udito costì, e se bramate di favellar seco lo ritroverete al seggio di Antigniano.
Fulgenzio. Ohimè, che in un punto mirando tanta bellezza, il cuor mi s'aghiaccia e arde.
Lucilla. Che domandate signor, ditemelo, che glielo dirò tosto al suo ritorno?
Fulgenzio. Io tremo e son fuora di me stesso, oh meraviglia estrema, oh gran miracolo d'Amore!
Lucilla. Che cosa insensata è questa! Deh, piacciavi di grazia di non porvi più intermissione di tempo a dir ciò che bramate.
Fulgenzio. Signora mia, signora mia, signora mia...
Lucilla. Signor mio, signor mio, signor mio. Che episodii sono questi? Se dimandate lui, non è in casa, ho detto. Dicami di grazia chi ella sia, che glielo farò sapere. Non mi tenete più a bada.
Fulgenzio. Ahi, che per maggior mia pena finge e dissimula di non conoscermi!
Sono un distrutto e quasi incenerito carbone, che appresso al chiaro lume della vostra bellezza suavemente mi ravvivo. Non credo, signora mia, che il vento aquilone con tanta possanza discacci e sgombri dal cielo le oscure e tenebrose nubbi, come voi discacciato avete con un sol girar di ciglio al vostro apparire l'oscurità dal perturbato mio core.
Lucilla. Queste vostre parole mi paiono offoscati sogni, overo intricate enigme, e io non sono Edipo per poterle interpretare.
Fulgenzio. Oh misero Fulgenzio, che per maggior mio danno finge di non intendermi!
Signora, Atlante è tenuto per gran sostenitore de' cieli, perché molta cognizione aveva delle celesti sfere, e perché la mia signora Lucilla è adotata non solamente delle terrene, ma ancora delle sovra umane virtudi, dunque, senza che io più altro li dichi, dovrebbe ella perciò molto ben comprendere la somma eccellenza dell'amor mio, che dipende da quel gran nume che de gli amanti il grande imperio tiene, che mi ha disposto ad amarvi e servirvi.
Lucilla. Io non bramo che altri mi serva, perché in casa non mi manca convenevoli servitù, e il voler vostra signorìa farmi credere di essere quella che io non sono, è un cercar di trattarmi da sciocca e da ignorante. Non sono di tanto suttil ingegno come voi siete, che discorrete e trattate così facondamente sopra dell'umane e celesti cose, che par sia poco tempo che mancate al cielo.
Fulgenzio. La buona e falsa moneta si conosce al suono. Della vostra voce, e soavissime parole, chiaramente dimostrate la vostra eccelsa bontà e perfezione, sì che, senza che io altro dichi, so che compreso avete l'animo mio.
Lucilla. Il giudicarmi ingiustamente per quella che io non sono, venite a partecipar del crudel padrigno che, per molto odio che alla figliastra porta, li par male ogni sua buona operazione.
Fulgenzio. E questo è il contrario, signora, perché vi amo e non vi odio.
Lucilla. E questo è peggio, perché siete come l'amoroso padre che, per l'infinito amore che porta alla sua cattiva e malvagia figliola, malagevolmente discerne i suoi mali andamenti. Io sono ignorante e voi volete farmi tener da savia.
Fulgenzio. Volendo mantenermi, signora, che il ver non dichi, venite a pregiudicar la mia verità e la vostra molta perfezione. E, per dichiararmevi meglio, ben che lo sapete e ignorate il saperlo, per darmi maggior pena dico che vi amo quanto amar si possa mai donna d'infiniti meriti, quale voi siete; e, per premio del mio fedel amore, altro da voi non bramo, solo che ricambiarmi dobbiate d'un puro e corrispondente amore.
Lucilla. La dimanda è illecita e importuna.
Fulgenzio. E perché signora mia?
Lucilla. Perché non son obligata ad amarvi.
Fulgenzio. Ben dovete rimunerar chi vi serve.
Lucilla. Sì, quando però sarà la servitù da me gradita.
Fulgenzio.Dunque che io non vi sono grato? o me odiate? Questo mi apporta crudelissimo sdegno nell'animo. E mi discacciate dalla vostra presenza? Ohimè, e perché, senza mia colpa, così ingrata e crudele me vi dimostrate?
Lucilla. Volete voi, dunque, da me per forza ciò che darvi non bramo, né si conviene?
Fulgenzio. In somma, non posso sopportare così dispietata ripulsa.
Lucilla. Come, non potete sopportarla, se vi si conviene di esser discacciato? non sapete che una indegna dimanda merita una degna ripulsa? con che ragione volete avere l'autorità di poter domandare e non volete darla a me di negare?
Fulgenzio. Al molto mio merito non si conviene tanta crudeltà.
Lucilla. Assai sono che si persuadono di meritar molto e non meritano nulla. E perciò chiaramente vi dico che non vi desidero, né voglio. E questo aviso so che sarà bastevole a farvi scemare l'ardore.
Fulgenzio. Orsù pazienza. Signora, io spero che la mia speranza, o tardi o per tempo, mi darà vittoria.
Lucilla. Ogni speranza è del tempo futuro e ogni futuro è dubbioso. Attendete a i vostri onorati studii, poiché in vano vi affaticate.
Fulgenzio. Se io non considerassi che altri amanti assai di me maggiori han posto con meno speranza della mia il piede nella amorosa panìa e crudi lacci, e al fine han pure ottenuto il desiato intento, ora mi darei in preda alla dispietata e cieca disperazione, sì che vorrò io, perché mi private di speranza, disperarmi? Dunque colmo d'infinita speranza vi amarò e seguirò sino all'ultima ora della mia vita. Abbiate pietà della mia pena, radolcite la mia amarezza, consolate questo core, concedetemi la vostra grazia con certa speranza di futuro bene.
Lucilla. E io vi odierò sino a la morte, senza aver mai scintilla di pietà, giungerò pena alla vostra pena, amarissimo assenzio e pestifero veleno alla vostra amaritudine, affligerò e sconsolerò sempre il vostro cuore, e da vita cercarò di ridurvi in morte, poiché tanto noioso mi siete. E vi lascio privo d'ogni speranza, sepolto nell'ardore, in preda della disperazione e morte, se pure è vero che mi amate.
Fulgenzio. (solo)
. Ahimè, misero me! E che dispietatissime parole ha, contro di me infelice, fulminate costei? e perché quasi novello Ulisse al canto delle Sirene, o qual aspide al dispiacevol incanto, non mi son chiuse l'orecchie, ché udito non avrei cotanta mia disaventura? Ecco, misero Fulgenzio, che pure stato escluso sei d'ogni tua speranza, d'ogni conforto. Potrò dunque, misero me, per tal cagione trarmi da gli occhi il pianto, dal core l'acerbissimo dolore e gli angosciosi sospiri, l'ardentissimo fuoco? No, che oltre ogni dovere, a mio malgrado di amar costei mi conviene. Il fuoco non si estingue, le lacrime non si asciugano, i pensieri multiplicano, i dolori non scemano, i sospiri abondano, e tutte queste cose unite sono viluppi d'amore, e i veri messaggieri e nunzii della mia morte. Che debbo dunque fare? debbo morir di doglia per cotanta rigidezza di costei? Oh Amore, tu che feristi questo mio tormentato seno, abbi di me pieta! Non consentire che questa ingratissima donna sia la verace cagione della mia disperata morte, aiutami tu, protegimi tu, consolami tu, che sai quanto fedele ti sono e costantissimo in amar lei!
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Volpone solo
Volpone. Corteggiana innamorata e ruffiano liberale, vanno presto all'ospedale! Ma a me l'ospedale mi sarebbe zuccaro e la berlina una manna e la galera un volermi con la dieta e con l'esercizio tenermi sano; ma la forca è quella che spesso mi minaccia, mi chiama alla morte e me fa star con grandissimo spavento. Però è vero, non vi è rimedio, io me lo sento e me lo conosco, che spuzzo da appicato più che spalla di porco vecchio attaccata al fumo! E certo, se non fosse così pericolosa l'arte ruffianatoria, sarebbe la meglio del mondo, perché il scaltro ed eccellente ruffiano, come sono io, è sempre chiamato, invitato, amato, e stimato da cortesi innamorati e e da bellissime donne. E che ciò sia vero, molte volte che io vado nell'altrui case con iscusa di cercare delle ova fresche e di comperare galline, di vendere alcuna cosa appartenente all'uso feminile o di andare a domandare uno per un altro, come far sogliono i ladri, mi caccio dentro alla libera e ritrovato il comodo opportuno e il tempo di potere negoziare, con bel modo tratto con ogni spezie di persone e fo il fatto mio e quello di chi mi manda a fare il suo. E così onoratamente mi procaccio il vitto, perché chi mi dona un ducato, chi un paio di colzette, chi di scarpe, chi una camicia vecchia, chi nova, chi del cascio, chi vino, chi sopressate di Nola e copeta, chi provature di qui, chi delle legnate su le spalle, chi calci, chi schiaffi, conforme lor porge l'occasione dell'allegra o melanconica risposta e ambasciata. E il tutto cerco di fare per poter vivere da gentil uomo e non lavorare. E, conforme l'occasione, ne vo tutto gioioso e festevole con un mio amico, nominato Pulicinella, all'osteria e colà, per me e per lui, spendo e spando quel che ho e quel che non ho, perché tutti gli osti e bettolieri e magazenieri mi fanno quanta credenza io voglio. Pullicinella mi fa ridere e io a lui e così stiamo allegramente fra di noi, lui detto il cavalier straccione e io il gran barone di campo di fiore.
SCENA SECONDA
Fulgenzio e Volpone
Fulgenzio. Se questa bella e chiara luce della mia cara e amata Lucilla non schiara le oscure tenebre del mio cuore, in breve sarà l'ultimo giorno della mia vita.
Volpone. Servitor, signor Fulgenzio.
Fulgenzio. Il Cielo ti sia sempre propizio, caro Volpone.
Volpone. E a vostra signorìa mantenghi sano e con insolito appetito. Se non mi inganno, parmi di vedervi oltra modo turbato, avete forse giocato e perso? avete perduto l'appetito? o non vi piace il vino?
Fulgenzio. Non la posso vincere, né con amore né con la fortuna, e son rimasto d'ogni gusto privo, odio me stesso e amo chi desidera la mia morte, e per compiacerli, tosto vorrò finir i giorni miei.
Volpone. Ohimè, signor Fulgenzio, e ché ciò dite? Perché volete cadere in così pazzo errore?
Fulgenzio. Per l'ingratissima Lucilla, della quale io già ti favellai, che in modo alcuno non vuol esser mia.
Volpone. E perché non fate una degna risoluzione di chiederla in moglie al padre?
Fulgenzio. Io glie lo fe' dire, e lui mi fece rispondere di non volerla maritare per ora e che lei non si sarebbe contentata, e poco fa, con mio molto grave dolore, ne ho ritrovato il vero. Ma prima di consentir che altri che me abbia a correr seco sì felice sorte, ti giuro che ne vorrò morir o privar di vita lui.
Volpone. E come non conoscete il grave errore, che contro di voi stesso commetter volete? e che espressa pazzia è questa, voler morire per donna crudele e che vi odia? Deh, signor Fulgenzio, non vi lasciate così dominare dall'ira e dal furore! E come, in tal modo, inconsideratamente ponete in oblivione voi stesso? Datevi in braccio alla ragione, perchè, ciò far volete?
Fulgenzio. Perché quando sarò morto più non la bramerò e uscirò dalle crude tirannide di costei, né sarò stimolato dal dolore, dalla passione, dall'amore, che io sento, e dall'odio e dalla crudeltà sua.
Volpone. Signore, io non mi conosco abile di potervi persuadere a cangiar voglia, ma ben vi dico che così disperato e privo di conforto, mi par cosa indegna volervi precipitosamente privar di vita: ma ben vi dico che dobbiate aver speranza in me, perché pensarò forsi cosa che vi potrebbe cavar fuora d'ogni affanno.
Fulgenzio. Che vuoi tu che io speri, se l'àncora della mia speranza se n'è già sommersa dentro al mar delle miserie, e questo mio fragil legno in periglioso pelago si trova, combattuto dal dispietato rurore dell'instabile fortuna?
Volpone. L'àncora non è sommersa, né profondata; la speranza non sarà fallace, il vostro legno senza intoppo di avversa fortuna giungerà forsi al desiato intento. Che altro bramate da me?
Fulgenzio. Volpone mio, con queste tue amorevoli e ben considerate parole, vai quasi riducendo in gaudio il mio tormento, in gioia la mia pena e in viva speranza la mia mortal disperazione. Però dicami, di grazia, in che modo potrai giovarmi?
Volpone. Con l'acutezza del mio ingegno e con l'aiuto di Pulicinella, vostro servitor novello, per non esser conosciuto, farò il tutto. Non sapete voi che la signora Lucilla tiene una sua zia al giardino indisposta?
Fulgenzio. É vero, perché?
Volpone. Ve'l dirò doppo. Prestatemi il servo e andate ad aspettarmi in piazza. E achetatevi la mente, non vi disperate, perché io vi prometto senza dubbio alcuno sicurissimo aiuto.
Fulgenzio. Orsù, andarò riposandomi sopra di te. Chiama Pullicinella, già che lo vuoi, ché egli è in casa.
Volpone. Io, signor Fulgenzio, fora d'ogni interesse vi amo e vi voglio servire, essendovi molto obligato.
Fulgenzio. So ben io ciò che deggio fare per giovarti. To' per ora queste due doble di Spagna.
Volpone. Oh vi ringrazio, signore. Non occoreva incomodarvene. A dispetto del padre, che ve l'ha negata, e ad onta di lei, farò che ella vi venghi sino a casa a ritrovarvi come moglie, e se per tal la desiderate.
Fulgenzio. Sì fratello, che per altro non la bramo, mi ti raccomando, vado ad aspettarti.
Volpone. Andate, che io chiamerò il servo. State pur allegramente signore.
(Volpone solo)
Due doble! Osteria aspettami! E chi non facesse sempre il ruffiano? Vorrò sempre farlo e inviluppare e scroccare quanto potrò. Oh doble mie care. Non so come gli altri abbiano tanti dinari, tanti argenti e tanti ori, credo che gli rubbano e veramente hanno ragione, poiché le robbe e i tesori di questo mondo sono stati tante volte rubbati e ritornati ad arrubbare, che non si può più giudicare chi sia stato il primo e vero padrone. Vorrò cominciare a servir il cortese Fulgenzio, perché lo merita. Chiamarò fuora quel buffalaccio di Pullicinella, che siamo ancora oltre di qui amicissimi vecchi e compagni nello studio dell'osteria del Ceriglio di Napoli.
O là, o di casa.
SCENA TERZA
Pollicinella e Volpone
Pollicinella. Chi è, chi chiama, chi sfonola, chi tozzola la porta della casa nostra?
Volpone. Questa è la sua voce. Amici, amici, Pollicinella. Odimi una parola.
Pollicinella. Amici siammo, e le vorze comatanno, a che serve a dicere amice amice, penza ca saranno amice amice, ca io non aggio nemice. Chi è, è, è?
Volpone. Sono un tuo particolar amico, vien fora perché ti ho da parlare.
Pollicinella. Io sto comodo cà e non me voggio scometare. Parla dalloco, che te responnarraggio.
Volpone. E vien fuora, di grazia, ché ho molto a far di te.
Pollicinella. E io non aggio a fare de te, non ce simmo nesciuno, ca simmo asciute tutte fora della casa a cossì m'è chiù comoto. Crepa e schiata, che buoi da me, che se ben ce so', non ce voglio essere?
Volpone. Pollicinella, bona sera, fratello.
Pollicinella. O Vorpone, bona sera e bon anno! Tu non stai en cerviello ! Se io t'aggio ditto ca non ce songo a la casa e che si ben ce songo non ce voglio essere, chi te ha dato lecienzia che me chiamme pe nomme di figlio de potana?
Volpone. Perché son tuo amico e molto di te mi fido.
Pollicinella. Non troppo te ne fidare, ca so' diventato maleziuso e concubinario.
Volpone. E così voglio che tu sia, perché per ordine del signor Fulgenzioabbiamo a far una grand'imbroglia e un grande intrico.
Pollicinella. A fé? A donca deventaraggio nmbroglione? O bene mio ca saraggio mrogliatore e borraggio nmrogliare tutte li tavernare de Capua, de Napole e da Verza!
Volpone. Caro il mio fratello, ascolta.
Pollicinella. Tu me chiamme fratiello e me viene a pregiudicare, chiamannome figlio de potana e de cornuto.
Volpone. O questo no, perché?
Pollicinella. Perché né mama né patremo no hanno fatto mai autro figliulo de me, sì che besognerìa che io o tu fossemo mulle cancirre, o vastarde, toscanescamente parlanno.
Volpone. Questo è un modo di parlar amorevolmente fra gli amici, ma non mi sei fratello.
Pollicinella. E chesto è peo, perché viene a dicere la buscìa, no lo bide? no lo dicere chiù vi' sa? ca po' te piglia Parasacco e te porta a lo nfierno.
Volpone. Se io non fo peggio di questo, non ho paura! Sta' pure allegramente, guarda qui, sempre averò per farmi piacere dieci scudi al mio comando.
Pollicinella. Per farete piacere a te e no a me?
Volpone. E a te ancora.
Pollicinella. O bene mio! O commo so' belle russe! Di' lo vero, so' li tuoi 'si denare?
Volpone. E di chi vuoi tu che siano? E sono al tuo comando. Andaremo, doppo fatto il servizio del tuo padrone, all'osteria a dar tributo alle budella.
Pollicinella. O felice tene, che hai sempre denare, e sfelice mene, ca non aggio mai niente, e felice 'si denare che stanno 'n potere dello chiù liberale ed eccellente ruffiano de sta cettate.
Volpone. Circa del ruffiano, parla piano, Pollicinella mio caro.
Pollicinella. E puro quinnece co lo gallo! Ca so' lo mio e no lo tuio, ca si ca me saraggio perduto e si voraggio niente da me, besognerà che me te adomanna a te 'n priesteto.
Volpone. O puttana di me, che sì che non si potrà più parlar teco, che ogni cosa pigli in duello.
Pollicinella. Che puttana de te, dico puttana de me, ca la voglio pe me! Dov'è 'sa puttana?
Volpone. É su le forche! dove vòi tu che sia?
Pollicinella. Va te la piglia tu, ca no la voglio io. Ora sù, dimme lo vero, vai a caccia lo iuorno a borze e la notte a feraiuole. Nparame comme fai, damene menzione, ca me voglio fare valent'ommo io perzine.
Volpone. Vedi Pollicinella, tu in tutti i modi mi pregiudichi, ma io ti perdono. Questi dinari me li ha dati il signor Fulgenzioe te ne farò parte, pure che tu ti porti bene ad aiutarmi; e da sua parte te lo comando.
Pollicinella. Vorpone caro, io voglio servire lo patrone e obedire a te, ca te so' schiavo e obrecato de tanta denare, che spenive pe me a Napole, e hai spenuto cà ancora. Ma famme no piacere, doname na dobra de chesse, quanto me n'acatto no paro de scarpe vecchie e na menestra grassa a boglia mia. Bene mio, fame 'so piacere, ca te voglio tanto bene.
Volpone. Pollicinella, ti parlo da amico, sarai da me riconosciuto un'altra volta, perché non sta bene a discompagniare queste doble essendono pari.
Pollicinella. E tu me le da' tutte doie e scumpimo lo chiaito, non m'entienne?
Volpone. Oh par che si convenghi che io me ne rimanghi privo! tami Aiutami e doppo parleremo di questo.
Pollicinella. Mese' Vorpone, tu fai iusto commo fa la vorpa, perché si' de chella razza.
Volpone. Che fa la volpe?
Pollicinella. Che fa? Ha la coda longa, che se contenta chiù priesto strascinareia appriesso pe terra, che darene no poco alla poverella scigna, a tale che non mostra le vergogne soie e se ne copra lo tafanario.
Volpone. E tu appunto fai commo fa la scimbia, che non essendo buona come l'asino per portar delle legna, come al cavallo a tirar la carozza e portar l'uomo, come il bue a tirare il carro ed arare la terra, fa la buffona, facendosi dare delle busse per far ridere e procacciarsi da mangiare.
Pollicinella. Ora cà, sì, ca nce iarìa no bello miente pe la gola e na bella cornuriata! O tu me pregiudeche troppo, ma te la perdono pe sta vota, ora sù, non lo dicere chiù. Dimme, ch'aggio da fare per servire lo patrone mio?
Volpone. Pollicinella io burlo teco, e dico che no fai bene a dir male delle persone, e per giungere dove si desidera bisogna aver spesso Lodi e Piacenza in bocca.
Pollicinella. Sì, me piace chello caso lodesciano e piacentino, dov'è?
Volpone. Voglio dire che bisogna lodare e piacere alle persone per farsi amare come fo io.
Pollicinella. Amare? E che so', femena de lo brutto peccato, che me voglio fare ammare da la gente? Io so' buono figliulo e no me nce suoglie a fare chello che hai ditto.
Volpone. Orsù, a noi, non saltiamo più da palo in frasca. Conchiudo che servito che averemo il tuo padrone, di donarti una dobla.
Pollicinella. Te ne ringrazio, ma dimme, lo servizio è onorato?
Volpone. Onoratissimo. Vattene dunque in piazza, colà dove si vendono i limoni, ché vi ritroverai il tuo padrone che ti attende; che doppo all'uno e all'altro informarò del tutto. Va' tosto.
Pollicinella. Vao vao! Dice, che tuesto; e che, me voll formare? e che, so' fatto stivale? o che bello varvaianne e che bozzachio !
Volpone. ( solo)
. Ho tanti negozii amorosi per la testa, che non so risolvermi a qual debba prima attendere; ché non solo questo del signor Fulgenziomi travaglia, ma ancora l'amore che a Clarice porta il signor Alberto, che alli giorni passati gli ne diedi bona speranza, non so se ora sia più di quell'umore. Però, ancor io, sono un poco gallesco, e più d'una cosa farei se avessi la possibilità e la nobiltà. La nobiltà fu da me sbandita per disutile e da i miei progenitori, perché chi è stato facchino, chi spaccia camino, chi spacca legna, chi sbirro e chi giustiziatore umano. Solo io ho dato un poco di luce alla mia casa, con ingegnarmi a far lo ambasciator d'Amore, e per farla più luminosa ne ho smantellato i tetti, per andarli a vendere, quando non ero ancora onorato di sì degno offìcio. E non senza cagione ho detto che vorrei essere in maggior stato, perché amo ancor io la signora Clarice, e, per esser quello che io sono, non oso palesarmeli amante, temendo che non me dia una infinità di bricconate per il capo, di mascalzone, di guidone e di ruffiano.
SCENA QUARTA
Clarice dalla finestra e Volpone
Clarice. Lo starsene sempre solitaria e confinata in casa, gran pena apporta a noi misere fanciulle, che non ci è conceduto il venir spesso su le finestre, per non arrecar scandalo e mal esempio all'altre di noi. Ma con tutto ciò, per isfogar l'ardore che con tanta potenza mi distrugge per l'amato mio Fulgenzio, rompendo ogni legge impostami dal mio fratello, vi sono venuta.
Volpone. A fé, che questa è la signora Clarice. O felice Volpone, ecco che dolcemente te viene a caderti la fritella sul mèle e il cascio su i macaroni, e poiché per questa contrada non vi scorgo altra persona che lei, sarà se non bene che io dia principio a ciò che bramo. Ma prima voglio con questo fazzuolo fregarmi le scarpe. Orsù stan bene, farò così del volto. O corpo di me, mi son tutto sporcato il viso, porco che sono a non avermi posto il colar bianco questa mane!
Clarice. Chi è quel ucellaccio domestico che con tanta leggiadria si pavoneggia e si fa bello?
Volpone. Servitore di vostra signorìa, Clarice mia padrona.
Clarice. Appunto desideravo di favellar teco. Ben venghi il mio caro Volpone, so che molto ti preggi in lasciarti vedere da me.
Volpone. Signora, so che ben sapete che tutte le cose belle e graziose non possono esser così facilmente vedute da tutti.
Clarice. Oh mi fa da ridere, che sì che si darà a credere di esser bello, voglio gonfiar il suo bestial umore!
Anzi, che quanto più bello sei tanto più ti dovreste degnare di lasciarti vedere tra noi altre brutte donne, per poter a noi partecipare della tua bella grazia e rallegrarci il cuore, poiché così sopra modo grazioso ti veggio.
Volpone. Io l'ho detto in burla ed ella parla da dovero. Che sì che si sarà invaghita di me? Vorrò starmene su la mia, per darli maggior martello. Può far il mondo, se io lo sapevo mi averci lavato il viso con l'acqua calda, poiché ha più di dodeci carnevali che non me lo ho bagnato.
Signora, quando io fossi sicuro che da lei fossi tenuto uomo di qualche degno merito, li farei sapere chiaramente l'animo mio.
Che sarà mai, quando anco vi spendessi con costei queste doble.
Clarice. E chi sarebbe mai così sciocca e priva di giudizio che dir volesse che tu molto non meriti? Anzi, ché tutta sopra del mio caro Volpone sta fondata la mia speranza.
Volpone. Mi amate, forse?
Clarice. E come, se ti amo? E per degna ricompensa vorei...
Volpone. Che vorreste, signora? Vi è il signor capitano in casa?
Clarice. É fuora e perciò ardisco di così liberamente parlar te. Vorrei che mi deste aiuto, e con molta diligenza e prestezza, se non chi io moro.
Volpone. La cosa è fatta, sono a cavallo!
In che cosa potrò giovarvi signora? Ditelo, di grazia. Toglietemi di dubbio, perchè, mi sento tutto comovere e distruggere.
Ohimè non ardisco di dirgli ch'io l'amo; vorrò che ella sia la prima a dirlo, per potermene doppo gloriare e darmene vanto.
Clarice. In far saper al signor Fulgenzioche io l'amo e lo desidero per mio sposo.
Volpone. Al signor Fulgenzio, volete che io dichi questo? e non a me?
Clarice. A lui sì, Volpone mio, poi che io t'ho veduto, da dentro la mia fenestra, quando che tu familiarmente seco ragionavi.
Volpone. E io, viso di porco, mi credevo che fosse stata invaghita di me e delle mie rare bellezze, per disfogar meco le amorose voglie! Orsù, in somma, la natura mi ha creato più ruffiano che bertone, non voglio dirli altro di me, per non arrecar pregiudizio a un certo mio novo disegno; e sarà ben dirgli che Fulgenziol'ama.
Signora Clarice, se bene a lei fosse forse paruto che io parlato li avessi come per me, parlavo per il signor Fulgenzio, che più che sé stesso vi ama, e quando vedeste che meco ragionava, mi diceva che io dir vi dovessi la sua pena, e perciò mi andavo avicinando qui a casa vostra, per parlarvi di lui, che vi desidera per sua consorte. Sì che, essendo questo amore fra di voi di tanta corrispondenza, io sarei di parere, e molto lodarei, che questa notte doveste lasciar la porta di casa vostra socchiusa e quella della camera dove dormite aperta, ché, al tocco delle cinque ore di notte, quando che vostro fratello sarà vinto dal sonno, ve lo condurrò in camera, dove potrete affermare e conchiudere a vostro comodo, senza lume, il matrimonio.
Clarice. Dunque che io non ne debbo crederne il contrario di quanto mi hai detto, Volpone mio?
Volpone. Signora no, ché so che non mi avete ritrovato mai bugiardo.
Clarice. E mi ama di perfetto amore Fulgenzio?
Volpone. Se vi ama lo so io; non vi fate altro dubbio, ma con questo appuntamento non si resti di esequir l'ordine.
Clarice. O che felice novella, o che inaspettato contento! Ah, Volpone mio, che per troppa letizia non capisco in me stessa! Farò quanto che mi hai imposto, lo aspettarò. Raccomandami a lui e digli quanto l'amo. E a te per ora non dirò altro, solo che in tuo potere sta la mia vita e la mia morte, e saprò ben io quanto devrò complir teco, e per ora ti dono questo piciolo diamante, goditelo per amor mio e ricordati di me. E per non dar sospetto a mio fratello, se qui sopragiungesse, con ragionar teco, me ne entro, a dio.
Volpone. , Son vostro, mi raccomando signora.
A fé, che glie la potrò caricare, glie la caricarò! E io asinaccio, mi tenevo per sicuro che ella si fosse invaghita di me! Orsù, ho guadagnato questo anello e saprò come governarmi.
SCENA QUINTA
Alberto e Volpone
Alberto. In avere escluso quel capitano spagnolo del matrimonio con mia figlia, mi ha negato di darmi la sorella e mi ha cominciato con sossegate parole a darmi del grosso. A fé, che quella lingua, che ha di me mal favellato, glie la farò morder, se ne è rimasto colà lacerandomi con alcuni gentil uomeni!
Volpone. Baccio la mano signor Alberto. Che dite di mala lingua, signore?
Alberto. O se' tu qui, Volpone?
Volpone. Al comando vostro, signore.
Alberto. Discorrevo tra me medesmo della mala creanza del Matamoros, che ha meco usata, perché gli ho detto che Lucilla non lo vole per marito in conto alcuno.
Volpone. Certo che è diabolico e insolente quel spagnuolo. Dicesi che più delle volte offende più una cattiva lingua che una buona spada.
Alberto. É più che vero. Poiché un certo re d'Egitto, di cui non mi sovviene il nome, mandò a Solone filosofo un agnello che sacrificar lo dovesse a gli dèi, e che in sacrifizio dato gli avesse la miglior parte, e la peggiore avesse rimandata a lui, e quello li mandò la lingua, e il rimanente sacrificò a chi dovea; volendo significar che quella era la peggior parte del corpo, poiché si suol dire che sia il timone della umana vita, come il timone alla nave, ché ben che sia il picciol legno, a lui sta a condurre in precipizio o in sicuro porto il vascello.
Volpone. Vostra signorìa, Alberto, non dovrebbe dare a mente alle sue parole, poiché corre la voce per la città che come corbo non sa far altro che gracchiare.
Alberto. Lo so, e perciò temo più della sua cattiva lingua, che delle armi. Chi sa ciò che egli avrà detto e dirà per l'avvenire in pregiudizio di casa mia!
Volpone. Lasciatelo tanto dire, che possi scopiare; perché chi lo udirà straparlare, considererà che l'amoroso fuoco lo tormenti, e si riderà di lui, poiché non vi è più potente fuoco quanto quello di amore, perché arde così da lungi come d'appresso.
Alberto. Vòi dire, per questo, che gli ama Lucilla; e chi non saprà tanto oltre? In somma, è tenuto per una pestifera lingua.
Volpone. E questo molto vi giova.
Alberto. E perché?
Volpone. Perché non si crede al bugiardo, benché giuri; ben si crede al verace, ancorché mente.
Alberto. Non tutti lo stimano bugiardo e di mordace lingua.
Volpone. Dunque, se costui morisse, che epitaffio se gli potrebbe scrivere su la sua sepoltura? Ditelo, di grazia.
Alberto. Férmati, ché mi hai colto all'improviso. Lasciami un poco pensarvi sopra.
Volpone. Pensateci bene. Aveteci pensato?
Alberto. Férmati, odi se ti piace, rimettendomi però a più saggio pensiero.
Volpone. Ditelo, signore.
Alberto. Tacci, no'l me'l far dimenticare. Odi.
Il mordace spagnuol, che facea guerra
non già con le armi mai, ma col dir male,
ancor che morto sia, morde la terra.
Volpone. Certo che è molto a proposito per lui, perché non sa far altro che cicalare contro di questo e di quello. Ma che vi credete voi, signore, che io farò scriver su la mia sepoltura?
Alberto. Di', ché ti ascolto, che farai?
Volpone. Il buon maestro di gran petti e rutti,
per troppo crapular qui morto giace.
Vi prego di pisciargli addosso tutti.
Alberto. Hai altro tu che dirmi di bello? E va' via e non mi dar più noia, ché ho altro nel capo che le tue dapocaggine.
Volpone. Vostra signorìa non mi trattò che desiderava la sorella di questo capitano?
Alberto. Messersì; però me deliberai, vedendoti così freddo al servirmi, di trattarne con lui e non abbiamo potuto conchiudere cosa alcuna, come ti ho detto.
Volpone. Vi contentate che io studia un poco nel libro delle mie forfantarìe sopra di questo negozio, per farvela avere a suo marcio dispetto?
Alberto. Studia pur quanto che vuoi, ché io dispero il caso.
Volpone.Se non mi bastasse l'animo, non lo direi, e lo dico perché la signora Clarice mi ha detto di amarvi.
Alberto. Di' tu da dovero, che mi ama lei? Come lo sai, dimelo, di grazia?
Volpone. Non direi una cosa per un'altra, né voglio cosa alcuna da vostra signorìa, se prima non parlarò seco e ve ne darò risposta, e vi aiuterò.
Alberto. E in che modo, dimelo, non mi tener sospeso.
Volpone. Ve'l dirò poi.
Alberto. Non voglio sapere altro. To' questi quattro ducati per ora. Fa' il negozio pulito, di grazia, perché la desidero più per dispetto del fratello, che per altro.
Volpone. Vi ringrazio, lasciate pur fare a me.
SCENA SESTA
Matamoros, Alberto e Volpone
Matamoros. Por vida del rey mi señor, que Alberto no serà siguro en cima de los altos montes Perineos de mis poderosas manos; ni sobre la cabeza de Marte, ni tan poco en los brazos de Plutòn! O là, mal nazido, viejo raposo, aquì estàs? Sabes que has de morir de mi profunda estocada, antes que el sol, rodeando con su carro de oro, se vaia al frio settentrion.
Volpone. Fermatevi signore, raccordatevi che questi è vecchio, ed ella è giovine e valorosissimo capitano e cavalliero. Portate rispetto, se non alla vecchiaia, alla vostra grandezza.
Alberto. State da me alla larga.
Matamoros. Quieres tu tomartela por el? Echa mano a tu espada, vellaco, que te quiero dar a comer a dos grues!
Alberto. O di casa, portatimi giù la mia spada! Non odi Lucilla? Scaltrino, fuora.
Volpone. Cacciarò mano ai piedi, fermatevi, state indietro.
Alberto. Signore, infoderate la vostra spada, ricordatevi che io son quello dalla ragione. Lucilla non si vol maritare, né vi vole, che colpa è la mia?
Matamoros.Yo no le doy tanto la culpa de esto, quanto que con tan mal termine vino a escluirme, delante de aquellos cavalleros, que la señora Lucila no podìa padezer de verme. Y que soy algun picaròn o algun vellaco? Y como esto, a un cavallero nazido de tan soberano linaje, pues que milliones de verdaderas historias de mi celebran tantos heroicos echos, que allandome eri Flandes, eri el medio de los enemigos exercitos, cerquado de arquebusarias, rodeado de cavalleros a cavallo, a remetido da esquadrones y de emboscadas; sacudido de piezzas de artellarias y bombardas, fulminado de colombrinas y de agudas puntas de espadas, estoques, piquas y alabardas de vallentes soldados, cavos de esquadras, sarjentos, alferez, capitanes, sarjentos majores y generales y generalissimos, y por esto luego huiendo de mi el ocioso espanto y enbrabaciendos en mi la bravezza y estremada fuerza, el animo y valor, con atrebido corazon, ferozidad de leon, crueldad de tigre, furor de cocodrillo, fuerza de brazos, animosidad de corazon, con estocadas, pugnaladas, jacozes, mozicones y con dientes, los gané, los maté y los yze en pedazos, los aniquilé y los profundé de baxo del infernal fuego.
Volpone. E chi si può salvar si salva.
SCENA SETTIMA
Scaltrino, con sudetti
Scaltrino. Chi è là, che romore è questo? Signore, mi avete chiamato? Perdonatemi, ché dormivo. Ecco la vostra sferra vecchia, avetela con alcuno? Ditelo a me, che ne farò salciccie.
Alberto. Damela qui. Signor capitano, per farvi piacere crederò più di quello che cicalato mi avete.
Volpone. , E io ancora, benché non vi abbia inteso.
Scaltrino. E io più di loro, se ben non so di che ciarlate.
Volpone. Né io ne ho inteso niberta di quanto ha spudato il saraco.
Matamoros.A vellaco, a mi quieres dar la cobierta, y que soy tu truhan?
Volpone. Fermatevi, ché intendete alla roversa, ché ho detto niberta, che vol dir nulla.
SCENA OTTAVA
Fulgenzio, con sudetti, e Squarcia, e Scaramuzza
Fulgenzio. Fermatevi, signor capitano, che vergogna è questa?
Squarcialeone. State alla larga, cospetonaccio di Martone. Animo, signor capitano Mattamoros.
Scaramuzza. Te' messer Arberto, pigliate sta chiatonata!
SCENA NONA
Lucilla, con sudetti
Lucilla. Signor padre, ho qui la spada per voi. Alla larga, poltroni!
Fulgenzio.Avete a far meco, ci ammazzeremo, capitan Matamoros!
SCENA DECIMA
Pollicinella con sudetti
Pollicinella. A spagniuolo vaiasso, pigliate sta vessicata 'n capo!
Volpone. Bravo Pollicinella! Entrate in casa, signora, poiché tutti se ne sono fuggiti dall'empito e dal furore della vessicata di Pollicinella.
Lucilla. Ahimè, dove è mio padre? Non so se sarà rimasto ferito.
Volpone. Non credo signora, ché se ne è andato per altra via.
Lucilla. Anderò in casa.
SCENA UNDECIMA
Fulgenzioe Volpone
Fulgenzio. Dove se n'andò il signor Alberto? É stato alcuno ferito, che tu sappi?
Volpone. Signor no, Alberto se n'andò per questa strada.
Fulgenzio. Almeno per tal onorata azione, che ho fatta in difendere il padre della signora Lucilla, non dovrebbe amarmi? Rispondimi, Volpone.
Volpone. É vero, ma non tutti riconoscono il beneficio. Però, per giongere vostra signorìa dove desidera e io bramo, per attendervi ciò che vi ho promesso, vi bisogna del tempo e della fatica.
Fulgenzio. La gloria non si acquista, se non con essa, madre della virtù. Affatìcati in mio beneficio, ché da me ne sarai molto ben ricompensato.
Volpone. Ve ringrazio, non ne fo dubbio alcuno e perciò porrò sempre questa mia vita in qual si voglia pericolo e fatica per servirvi.
Fulgenzio. Se ti affaticarai per me, farò che alfine ne abbi lieto riposo, poiché la fatica è madre di esso, e spesso si affatica per non più affaticarsi. Il fondamento della virtù di Ercole fu la fatica; le molte fatiche fecero famosi i Scipioni, i Fabii, i Camilli, capitani de' Romani, e la fatica diede gloriosa fama a Pompeo e Alessandro il Magno. E qui è maggior gloria, ove è maggior fatica.
Volpone. Signore, io non vorrei che mi affaticasse tanto la mente a narrarme cotante faticose fatiche, acciò io per molta stanchezza non mi potessi più affaticar per voi. Ritiratevi, dunque, in vostra casa, già che vi ho conferito in piazza, così a vostra signorìa come a Pollicinella, l'astutissimo inganno che venendo egli con i limoni potrò oprar il tutto, acciò questa notte possiate godervi della vostra amata Lucilla. Andate pur in casa vostra.
Fulgenzio. Andarò, poiché il servo non potrà molto indugiare a venire.
Volpone. Andate signor.
(Volpone solo)
Può far me, ho tanti fastidii, che non ho potuto andare a visitare un poco l'osteria!
SCENA DUODECIMA
Scaramuzza e Volpone
Scaramuzza. Affé, ca n'aggio paura de chiste roseca catenacie, di sti penachielle co li mostacce stuorte a cruoche de carne! Uno me teneva mente alla smargiassa, parenno quase che me avesse voluto gliotere e dellegiare, e io co na sbotata de uocchi, na sbattuta de piede 'n terra, no pideto e no stornuto, l'aggio subeto fatto vacuare lo fegato, con tutto lo core e li permune, e deventare tiseco comme a statua e sico coma mumia de levante.
Volpone. O misero Scaramuzza, tu vai fra te stesso chimerizando e facendo lo sgherro, e messer Alberto da' suoi bravi ti potrebbe fare ucidere per la piatonata che da dietro tu gli detti.
Scaramuzza. O pò far la vita mia, e che ne dici tu? Si' de parere che me ne porrìa fare accidere de sto mbruoglio?
Volpone. E che ne sei in dubbio di questo? e che aspetti, che non ne fuggi dalla città? come, che non ne farà gran risentimento? un uomo di tanta riputazione, e tanto amato qui nella città di Capua, che credi che se ne voglia stare con le mani alla cintola? O poveretto te, asconditi!
Scaramuzza. E frate Vorpone, tu me farai venire scorezione de cuorpo, tanta paura me miette! Io sto buono a sta città e no me vorrìa partire da sti case cavalluce e provature fresche. O fortuna mia crudele, e quale chilo, che squaglia m'ha tentato, che io le desse?. Ora va', ca lo creo che lo capitanio spagnuolo va cercando isso per zi' Pollicinella e lo volle accidere pe la vessicata che l'ha schissato 'n capo, perché tutte lo chiamano capitan Vessica.
Volpone. Orsù, ti esorto una cosa fratello: vate muta di vestimenti, ché non essendo conosciuto, non ti sarà fatto dispiacere.
Scaramuzza. Io cierto aggio da esser acciso, perché na zingara me lo disse, allo manco trovasse chi me lo sapesse nevinare.
Volpone. Férmati Scaramuzza, non ti disperare, scopriti quel fronte.
Scaramuzza. Te ne intienne a fé? E fa' adaso frate, ca me fai male, pare ca volimmo ioquare a tafaro, a tamurro, pizingogola e cemino.
Volpone. E férmati, non star su le burle.
Scaramuzza. Me fermo, sto saudo, commo me radesse.
Volpone. Mostra la mano dritta.
Scaramuzza. Te'.
Volpone. O come spuzza di lavature di piatti.
Scaramuzza. Non ha doi ora che l'aggio lecate e lavatel A fe', ca da chesto a comienze a nevinare buono.
Volpone. Questa è la linea del sole. O come va dritta e giusta! Tu sei molto amato da prèncipi e hai da ereditare una gran forca, o voglio dire richezza.
Scaramuzza. E ca tu me cossie, frate, no burlare.
Volpone. Férmati. Achese e bochese e tempore sosina, l'aseno che sta fermo non camina. A te dico, Scaramuzza, sta' in cervello.
Scaramuzza. E chi non lo sa chesto? Tu me dellige.
Volpone. Sta' pur saldo, or qui è l'importanza, stammi ad udire.
Scaramuzza. Te sento.
Volpone. Vergine e Libra da te fugono; Ariete e Gemmini te dominano nelle mani; Pescie ti molesta davanti; il Tauro con il Cancaro da dietro.
Scaramuzza. E ba' la forca, vòi burlare!
Volpone. Sagittario ti minaccia il fianco, Scorpio il naso, Aquario la gola.
Scaramuzza. A lo manco fosse vinario e no aquario!
Volpone. Leone tutto il corpo e Capricorno il capo.
Scaramuzza. O maro mene, adonca saraggio cornutto a paletta? Pe lo cunto della chiatonata no se ne parla?
Volpone. Va alla peggio. Vati salva in qualche modo, via, ché la tua stella ti minaccia morte.
Scaramuzza. Vao, vao, che bole la stella da me? che l'aggio fatto?
Volpone. E io men vo per ritrovar il servo del signor Fulgenzio.
SCENA DECIMATERZA
Squarcia solo
Squarcialeone. É possibile, o mia crudelissima guerriera, che tu così dispietatamente brami la mia morte? Ah, che se io avessi il petto trasparente, in guisa di chiaro e limpido cristallo, ben vedreste, o bella mia Clarice, arder per te mille fornaci ardenti. Poiché il misero e tormentato mio cuore si dilegua, si distrugge e avampa assai più che la fucina di Vulcano, Strombale, Etna e Mongibello ; arde più che il fuoco elementale e infernale; e per estinguerlo bastevoli non sarebbe né sorgenti fonti, né correnti fiumi, né il vasto oceano, né le gran catarate dell'aqua del Nilo, ma solo quella del dolcissimo fonte della tua amata grazia, quello, dico, che mi sostiene in vita. Che farò dunque, cuor mio, se da te non avrò soccorso? chi darà rimedio al mio dolore, come potrò più, senza il tuo aiuto, mantenermi in vita?
SCENA DECIMAQUARTA
Volpone e Squarcia
Volpone. Io non so dove se sia cacciato quel Pollicinella.
Squarcialeone. A dio Volpone, che dicono i riporti di Fiandra, di me?
Volpone. Delle fiandrine e della barbaria vi potrei dar più sicuro aviso.
Squarcialeone. Sempre stai su le burle. A fé, che se tu patessi la pena che io per Clarice patisco, che senz'altro più dire ti anderesti a sepelir vivo.
Volpone. E perché non vi andate voi?
Squarcialeone. Perché sono impenetrabile e immortale e la speranza mi mantiene.
Volpone. Di gir su una galera.
Squarcialeone. Ti ho ben inteso, sì, che anco questo esser potrebbe per generalissimo del mare, ma non voglio per ora.
Volpone. Voi dite che vivete di speranza. Chi vive di speranza, fa la fresca danza. Ohimè, di grazia, vi prego a non farmi quella guardatura di gatto arrabiato, con quello inarcar di ciglia porcine, perché temo di morir vestito.
Squarcialeone. L'aquila non piglia mosche, non imbraterei la mia mangiacuori per così poco cibo. Ti dovresti spaventare, porti in fuga e girtene a concentrar nell'abisso, quando che tu fosti un esercito de paladini armati. Fatti in là, non mi mirar così fisso, perché hanno gli occhi miei l'eccelsa virtù del sole, che fanno abbagliar la vista a chi li mira. Non ti accorgi che mi offendi col fiato?
Volpone. Se pur è vero, che non mi sappia di buono, come voi dite, lo cagionano i molti secreti de gli amici, che per non palesarli sono putrefatti nello stomaco.
Squarcialeone. O ti ho inteso, segui ancora di far le ambasciarìe amorose, come di già facevi?
Volpone. Dite pure il ruffiano, signore, ché lo fo per eccelenza.
Squarcialeone. O putanaccionacissima della quinta essenza del brachiero di Saturno, io non me lo ricordavo. Deh, caro Volpone mio, fammi posseditore della mia bellissima Clarice, ch'io ti prometto e giuro, per la suprema beltà di lei, di farti padrone assoluto di tutti i tesori del Perù.
Volpone. Pure che il volermi intricare in questi vostri amori, il capitano suo fratello non mi faccia su l'asino re di Cartagine e ministro di Galilea.
Squarcialeone. Né della frusta, né della galera, porta pericolo chi si adopera in servigio dell'orribile e spaventevole capitan Squarcialeone e Scornatori, arcivalentissimo valente.
Volpone. Ma dalla forca non so se me ne potrete salvare. E dirò, come scrisse il saggio, che il serpe giace tra' bei fiori e l'erba.
Squarcialeone. Io ti intendo, vuoi tu dire che l'erba e i fiori sono le molte bellezze della mia donna, e il serpe il suo fratello, non è vero?
Volpone. Signor sì, bisogna guardarsi di lui.
Squarcialeone. Che si guardi pur lui di me, che non lo mandi invisibile per aria, come se avesse li stivali di Leonbruno. E tra le spine vi sono ancora le rose; e tra le api il mèle; se ne ha dunque da rimaner privo per questo? Cospettonaccio del gran cavallo di Troia! To', prendi questi quattro ducatoni, spendi e aiutami, e ricordati che se io voglio ti posso far monarca.
Volpone. Sì dell'ospitale de gli Incurabili di Napoli! Vi ringrazio con vostra signorìa non fui mai interessato, e sappiate che la signora Clarice ama svisceratamente il signor Fulgenzio, e io li ho promesso di farglielo ritrovar questa notte dentro di questa casa vòta, all'ora quando il fratello di lei sarebbe addormentato, che io li avevo promesso di condurgliela, sì che in vece di Fulgenzio, vorrò (se così vi piacerà) che vi andaste voi signor, anticipando il tempo. E darò a credere a lui che l'apuntamento s'è preso per un'altra volta, e perché sarà oscuro, lei vi crederà Fulgenzio, e così farete ciò che vi parerà e anderete tastegiando le sotteranee parti.
Squarcialeone. Or sì che ti meriti ch'io ti facci imperator di Tartaria.
Volpone. Vi vado ogni mattina.
Squarcialeone. Io vi anderò, e per segno che ti amo, goditi ancora questo pregiato anello, che me donò la regina d'Inghilterra per memoria di un gran fatto d'armi, che io per lei feci in Africa.
Volpone. Io vi ringrazio, e me lo terrò carissimo e conservarò in una amplissima carta, dove vi sta dipinta una città dell'istessa Africa, detta Bugia. Dunque entrate in quella casa che io ho detto, e vederete che ve la farò venir nelle braccia senz'altro dubbio.
Squarcialeone. Volpone, fratello, io vado; mi raccomando alla tua diligenza.
Volpone. Andate, ché ormai si approssima la notte.
(Volpone solo)
Il vario leggere molto diletta e piace, ma il certo assai giova. A fé, che non poco mi ha giovato l'aver udito leggere diversi libri d'intrighi e di novelle. Ecco che ora vo ponendo in vero quello che me ha paruto menzogna! Mi importa assai di costui, che stia tutta la notte al fresco! Li ho dato questo ordine per cavarli qualche buon profitto dalle mani e per tormelo davanti.
SCENA DECIMA QUINTA
Pollicinella e Volpone
Pollicinella. Hà, hà, hà, hà! Aggio chiù famme che suonno. O che brava vessicata è stata chella ch'aggio schiaffata 'n capo a chillo spagnuolo.
Volpone. Ecco qui Licaone converso in lupo.
Pollicinella. E becco lo lupo deventato no aseno.
Volpone. O là , misser Pollicinella, tu ti rassembri a l'orso goffo e destro.
Pollicinella. O se me vedisse iocare de mano e de diente ntuorno a no piatto de maccarune! Ma sì, sì, tu m'hai visto! No magno buono, pre vita toia? Ma vorrìa che me vedisse n'autra vota a le spese toie.
Volpone. Di grazia, ma ti vederò presto giocar di piede sotto di tre legni.
Pollicinella. E io a te de vraccia, de capo e de gamme, quanno sarai squartato! Che te ne pare, no responno buono?
Volpone. E non andar in colera, che io burlo teco, andiamo all'osteria quando tu vòi.
Pollicinella. E io per zi' burlo, iamonce mo. Chi ha tiempo, no aspetta tiempo, disse la canzona de gallo e de capone, gallo non è, ca non sai ched'è?
Volpone. Vù, goffo, credi che non lo sappia? É la gallina.
Pollicinella. Merda 'n mbocca a chi nevina! Ah ah, aggio tenge cogliuto?
Volpone. A, dunque viene a me, che l'ho indovinato!
Pollicinella. Hà, hà, te' a ta nevinata!
Volpone. Non ti vergogni d'esser così disutile?
Pollicinella. Se nce so' io, non ce so' le masche, li diente, né le mole meie.
Volpone. É questo è peggio; non ti vergogni di andar mangiando per le piazze?
Pollicinella. Sai perché mangio per la chiazza?
Volpone. Perché?
Pollicinella. Perché là aggio famme, chi sa si po' avaraggio appetito pe la casa e non c'è che mangiare.
Volpone. Orsù, vate a picca.
Pollicinella. Vance tu, ca no saccio la via, e si bè la sapesse, non ce iarìa pe sette menestre e meze. Non te verguogne di dicere chesto a lo petore maggiore de la cittate?
Volpone. Pittore maggiore? Perdonami, da quando in qua ti sei scoperto così gran virtuoso? e come dipingi, a oglio o a guazzo?
Pollicinella. A guazzo, perché spisse vote me caco li cauzune.
Volpone. E che tanta forza vi pone al dipingere?
Pollicinella. Messere sì, ca spisso me nce spremmo comme a stiteco e, seconno lo viento che piglio, lavoro.
Volpone. Ti servi di vento, e che, sei marinaro? come fai, di grazia, perché vorrei che mi facesti il mio ritratto con una bella barba più appontita di questa.
Pollicinella. Me meco le mane a li schianche, de chesta manera, abascio lo capo e alzo lo reverenzia parlanno all'aria, piglio viento e lavoro allegramente e ne do dudece e quinece a tornesse pe campare.
Volpone. Fermati, come intendi tu questo pittore maggiore, dichiaramelo un poco meglio, di grazia?
Pollicinella. Dico pedetore e non petore, e faccio pedeta e depegno quarche vota a guazzo la cammisa e li cauzune quanno magno cose liquide.
Volpone. E io ho sempre inteso pittore, e non pettore che tira de' petti o delle coreggie! Orsù a noi, sono questi i limoni, in questo bel canestro?
Pollicinella. Messere madamma sì, vide como le porto belle copierte, con chisto tafetà de seta.
Volpone. Ti ricordi la lezione, che io ti ho dato dell'ingano ch'abbiamo a fare?
Pollicinella. Sì sì, me l'alecordo, ma tornamme a defrescare la mamoria.
Volpone. L'hai ben tu riscaldata a quel spagnolo con darli una vescica sul capo, che si ricorderà di te!
Pollicinella. Perché ha ditto niente lo spagnuolo?
Volpone. S'io dico a costui che quello lo cerca per farli dispiacere, non sarà cosa a proposito.
Pollicinella. Ei là, con chi parle tu? co' lo spagnuolo contra di me?
Volpone. Dov'è il spagnolo, ché io voglia parlar seco? O sei balordo, sta' allegramente, non dubitare. Dunque, dirai di chiamarti, come ti ho detto, Antuono Cipolla, e che sei un servo novamente...
Pollicinella. Stampato con grazia e provilegio e lecienzia de' supreriure.
Volpone. E no, novamente venuto a stare con la signora Cassandra, e che manda alla signora Lucilla cotesti limoni, e quel che segue.
Pollicinella. Ora buono, vòi che tozzola e la chiama fora?
Volpone. Sì di grazia, e con diligenza.
Pollicinella. O della casa? Si nce site, responiteme, e se non ce site, no sia nesciuno che parla. Che te ne pare de sta delegenzia?
Volpone. Tu faresti disperare la pazienza, perché queste son diligenze salvatiche. Batti alla libera.
Pollicinella. E ch'è canto de zorfa , che buoi che batta a lo libro? O de la casa, volite responnere, sì o no?
SCENA DECIMASESTA
Scaltrino con sudetti
Scaltrino. Chi è stato quel beccaccio, che così dispietatamente ha battuto questa porta?
Pollicinella. So' stato io. No me fare lo bello umore, ca te sesco.
Scaltrino. Che cosa vuoi? Si è fatta la elemosina.
Pollicinella. Non saccio, adomannalo a chisto, che me sta dereto, che boglio.
Volpone. Ah razza di porco! Bisogna che mi ritiri.
Pollicinella. Ah razza de puorco! Besogna che me retira.
Scaltrino. Férmati, dove vai? Razza di porco se' tu.
Pollicinella. Quanno lo cantarielo e quanno 'n terra. Perché la domanne, si' miedeco tu, che buoi sapere dove vao?
Scaltrino. Son il càncaro che ti mangia!
Pollicinella. A lo naso te canosco ca te piaceno li mellune.
Volpone. Di' che chiami la sua padrona.
Scaltrino. O il cielo me dia pazienza con costui.
Pollicinella. Chiamma la patrona toia, ca le voglio parlare.
SCENA DECIMASETTIMA
Lucilla con sudetti
Lucilla. O là Scaltrino?
Scaltrino. Signora.
Lucilla. Entra in casa, chi ha battuto?
Scaltrino. Vengo signora. Aspetta galant'uomo.
Pollicinella. Tu si' lo primo che me l'hai dito. Aspetto, no me partaraggio.
Volpone. O che possi perder l'appetito, non me nominare. Stai fuora di te, che accenavi a colui che io ti stavo da dietro? E se lei viene, parlali dolcemente.
Pollicinella. Besognerìa che avesse no poco de zucaro nmocca, haine niente pre vita toia?
Volpone. Voglio dire con soavi e mellate parole.
Pollicinella. A fé, ca me piacceno le mela, cotte co lo zuccaro.
Lucilla. Chi ha battuto questa porta?
Pollicinella. Io, signora, perdonateme, ca no l'aggio battuta, né datole per male, perché le voglio bene, ma solamente pe parlare alla signora Lucilla. Site vui, la signorìa vostra vo' sorìa?
Lucilla. Che vorreste dir per questo?
Pollicinella. Signora sì ca voglio dicere chiù de ciento millia cicere.
Lucilla. Son io Lucilla. Che dimandi? chi sei?
Pollicinella. Sei e sei, ha dudece. Vorpone lo fa meglio de me. Dov'è iuto?
Lucilla. Chi Volpone?
Volpone. Di' che hai nome Antuono Cipolla, no me nominare.
Pollicinella. Me chiamo Antuono Cepolla, no me nomenare.
Lucilla. Se io non so il tuo nome, come ti voglio nominare?
Volpone. Di' che ti perdoni, che hai fallato.
Pollicinella. Vostra signorìa me perdona, ca so' falluto. La signora Cassandra vostra zia, e patrona mia, che sta malata a l'uorto, ve manna a donare chiste dudece lemmune, che ve le magniate tutte sta mattina pe l'amore suio.
Lucilla. Starei brusca e gelata per molti giorni! O sono pur belli, o che bei fiori, e dove sono stati colti?
Pollicinella. A la chiazza.
Volpone. Ah mastino, di' che tu li hai colti all'orto di lei.
Lucilla. Come, in piazza?
Pollicinella. O mannaggia lo brutto papao, ca me so' scordato! Io co le mane mei l'aggio cogliute a lo giardino suio. Uh, che mala mamoria che aggio! Che me vengano ciento milia pulece ncoppa a li tallune!
Volpone. Ben, sta' sopra di te.
Lucilla. Ed ella come sta? vi continua così spesso il medico?
Pollicinella. Pe quanto dice lo miedeco, no saperìa che dicere a vostra signorìa.
Lucilla. Mi par molto scemo costui, non mi risponde al proposito.
SCENA DECIMAOTTAVA
Alberto con sudetti
Alberto. Non occorre che quel spagnuolo voglia più farmi il gherro, né il bislacco adosso, ché dove io mancarò suppliranno gli amici.
Lucilla, che fai tu qui, fuora di casa?
Lucilla. Sono venuta in strada, perché costui mi ha recato quello bel canestro de limoni da parte della signora zia.
Alberto. Come sta mia sorella della sua infermità?
Pollicinella. Né male, né bene, sta male e sta bene.
Lucilla. Non occorre perdere il cervello con costui, che di dieci parole ne risponde vinti al contrario. Ragioniamo di ciò che è succeduto: sia lodato il Cielo, che non siete stato offeso da coloro.
Alberto. Il signor Fulgenzio, in vero, che si è portato da gentil'uomo; ma quel napolitanello, quel napolitanello me la pagherà! Darmi egli da dietro una piatonata!
Pollicinella. E io pe l'amore vuostro aggio schiaffata chella vessicata 'n capo allo spagnuolo; come ha da ire sta cosa? Se saraggio acciso, no me ne mpaccio e non ne saccio niente.
Volpone. Ohimè, adesso sì che butta a terra ogni cosa. Ah infame!
Alberto. Come per l'amor mio? dove me hai tu conosciuto?
Pollicinella. E no volite che me fosse stato ditto da la giente, ca iereve fratiello de la sionora Cassandra, patrona mia?
Volpone. A fé, che l'ha comodata bene, il porco!
Alberto. Tu sei un gran galant'uomo, e te sono obligato per questo.
Pollicinella. Deciteme, signore, è bravo assai chilo spagnolo?
Alberto. Caro quel'uomo! Come hai tu nome?
Pollicinella. Antuono Cepolla, pe servire a vostra signorìa.
Alberto. Hà, hà, hà, non era più da ridere se ti chiamasti Gabano Scalogna! Caro il mio Antuono, io no credo a colui, se non per bravo di menzogne. É vero che la potenza ha per fondamento la virtù, io non so che virtù egli si abbia; e la virtù sta nell'erbe, nelle pietre e nelle parole, dunque che per esser virtuoso e bravo in credenza, la deve fondare sopra delle sue iperboliche parole, che n'ha pieno il mondo.
Lucilla. Signor padre mio, di grazia, statevene ritirato in casa e non andate così solo in volta, per non dare in qualche cattivo incontro.
Pollicinella. Signora, perdonateme, se io no saccio fare bona la masciata, perché non aggio mai liuto nullo livro, autro che chillo che sta frisco Antuono co la massaria, le ciaule no me fanno semenare, li sturne so' li primme a benegnare.
Volpone. Se io non mi caccio inanzi, costui potrebbe disfare tutto l'ordimento.
Servitore, signor Alberto. O, messer Antuono Cepolla, che fate qui?
Pollicinella. E tu no lo sai? Bello spreposeto.
Volpone. Taci, non mi rispondere, becco becaccio.
Alberto. Son tuo, Volpone. Conosci costui?
Volpone. Signor sì. E ben, come la passi in casa della signora Cassandra, dove ti accomodò quel barbiere nostro amico?
Pollicinella. Hà, hà, hà, ahimè, che gusto me ne piglio, o che bello nbruoglio è chisto, me ne schiato de risa!
Volpone. Taci, non ridere, viso di Pasquino.
Pollicinella. E che buoi, che chiagnia? Me piglia gusto de la furbarìa.
Alberto. Volpone, io voglio che tu venghi a cena meco con costui, perché ti averò da parlare di ciò che tu sai. Entriamo Lucilla.
Lucilla. Andiamo signore.
Alberto. Entrate fra poco voi altri, ché io vi attenderò in camera.
Volpone. Veneremo, signore.
Pollicinella. No mancaraggio de venire. Metto sti limone dintro de la casa. Nge l'aggio puoste.
Volpone. Non rifiuteremo la sua magnanima gentilezza. Orsù, loro sono in casa, appresso vi andaremo noi.
Pollicinella. Ah ah, che te ne pare Vorpone? no so' valent'ommo io?
Volpone. Valent'uomo per fortuna. Entriamo pur a cena, e parla poco per far molto profitto.
Pollicinella. O bene mio, a cena? Bello smorsire che boglio fare a doi ganghe, lassame allargare la correia, e spontareme nante a la panza.
Volpone. Orsù, allegramente, poche parole e buon reggimento. Andiamo.
Pollicinella. Iamo iamo, bene mio. Allegrate, cuorpo mio, allargateve stentine, po' che lo core, lo fecato e li permune tutte faranno banchetto, feste e allegrezze all'onore de Bacco. Becco no m'entienne.
Volpone. Ah goloso, goloso, entriamo, che possi scoppiare.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Alberto e Volpone
( Comincia la sera)
Alberto. Ecco che la notte, madre di pensieri. già comincia a discacciare il giorno; e se non fosse che abbiamo a fare ciò che in casa mi hai detto, circa di Clarice, io ti farei rimanere a dormir qui da me con quell'altro Antuono Cepolla.
Volpone. Non occorre signor, ve ringrazio, tanto più che bisogna batter il ferro quando è caldo, e più spesso ancora quando è ben infocato. Ora stiamo sul meglio, non bisogna abbandonar l'impresa; sì che lodarei che vi doveste tratenere in casa di qualche speciale vostro amico, acciò vi desse qualche confortativo, perché debbiate stare bene all'ordine per l'assalto amoroso, e doppo ritrovarvi pronto all'ora determinata in questo proprio loco. E non andate troppo in volta, così di notte, per più rispetti.
Alberto. Tu hai ragione, andarò prima a far sapere a Lucilla che se questa notte mancasse di venir a casa, non abbia di me sospetto. Vado perciò fare e non star qui a contendere col buio e l'umido della notte, essendo malagevol cosa per noi vecchi.
(Notte)
Volpone. Andate in buon'ora, poiché n'è sopragiunta.
(Volpone solo)
So che il buon Pollicinella attende tuttavia ad empirsi il ventre e a menar le mascelle più che un molino a vento. Non so come egli si faccia a poter bere e mangiare tanto! Vorrò chiamar il signor Fulgenzio. O là, o di casa!
SCENA SECONDA
Fulgenzio e Volpone
Fulgenzio. Chi è là, chi chiama?
Volpone. Corpo del bordello, ne anco un gatto che sta in sentinella del topo! Bona guardia, signor Fulgenzio, bona guardia.
Fulgenzio. E ben, a che termine siamo?
Volpone. In bonissimo. Sappiate che Pollicinella, benché abbia del balordo, col mio aiuto si è portato assai bene, ed è stato accettato per il servo della signora Cassandra, e di già è entrato dalla signora Lucilla giunto con il signor Alberto, e gli ho dato i limoni, sì che lo sto attendendo per esequir il rimanente di ciò che vi dissi. Non altro mi impedisse, solo che il padre di lei, che se ne è andato in casa; ma ho ben io ancora ritrovato l'antidoto per farlo sortir fuora.
Fulgenzio. Dunque starò con molta speranza attendendo così felice vittoria, mediante l'acuto ingegno del mio caro Volpone.
Volpone. Sì bene, ma fermatevi, ché sento gente. Ritirianci in questo loco.
Fulgenzio. Non alterar la voce.
SCENA TERZA
Scaramuzza con sudetti
Scaramuzza. Io me era resoluto de me nascondere dintro de no furno pe la paura de Arberto, che no me faccia accidere; ma perché non c'era pane, non l'aggio voluto fare, e so' stato conzigliato a vestirme a cossì da femena come sto, pe non essere conosciuto nen da isso, nen da li brave suoie. Ora che me schiaffa tutte chille nase a pezzulo po' che me ne voglio sbignare a la vota d'Averza e po' a Napole.
Fulgenzio. Chi è là?
Scaramuzza. Amice! Ohimè, mo so' acciso e non ce veo!
Volpone. Chi sei? O là, rispondi?
Scaramuzza. Una infelice gentildonna romana, fuggita dal marito per debiti.
Fulgenzio. Da quando in qua si usa fuggire dal marito per debiti?
Scaramuzza. L'abbiamo posta noi cotesta bella usanza.
Volpone. Certo, che debbe esser qualche gentildonna di gran merito, che, per il molto gridare che averà fatto con il marito, è rimasta con la voce roca.
Scaramuzza. Vi' per certissimo certo.
Fulgenzio. Bona notte , signora mia.
Scaramuzza. Bona nottissima e bonanissimo, signore.
Volpone. Signore, io vi ho fatto un poco di disegno sora di costei, lasciate che io li dia in vostra casa la bona notte, che domattina poi gli darete il buon giorno.
Fulgenzio. Fa' pur ciò che tu vuoi, ché io altro non bramo che Lucilla.
Scaramuzza. Di grazia, signori, non molestate la mia pudicizia.
Volpone. Signora mia, noi non siamo qui per oltraggiarla, e se si vole ella degnare di entrare qui in questa casa, la farò riposare con mia sorella questa notte.
Scaramuzza. Ahimè, poverina me, non mi maucciate, non mi toccate, non mi provocate a la libidine.
Volpone. O puofar me! Signor Fulgenziofermatevi, ché vi ho da parlar in secreto.
Fulgenzio. Sovra di che?
Volpone. Di questa, che dice d'esser gentil donna ed è uomo.
Fulgenzio. Mi burli, parla piano.
Volpone. É verissimo, tacete.
Fulgenzio. Vorrò accertarmene. É più che vero ! Corri in casa e ritorna con due bastoni, che io lo trattenirò di parole.
Volpone. Vado.
Scaramuzza. Orsù, perdonatimi signori, perché ho da andare in casa di una mia parente. Bona notte.
Fulgenzio. Fermatevi, di grazia, un poco, non siate così frettolosa.
Scaramuzza. Lasciatemi il braccio! Ohimè, che troppo me stringete.
SCENA QUARTA
Volpone con sudetti
Volpone. Prendete, signor Fulgenzio. Regalate così graziosa dama.
Fulgenzio. Mostra. To', to', to'. Godetevi questo regalo da mia parte.
Volpone. E da la mia quest'altro. Ah furbonaccio, to', to', to'.
Scaramuzza. O Cielo aiutame! Lassame sarvare a chesta casa vecchia.
Fulgenzio. Volpone, ti aspetterò in casa. Fa' polito il tutto.
Volpone. Andate, signore.
SCENA QUINTA
Alberto e Volpone
Alberto. Non posso discacciare quel Antuono Cipolla de la cucina. Non si vede mai satollo né di bere, né di mangiare! Non so che avrà fatto Volpone.
Volpone. Chi è là?
Alberto. Amici. Se' tu, Volpone? che fai?
Volpone. Quello son io, che mi affatico per voi, signore.
Alberto. Fratello, io son degno di biasmo, perché facevo diversi pensieri di te. Che vi è di novo?
Volpone. Ciò che io vi dirò, ma con fretta. Datimi la vostra sopravesta lunga, la baretta, ed entrate or ora nella cantina del capitan Matamoros, ché la porta starà aperta. Fermatevi, che io la tocchi, è vero, aspettate ne la cantina Clarice, che vi verrà a trovare (sendo il fratello fuora di casa, al gioco). Fate i fatti vostri e doppo ritornatevene a casa, che bon pro vi faccia. A rivedersi damattina.
Alberto. E perché vuol ella che io vi vadi così senza baretta e senza vesta?
Volpone. Acciò non siate conosciuto per Alberto. Prendete il mio mantello e il mio capelletto, amorzate quel lume e andate presto, ché ella verrà a trovarvi tosto.
Alberto. L'ho smorzato, mostra qui il tuo mantello. Vado, bona notte.
Volpone. In buona ora! E io così travestito, me ne anderò in vece di Fulgenzioa godermi di Clarice, dandoli a credere, senza lume, che io sia quello.
SCENA SESTA
Matamoros con dui bravi, e Volpone
Matamoros. Te he dicho que ascondes aquella lumbre, pues, que quiero estar toda la noche y toda la manaña delante de la puerta de Alberto, solo por dalle veinte y cinque espaldarazos. Esten ascondidos ellos de tràs de a quel rincon.
Volpone. O può far me, che gente è questa?
Matamoros. Alumbra a cà, este es por vida mia! Dele don Sancho, sierra don Pedro! Toma Alberto vellaco, hijo de puta! Aprende a saber bien trattar con cavalleros!
Volpone. Ahimè, che son morto da ladri. Non son Alberto, no.
Matamoros. Vamonos cavalleros, que Alberto se ha ido a buscar Acheronte, para passarse al reyno de Plutòn; ya que es muerto.
SCENA SETTIMA
Squarcia con Scaramuzza da la casa vòta
Squarcialeone. Ritornami tosto cotesta mia spada! Non mi conosci, putanaccia della guerra, che sono il maggior fratello di Marte? Non sarai sicuro in braccio del famoso Alcide!
Scaramuzza. O mama mia bella! Ohimè, è loco! 'N terra la spata toia, sarva, sarva, a sta casa de lo spagnuolo!
Squarcialeone. Non ti potrebbe difender Polifemo con suoi Ciclopi, né tutti i superbi giganti fulminati da Giove, se lor vivessero. Ove ne sei tu gito? Questo mi pare il supremo e chiarissimo splendore della mia famosa, forte, sbudellatrice, squarcia, trincia, scanna e uccide spada. Non mi sono ingannato. Sei venuta da tua posta a ritrovarmi? non ti eri già ribellata dal tuo signore? Rispondi se puoi. Certo che se colui che in cambio di Clarice mia, che io attendevo (non so come nelle braccia mi capitò) da me non fuggiva, già l'avrei converso in minuta sabia, per por su le mie lettere, che scriver soglio, a diversi potentati del mondo.
E come è possibile, che in vece di quella, che io adoro, quinci sia venuto non so chi sia stato, che io credendola donna la ritrovai un uomo, con mio grandissimo pericolo e dell'onore.
SCENA OTTAVA
Alberto, Scaramuzza e Squarcia, in casa del Matamoros
Alberto. Signora Clarice mia cara, già che vi siete degnata di venirmi a ritrovare, almeno rispondetemi una sola parola, dicendomi che volentieri accettato avete, in segno di matrimonio, il mio anello. Non volete concedermi così degna mercede? Orsù pazienza, ragioneremo in casa mia.
Squarcialeone. Che è quel che io odo? S'io non m'inganno, ho udito non so chi parlare con la mia donna. Che sì che forse è stata impedita e da altri goduta.
Scaramuzza. Io già mai sarò per consentire alle vostre libidinose voglie.
Squarcialeone. E io potrò tenermi che vinto e superato dallo sdegno e dal furore, che con questa mia fulminante spada non dispolpi e snervi costui? e ponghi in rivolta e in bisbiglio la monarchia d'amore e del mondo tutto?
Alberto. Andiamo a casa mia, dove far potremo più agiatamente ciò che li amanti bramano. Signora Clarice mia, anima mia.
Squarcialeone. O corpo del regno di Cocito , lasciami, becconaccio, cotesta donna, che è mia!
Alberto. Ohimè la lascio, non mi uccidete.
Scaramuzza. Tallune aiutateme, ca me sarvo cà, dinto sta casa de Fulgenzio.
Squarcialeone. Ben ti giongerò, ancor che avessi di aquila le ali.
SCENA NONA
Volpone solo
Volpone. Non è stato poco, che l'ho cavata netta a non esser stato sbudellato da coloro che m'han tolto in cambio del signor Alberto, ma la colpa che io avevo del cattivo mio pensiero di andare dalla signora Clarice, ha cagionato ciò che veramente me ho meritato. Orsù, il dolore e la paura me hanno fatto passar l'amore! Però non deggio maravigliarmi di questo, poiché tutti i miei antecessori, chi è stato in berlina, chi in galera, chi frustato, e chi appicacato, e perciò di raggione debbo assomigliarmeli, poiché era il dovere che io fusse stato almeno bastonato, benché questa non sia stata la prima volta.
SCENA DECIMA
Pollicinella e Volpone
Pollicinella. M'aggio pigliato sta lanterna ch'aggio buono trincato, e non ce averìa veduto iremenne a la casa. O come è stato buono chillo vino verdisco da Verza, chella lagrema de Somma e chello gricco cagniatillo. Me sento l'uochie npeccecate, npaglioccate, scazzate pe lo suonno.
Volpone. Questi è Pollicinella. Voglio stare ad udire ciò che si ciarla da sua posta.
Pollicinella. O quanta stelle, che stanno 'n cielo! E dove è la luna? A, a, l'aggio intesa: se ne sarà iuta a corcare co lo sole e se gaudeno amorosamente. O che me potesse pigliare una de chelle stelle pe me la metere a sto capiello. Quanta pon essere: una, doie, tre, quatro, cinco, sei, sette, otto, nove, ù ù quantane, quantane, non le pozzo contare! Se ne porrìa anchire no saco.
Volpone. O che ignorantaccio, conta le stelle! Pollicinella, ferma là.
Pollicinella. Ohimè. Iatevenne signure mariuolo, ca n'aggio né donare né feraiuolo!
Volpone. Taci, non gridare, non mi conosci che io son Volpone? Hai ben bevuto, che un uomo ti pare un squadrone.
Pollicinella. Aggio vippeto buono e ngorsuto meglio. Bona sera, si' sulo?
Volpone. Solo son io, non mi vedi, e hai il lume in mano? Sai se 'l signore Alberto è ritornato in casa?
Pollicinella. Ascette e mai tornao chiù.
Volpone. Orsù, dunque presto a noi, ché non è tempo di perdere. Ti ricordi la lezione?
Pollicinella. No, quale lezione?
Volpone. Del servizio del tuo padrone con la signora Lucilla.
Pollicinella. Ah sì sì sì, me era scordato, me l'allecordo mo.
Volpone. Diamo principio all'opera, batti la porta in fretta, chiamala e fa' del naturale.
Pollicinella. Cioè, ca la zia sta malata de morte, e bò fare testamiento, e ba descorrenno.
Volpone. Bene, bene, o se si vedesse fuora, hai una gran buona memoria. Batti, che io fingerò di sopragiunger appresso.
Pollicinella. Dice buono, retìrate là bascio.
Eilà, eilà, o de la casa!
SCENA UNDECIMA
Lucilla con sudetti, da dentro e poi fuora
Lucilla. Io odo battere, forse è mio padre, e voi altri dormite. Che dimandi, che vòi?
Pollicinella. So' io, signora, non me vedite, si stongo cà fora e aggio la lanterna?
Lucilla. O se' tu, messer Antuono?
Pollicinella. Signora sì.
Lucilla. Che battere in fretta, non hai creanza.
Pollicinella. Signora no, pe servire a vostra signorìa vengo a chiamareve correnno da parte de vuestro patre, e de la signora Cassandra vostra zia, ca sta pe morire. E dice isso che se ve nce troverite a tiempo a lo testamiento, ve lasserà tutte le robbe soie, e non ve nce trovanno, le lasserà a chill'autro nepote suio.
Lucilla. Dunque lei morirà.
Pollicinella. Signora sì, se n'è morta. Iammo priesto, lassate ogni cosa, ca vuestro patre v'aspetta.
Lucilla. O povera mia zia, ù ù ù ù poverina!
Pollicinella. Ì ì ì ì ! É è è è ! acute; à à à ! Ú ù ù ù!
Volpone. Che ti importa il piangere a te?
Pollicinella. Faccio a cossì pe zerimonie ciciliane.
Lucilla. E chi mi accompagnerà da lei?
Volpone. Di' che la compagnerai tu.
Pollicinella. No ce lo boglio dicere chesto, ca no me l'ha imparato a la lezione.
Volpone. Chi è là, fermati qui, chi sei?
Pollicinella. E tu no lo sai? Bello bestiale.
Volpone. Messer Antuono, buona notte. O signora Lucilla, servitore a vostra signorìa. Ohimè, a che più tardare? E come non siete andata da vostra zia, che vostro padre vi aspetta? Avertite, che se non affrettate il piede, la potreste trovar morta. Andiamo, andiamo signora, ché vi accompagnaremo noi.
Lucilla. Voglio prima raccomandar la casa al ragazzo o alla balia che sta inferma.
Volpone. Non occorre, ché io subito ritornarò qui a volo e farò che n'abbino cura.
Lucilla. Lasciatemi almeno che mi toglia il manto.
Volpone. Non, perché non è tempo di manto, né da perdere.
Pollicinella. E priesto signora, ca ve priesto lo capiello mio, che non ve faccia danno la serena.
Lucilla. Andiamo, tien pur dritto quel lume.
Pollicinella. Lo tengo. O pota de lo carnevale, mananagia la carne salata, se n'è caduta la canelella da la lanterna!
Volpone. O che ti possano cader le mani! Fatevi in qua signora, da quest'altra parte.
Pollicinella. E a te l'uocchie! No me l'hai nparato tu?
Volpone. Taci, in ogni parola sei risposte! Che ti sia tagliata la lingua!
Pollicinella. E a te lo cuollo, piezzo de cata piezzo.
Lucilla. Voi altri contrastate e mi avete allontanata di casa. Cercate per terra, ché la ritrovarete.
Volpone. Venite più in qua, signora, eccola a fé. Io vado girando costei acciò perda il dritto sentiero di sua casa.
Lucilla. Ritorniamo a casa, ché la faremo accendere dal ragazzo. Ne siamo lontani?
Volpone. Signora sì, siamo più appresso qui dove io abito, ché la faremo accendere da mia sorella.
Pollicinella. É lo vero, dice buono Vorpone, bravo mbroglione che è.
Lucilla. Fate pur tosto, di grazia.
Volpone. Ora, signora. O là di casa! Madonna Pasquetta! Vostro fratello è qui, accendetemi questa candela. Entrate signora, ché starete fra tanto più comoda qui dentro, che fuora.
Lucilla. É vero, entro. Affrettate vostra sorella.
Pollicinella. La soreca, encappata a lo mastrillo. Io, a dicere lo vero, me ne vorrìa tornare a la casa de la signora Lucilla a magniarme lo riesto de cierte macarune, che aggio lassato, e me ne vorrìa ire a bevere chello grieco. Ma che remmore è chisto, che sento dintro la casa nostra? che sarà sta cosa?
SCENA DUODECIMA
Fulgenzio, Lucilla, Volpone, e Pollicinella
Fulgenzio. Fermatevi, signora Lucilla! Anima mia, dove volete andare senza lume, essendo voi molto lontano di casa vostra?
Lucilla. Lasciatemi! Che vilipendio è questo? che insulto, che agravio volete fare al mio onore? O infelice e sventurata Lucilla, o vergogna e gran disonore di casa mia! O povero, afflitto e sconsolato mio padre, o ingrati e traditori servi! O iniquo discortese e villano Fulgenzio! E che inganevoli e intricati lacci, così crudelmente teso mi avete per ingannare una povera innocente donna? Ahi, che prima che il mio genitor lo sappia, e i miei parenti, vorrò con le mie proprie mani darmi la morte.
Fulgenzio. Non vi disperate, signora. Pollicinella, entra e fa' che sia posto un lume fuora di quella fenestra. E tu Volpone, va' in casa.
Pollicinella. De grazia, mo vao.
Volpone. E io me n'entro. Cercate di ridurla al vostro intento col meglio modo che potrete.
Lucilla. Ah traditori, a me questo!
Fulgenzio. Non più, signora Lucilla mia, non vi affligete tanto, ché con poca ragione or contro di me vi dolete.
Lucilla. Perché, non ho ragione? come, a torto di voi mi doglio? e di chi volete che mi debba dolere di così gran tradimento, se voi siete più che tigre ircana crudele; più che feroce leone inumano; e che furia d'Averno rigido e dispietato? Lasciatimi il braccio dico, e perché prima non darmi col vostro acuto ferro la morte, che così sozza macchia al onor mio? Ahimè, datemi le vostre armi, lasciatemi dar la morte.
Fulgenzio. Vi lascio. Fermatevi, piano, piano signora, ché più disonor vi fate ad alterar tanto la voce su la publica strada. Statemi un poco, per cortesia, ad udire. Non vi lasciate così crudelmente dominare dallo sdegno e dalla poca ragione che contro di me avete. Che indicevol cosa, che oltraggio e che macchia avete da me ricevuta, che così ingiustamente con chi più che sé stesso vi ama, vi adirate e dolete?
SCENA DECIMATERZA
Pollicinella dalla finestra, con sudetti
Pollicinella. Vecco la luce, se non ce vedite parlare. Me ne traso ch'aggio da fare, bona notte pagliariccio.
Fulgenzio. É vero signora Lucilla, non lo niego, che io ho il tutto fatto ordire per trarvi al mio amoroso desiderio, e più per servirvi ed amarvi come mia cara sposa, che per altro, come vera posseditrice del mio core, sì che con molta mia ragione non potete di me dolervi, già che non sono per altro volere, se non quello che voi bramate. Io, signora mia, non vi ho mai oltraggiato, né sono per violare il vostro onore, e ora mi protesto davanti alla ragione e al tribunal di amore, che come de la vostra, de la mia volontà sarete sempre vera posseditrice; né altro farò mai se non ciò che da voi, signora, mi sarà posto, poiché il mio giusto volere solo dall'onorato vostro dipende. E se è in vostro piacimento che, per discolpa del mio soverchio ardire, cagionatore del molto dispiacere che ricevuto ne avete, me dia con le mie proprie mani la morte, senza altro dubio, signora, sarò prontissimo in obedirvi. Però vi ricordi e vi sovvenghi, o mia bella e crudelissima guerriera, che di ciò solo n'è stata la verace cagione la vostra incomparabile bellezza, colma di infinità crudeltà, che mirandola e contemplandola rimasi (senza il vostro soccorso) privo della mia libertà, per non volere ella darmi un minimo conforto, né una sola ombra di speranza. Sì che vedendomi così privo di contento, il potentissimo amore, per non farmi sommergere all'ampio mare della disperazione, fe' per mia salute che il mio caro Volpone si adoperasse in questo amoroso inganno.
Lucilla. Oh Volpone forfante e vero ribaldone, tu me la pagherai!
SCENA DECIMAQUARTA
Volpone da la fenestra, con sudetti
Volpone. A la fé, che io son galant'uomo, né vi pagherei un quattrino.
(Volpone si ritira da la fenestra)
Fulgenzio. E ancora li ha dato aiuto il mio servo Pollicinella, che mutandosi il nome si fe' chiamare Antuono Cipolla.
Lucilla. Ah sì? sì? Questo ancora? Questo Antuono Cipolla, questo Pollicinella infame mi ha ingannata!
SCENA DECIMAQUINTA
Pollicinella da la fenestra, con sudetti
Pollicinella. De chesto io ve do ragione, ca sempre songo infamme e 'n appetito e mo me ne vao a far collazione.
(Rimangano gli amanti)
Lucilla. Ho detto soverchio, non mi date più noia, di grazia, poiché il vostro dir mi offende.
Fulgenzio. Dove andate signora?
Lucilla. Dove a me piacerà, non ho da renderne conto a voi.
Fulgenzio. Uditemi, cara la mia signora Lucilla.
Lucilla. Vi ho soverchio udito, signor Fulgenzio, che volete da me?
Fulgenzio. Ditemi dove volete andar a quest'ora.
Lucilla. A casa mia a ritrovar mio padre. O misera me, almen sapessi che strada mi pigliare, e che oscura notte è questa! Prestatemi quel lume.
Fulgenzio. Farò ciò che vi aggrada, però a casa da vostro padre ve ci condurrò io, come mia cara sposa, e al suo debito tempo. Non mi lasciate, vi prego, così fuori di speranza. Non siate cagione, o bel idolo del mio core, che per voi disperato mora un fidelissimo vostro amante, che più che sé stesso vi ama e onora.
Lucilla. Voi mi amate e onorate? Questo è un grande onore che fatto mi avete! Io vi ho per capitalissimo inimico.
Fulgenzio. Inimico. Ohimè, che dite signora, se tanto fedel servo vi sono e amo somamente la vostra modestia e singolar bellezza, così del corpo come quella dell'animo, ben che me vi dimostrate crudele e bramosa de la morte mia.
Lucilla. Bellezza in me non è, e se pure per mia disaventura ve ne fusse qualche minima parte, vi esorto a disamarla, ché non amarete cosa durabile, ché con il tempo ella è venuta e così farà partenza.
Fulgenzio. Ahimè, ché quella sola mi mantiene in vita.
Lucilla. Voi vi appoggiate in un debile sostegno, poiché in un batter di palpebre ella apparisce e fugge. E se breve pioggia di adversa fortuna la bagna, o un picciol vento la rimove, in un tratto dalla dispietata mano della inesorabil morte è colta e presa. Né tanto allegrezza areca seco la sua venuta, quanto dolore apporta la partenza, sì che io non trovo tanta ragione sopra di ciò in voi che la debbiate cotanto apprezzare, e più, che in goderla non vi è altro che il breve diletto del senso. Dunque, signor Fulgenzio, assai più lodabile è cercare di amare cosa eterna, che manchevole e fuggitiva.
Fulgenzio. Ritrovàtene pur iscuse, signora, e paradossi quanti volete, ché io son disposto di non amare altra cosa che la vostra somma beltà, vero e risplendente sole delli occhi miei.
Lucilla. Avete un fosco velo che vi ingombra gli occhi, che non vi fa discernere il vero dal falso.
Fulgenzio. Il vero, io lo discerno, e perciò mai per colpo di sinistra fortuna lascierò di amarvi, e se la vostra bellezza sarà fuggitiva, cercarò di seguirla sin che potrò. Anzi, che affermando le vostre ragioni, dico che non debbiate escludermi dalla vostra grazia. E che valerebbe un pomposo e superbo edificio, se non fosse mai lasciato vedere né toccare? Che gioverebbe un ricco tesoro, ascoso senza speranza di esser mai goduto? E quando, quando spalancar vorrete, signora, le inchiodate porte della vostra grazia? quando forsi l'aria del bel viso sarà cangiata in color di morte? quando l'oro de' vostri biondi capelli sarà convertito in argento? e che le tenere guancie e la serena fronte saranno dalle squalide crespe offese e da noiose nubi gli occhi ingombrati? Ma ché spendo più tempo con le parole in vano, sapendo che ben sapete che tempo verrà che in mirarvi nel lucidissimo specchio a pena riconoscerete voi stessa. Dunque, signora, vi prego a non essermi crudele, ché indubitatamente io prometto di far che il padre vostro non rimanga de aderire alle vostre giuste e onorate voglie, poiché sarete la mia cara sposa, il mio bene, la mia vita e la mia padrona.
Lucilla. Voi, signore, in vece di dispormi alla vostra volontà con raccordarmi gli avenenti miei guai, mi persuadete al mio volere, del che per giusta ragione doverci lasciar di amarvi; ma perché detto mi avete di voler esser mio fido sposo, sono sforzata a cangiar voglia. E perché, ritornando a questa ora da mio padre e non credendomi il succeduto inganno, me ne potrebbe sortire peggio di questo, e ritrovandomi fra l'incudine e 'l martello, fra Scilla e Cariddi, e da diversi pensieri assalita, a mio mal grado bisogna condescender alle vostre voglie.
Fulgenzio. O me felice, con queste così cortese parole, ora da morte in vita, signora, ritornato mi avete. Benedico dunque quel felice giorno, quell'ora e quel punto, che tanta soprema beltà mirai.
SCENA DECIMASESTA
Volpone, Pollicinella, e sudetti
Volpone. La pace dei colombi sia con voi, signori.
Pollicinella. E se no chella de le vespe. Trasite a la casa. Che bolite stare tutta sta notte fora come a sportegliune?
Lucilla. Ecco qui l'inganno, con il tradimento accompagnato. E ben, vi par cosa convenevole di avermi usato così gran tradimento?
Pollicinella. Signora sì, perché Vorpone me l'ha nparato e 'ha sbiato con ciente milia promessiune e mai m'ha dato niente.
Volpone. É verissimo, la colpa non è stata mia, signora perdonatemi, ma solo il vedere che se il signor Fulgenzionon vi avesse ottenuta in moglie, si avrebbe per disperazione dato la morte. E per vietar l'inconveniente mi risolsi di ciò fare, e quando ben considerarete sopra questo, che vi pare ora male, lo giudicarete per cosa ragionevole e buona. E qual gentiluomo si potrà aguagliare alli incomparabili meriti suoi, che tanto vi ama e vi sarà consorte, e qui in nostra presenza ve ne darà la fede? E il signor vostro padre, sapendo de l'inganno, vi averà per iscusata e si contenterà del tutto. Dateli dunque, signora, con allegro core la vostra mano in segno di matrimonio, non lo fate più penare, di grazia, poiché è degno di essere amato.
Pollicinella. Sì signora mia, bene mio, se no lo bolite facere pe fare piacere a isso, facitelo pe l'amore mio, ca sempre ve saraggio fedele en votare lo spito e a provare la menestra.
Lucilla. Siete ambo degni di severissimo gastigo.
Volpone. É vero, non lo niego, lo confesso, perdonatemi signora.
Pollicinella. E io pure me ne confesseraggio co l'amice.
Fulgenzio. Signora, non so più che dirvi, solo che in vostro potere sta la mia salute.
Lucilla. Orsù dunque, giovandomi certo di credere ciò, che con tanta passione di animo detto mi avete, e acciò che un perfetto amore debba esser giustamente ricompensato, ecco che son disposta di amarvi e accettarvi per mio carissimo sposo; dichiarandomi, però, che non contentandosi di ciò mio padre, debba esser annullata ogni promessa, e contentandosene mi obligo di dar fine al vostro dolore, né vi debba passare fra tanto tra di noi pregiudizio alcuno circa al mio onore.
Pollicinella. O bona, o bona figliola, bona figliola a fé.
Volpone. Degna risposta di così prudente signora.
Fulgenzio. Prontissimo sarò sempre in obedire, signora, i suoi comandi, e son di tal sorte rimasto fuora di me stesso per la infinita allegrezza della vostra innata bontà e cortesia, che non posso quasi formar parola, per poterli rendere quelle infinite grazie, che io deverei. Però andiamo, anima mia, in casa, dove che diviseremo uniti ciò che far dobbiamo con il padre vostro, e concedetemi in grazia che io vi tocchi quella bianca mano da me tanto amata.
Lucilla. Eccola, signore.
Fulgenzio. Ohimè felice, o me lieto e contento più d'ogn'altro amante, andiamo.
Lucilla. Vengo, signore.
Pollicinella. Bon prode ve faccia, sia nomme di figlie mascole.
Volpone. Andate pure, che amor vi accompagni.
Pollicinella. No aude tu, scanna puorco? Leva la luce da la finestra. O bene mio, e che belle banchetto che se avaranno a fare a la casa nostra!
Volpone. Gran fretta hai tu di far tôr via quel lume, sempre parli di mangiare.
Pollicinella. Fa' chiano, che non te cada a bascio 'sa canela.
Volpone. Non vedi che se' fatto idolatro della tua gola?
Pollicinella. La funa che te npenna, latro si' tu! Te pienze ca no t'aggio pescato ca voi dicere ca son mariulo? So' omo da bene, adomanamello a me.
Volpone. Il Cielo me dia pazienza con costui! Sei omo da bene, Pollicinella?
Pollicinella. Messer sì, vi' commo dico lo vero vi', e saccio responnere all'improviso? Ma mo che me alecordo, dove songo li denare che m'hai prommiso?
Volpone. O se' pur odioso! Ragioniamo di cose allegre, che ne trattaremo poi secretamente in cantina fra di noi.
Pollicinella.Perché nge lo banno a trattarne pubrecamente?
Volpone. É grandissimo da pagare il debito.
Pollicinella. Io a te, o tu a me?
Volpone. Io a te.
Pollicinella. A donca pagalo, se no ca grido forte e te faraggio ire presone.
Volpone.Lo pagherò all'osteria. Andiamo ora di novo in cantina a bere di quel buon greco del tuo padrone.
Pollicinella. Iammo cà a la cantina, nc'è pane e caso cavallo a fiasco.
Volpone. Andiamo, ben che io abbia sonno.
Pollicinella. E io sempre famme. Trasimo.
SCENA DECIMASETTIMA
Squarcia, e Matamoros
Squarcialeone. Signor capitano, il vostro conquistato onore fra generosi assalti, fra diabolico ribombo e fumo di artiglierie, in vece di qual felice fama volarsene al cielo, se ne è fuggita ed è andata ad abitare e a inconcentrarsi nell'infernal abisso.
Matamoros. Señor, si vuestra merced quiere passar con migo donaires, por su vida me lo diga, porque sin pesadumbre pueda sufrir a questas palabras. Como que se ha ido en el abismo, si mi honra, con gloriosa fama con abiertas alas de prudencia y de valor, ya alcanzò volando al quinto cielo y agora hace camarada con el valeroso Marte mi real corespondiente y segunda persona? Y quien ha sido a quel muy gran vellaco, gallina, cobarde, manjadero, que tan enbidioso de mi soberano estado se dexò salir de su pudrida boca tan mentirosas palabras, que le quiero saccar con esta briaresca mano el coraçon del cuerpo y el alma del proprio corazon y la quinta essençia de el alma y luego profundarlo dentro de las negras aguas de Aqueronte?!
Squarcialeone. Sarà ben degno di straggi così crudeli, chi di questo ne dicesse il vero?
Matamoros. No por cierto, pero es muy gran mentira.
Squarcialeone. Signor capitano, io son quello che l'ho detto; e non mento e degno son di lode, dicendo il vero.
Matamoros. La verdad, y como?
Squarcialeone. Dicovi, signore, che non ha molto che io mi ritrovai qui in questo proprio luogo, quando che un amante parlava in strada con la vostra signora sorella, dicendoli che gli avea dato un anello in segno di matrimonio e la voleva condurre in sua casa e io, stando in disparte e ciò udendo, per l'affezione che io vi porto e zelante del vostro onore, benché non potei conoscer l'amante per l'oscurità della notte, m'avventai verso di lui più veloce che saetta, cacciando mano a questa mia trinciatrice, fulgurante, balenante, arcitonatonante tritta busti, per anichilarlo e farlo convertir in fumo. Tosto egli si trasformò in fantasma, che con incredibile prestezza dinanzi a gli occhi mi sparve; e solo ella viddi, che con molta fretta se ne entrò a salvarsene in casa di Fulgenzio, sì che potete chiamarla per acertarvi del vero.
Matamoros. O pena, quien me vestiò? Ahi, desdichado de mi, y es possible esto? Agora quiero, si ansi sarà, hazer una mina por de bajo de la casa y hazer saltar todos hasta al cielo de Saturno! Pero mejor serà que da mi criada sepa mas claramente el trattado como ha passado.
O de casa, o de casa, a quien digo, o là Fioretta passa a cà, vente a bajo con la lumbre.
SCENA DECIMOTTAVA
Fioretta, Matamoros, e Squarcia
Fioretta. Ahimè, che gran strepito è questo! Eccomi, eccomi signore con il lume.
Matamoros. Ah vellaca, vieja hechizera, alcaguera, celestina, endemoniada! Que es de mi hermana, confiessa la verdad, si no que te haré comer esta daga.
Fioretta. Ahimè, ahimè, signor infoderate il pugnale. La signora è in casa, perché me dite questo? Oh poveretta me, ché mi si è scomosso il sangue tutte ne le vene.
SCENA DECIMANONA
Clarice con sudetti
Clarice. Fermatevi signor, che cosa avete con questa povera donna?
Matamoros. Mas con tigo, que con ella la tengo, pues que por tu causa la querìa matar.
Clarice. Volgete in là quella punta e ditemi la cagione del vostro sdegno e furore.
Squarcialeone. Fermatevi signore, udite prima il suceduto caso.
Matamoros. A donde fuestes esta noche? con tu enamorado, deçid la verdad, si no quieres que te passa esta daga por los lados! Presto, acava, declaramelo.
Clarice. Ahimè, che parole son queste? io con l'amante? io fuora di casa senza vostra licenza? Vi siete ingannato, o che state fuora di voi stesso, per la colera forse di aver perduto al gioco. Chi di ciò cerca di infamarmi, si parte dal vero, che non puol esser altro che qualche infame e privo di onore. E molto di voi mi meraviglio, che date così facilmente credenza al falso, ché per pregiudicar il nostro onore mi sarà stata data questa infamia. E se io sapessi chi vi ha questo detto, senza dubio (ancora che donna io sia) con le mie proprie mani gli vorrei cavar gli occhi dalla fronte.
Fioretta. E io con questi denti gli vorei mangiar il naso e cavarli la lingua dalla bocca e con le unghie sgrafignarloutto.
Squarcialeone. Io non li ho detto nulla, signora.
Matamoros. Y como señor, quien me lo ha dicho si no el? Cuerpo de quien me pariò!
Clarice. Lui ve lo ha detto? Ah perfido mentitore, tu lo dicesti? Va' dentro, Fioretta, a tôrmi una spada, ché ben le farò disdire ciò che bugiardamente ha contro di me favellato.
Fioretta. Ah capitano di straccie, ora ti farò fuggire con la mia rocca e ti caccierò il fuso ne li occhi.
Squarcialeone.Fermatevi, signora, state indietro, di grazia. E tu, sgualdrina, va', frega la padella per frigervi dentro la tua lingua.
Matamoros. Deteneos vos otras mujeres, dejen que yo baga por todos la venganza. Para que infamarnos desta manera? Echa mano a tu espada, que quiere darte en alma y en cuerpo al profundo rey de las animas dollentes.
Squarcialeone. Non posso cacciar mano, signore, se non contro di un esercito intiero, lasciatomi per testamento da Massimiliano imperatore. Ma vi prego ben di grazia a dar grato orecchio alle mie parole.
Matamoros. Digalo, que quiere dezir, que todo serà mentira.
Squarcialeone. Conosco, signor capitano, di aver errato, e per colpevole me vi accuso. É vero che l'ho detto, perché così mi parve di aver veduto e udito; è ben vero che non ho udito di lei la voce, né la sua favella, e perciò (senza dubbio) sarà stata altra Clarice. O che io a quel tempo stavo fuora di me stesso, sì ché, signore, vi prego ad avermi per iscusato e perdonarmi di sì grave errore; e se ne ho fatto consapevole a lei, l'ho fatto perché sempre sono stato geloso del vostro onore, e tanto più che ho desiderato per mia moglie la signora Clarice.
Matamoros. Aunque jamas a ninguno perdoné en todos los dias de mi vida, por la mucha amistad que ha sido entre los dos y porque muestra de tenerme tan grande aficion, le perdono.
Fioretta. E io non perdonerò mai.
Matamoros. A que respondes adonde no eres llamada? Mi her mana haviendo entendido la causa de la falta, echa por la culpa de la noche, yo sé que por mi contento ella tan bien serà de mi voluntad.
Clarice. Benché se ne avrebbe avuta a far maggior dimostrazione, tutta via, signore, mi rimetto alla vostra volontà. Però, chi potrà più levarmi questa machia in tanto mio pregiudizio, avendolo egli, forsi, questo conferito ad altri?
Squarcialeone. Io non l'ho confidato né detto a persona veruna, e per più sicurezza di ciò, prego il mio signor capitano a degnarmi di concedermevi per mia consorte, poiché altra grazia non bramo, che servirla come mia degna padrona.
Fioretta. Sta l'importanza se noi vi vogliamo.
Clarice. Madonna no, che non lo voglio, signor no che non lo desidero né mi piace.
Matamoros. Estense calladas ellas, y vayanse en casa, que lo de mas serà todo mi quidado.
Clarice. Vado, signor.
Squarcialeone. Perdonatemi, signora Clarice, vi son servitore.
Fioretta. E noi non vi siamo nulla.
Clarice. Per compiacere al mio signor fratello, pongo in oblio le passate offese. A dio signore. Andiamo, Fioretta, in casa.
Fioretta. Andiamo, signora.
Matamoros. Bamonos señor, que por el camino nos conçertaremos sobre el negotio.
Squarcialeone. Signor, io la ringrazio; però sarei di parere che sarà bene il rimanervene in casa, per essere l'ora tarda.
Matamoros. No señor, que quiero acompañarle hasta a la suya.
Squarcialeone. E io vi racompagnerò qui alla vostra e così anderemo tutta questa notte in giro.
Matamoros. Bamonos por esta callejuela.
Squarcialeone. Andiamo, almeno comparisce un poco la luna, perché glie l'ho ordinato.
Matamoros. Que hora puede ser señor?
Squarcialeone. Appresso alle cinque.
Matamoros. Yo prometo a vuestra merced, que si la luna agora non compareçe, que manaña, antes de las quinze horas, haré que sea salido el sol para su mandado.
Squarcialeone. Lo credo, che prima delle quindeci ore sarà uscito il sole, e comparirà se non sarà ingombrato dalle oscure nubbi.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Scaramuzza, Volpone, e Pollicinella di casa di Fulgenzio
(Séguita la notte)
Scaramuzza. Ahimè, ahimè, non date chiù ca so' muorto!
Pollicinella. Ah bagascia cornuta, iere venuta a la cantina pe arobare lo vino a lo patrone mio? Te sa buono lo grieco, meglio te saparanno ste mazzate!
Volpone. Ah sgualdrina, se' ladra, eh?
Pollicinella. Te' chest'autra mazzata.
Volpone. Ahimè, férmati, ché in vece di dar a lei, mi hai colto in un braccio.
Scaramuzza. Ahimè, ahimè.
Pollicinella. Npara a procedere, guitta cornuta. Trasimmo a la casa.
Volpone. Andiamo.
Scaramuzza. O maro mene, e comme me hanno buono ntomaccato! Me voglio sedere cà 'n terra, ca non pozzo chiù, e quanta mazzate ch'aggio avute sta notte, e chesto ancora nce mancava pe la ionta de lo ruotolo. Chesta cierto è quarche chianeta a me contralia, che m'ha fatto sborzare tante mazzate!
Ma sento venire a gente. Sarà meglio che stia zitto, ché non me venesse aduosso quarche autro frusco de mazze, e puro che non sia de spate.
SCENA SECONDA
Squarcia, Matamoros, e Scaramuzza
Squarcialeone. Non vi dissi, signor capitano, che vi avevo di raccompagnarvi a casa vostra?
Matamoros. Demasciada merced, da el (señor), yo he recevido.
Scaramuzza. Oh comme me fa male sta spalla, me prode, no saccio se è stata mazzata, o se è peduchio che me martoreia alla gagliarda.
Squarcialeone. A noi, signore, ché qui vi è non so chi, che ha detto di esser morto. Se sei morto come tu parli? chi sei?
Matamoros. Da el nombre, a quien digo yo? quien va allà?
Scaramuzza. Io signore. So' no spireto che parla pe arte diabolica.
Squarcialeone. Spirito se' tu? Se da qui tosto non ti parti, ti scongiurerò a forza di bastonate.
Scaramuzza. Sì de grazia, ca sarrìa lo saprimiento de le cronache mei!
Matamoros. Quien eres, decid.
Scaramuzza. Se io l'aggio ditto, quanta vote lo bolite sapere?
Squarcialeone. Se questi è spirito, non ho paura. Innanzi, signor capitano, ché io starò qui in sentinella.
Matamoros. Yo le cedo, señor. Quien està allà? Valgate, barra bas, respondes.
Scaramuzza. Se io non sto 'n cerviello chiste m'acidono, me sbudellano e me smenozzano.
Che bolite da me, io so' Scaramuzza Squaquara Me Meo.
Squarcialeone. Oh putanaccia, e corpo di quanti postribuli ha il mondo! É il mio servo. Scaramuzza?
Scaramuzza. Segnora.
Squarcialeone. Che fai tu qui?
Scaramuzza. Che faccio, faccio l'uovo! So' stato acciso, che boglio fare?
Squarcialeone. Sei tu stato ferito?
Scaramuzza. Segnor no, ma so' stato parichie vote buono amatontato da mazzate.
Matamoros. Y quien te ha dado?
Scaramuzza. Signore no, ca non aggio ioquato a dade.
Squarcialeone. Stai tu in terra? Levati su, drizzati in piede.
Scaramuzza. Vecco ca me so' levato, che bulite?
Matamoros. Es este el creado de vuestra merced?
Squarcialeone. Signor sì, egli è desso.
Scaramuzza. E lassateve dicere ca no m'ha criato isso, ma me ha criato chillo che ha criato a l'autre pe grazia soia.
Squarcialeone. Non vogliamo sapere la tua genologia, ma la cagione e il principio di cotesta tua sciagura. Stai vestito da donna, per quanto mi par di scorgere e toccare.
Scaramuzza. É lo vero, segnore, e me despiace ca non pozzo troppo parlare, perché me moro de famme e de suonno ed è quase iuorno.
Squarcialeone. Parla, ché doppo te ne mandarò a casa a riposarti.
Scaramuzza. Me ne contento, sentite. La prima, e prencepalemente cosa, agiate a sapere (poco manco, e fuorze chiù) che io, illustrissimo signor spagnuolo, che pe l'amore vuostro diete na brava chiatonata a le spalle de messere, o signor Arberto, tentato però da chillo che non pozza mai parere, ma squagliare, commo a cicola de puorco a la tiella, e da Vorpone fui avisato che me vestesse de sta manera, perché lo signore Arberto me voleva far accidere, se io non me fosse sarvato o stravestuto pe non esser canosciuto. E casoalemente venne sta notte nante a la casa de lo signor Fulgenzio, e trovannome a lo scuro, isso e Vorpone, e adomannanome chi era, e io pe no farme canoscere disse ca era una gentile donna, e loro toccannome la faccia me canoscetero pe ommo e me fecero na bona maziata. E io scappai dintro de chella casa vecchia e nce trovai vostra signorìa, signor Squarcia patrone mio, che me abraciastevo, e canoscenome pe omo me facistevo na faccie de secozune. E io ve levai la spata e fuiete a sarvarme a la cantina vostra, signore spagnuolo, dove steva lo signor Arberto, che me abbraciao penzannose che io fosse no saccio chi Clarice, e me deze n'aniello e me voleva fare ire pe forza a la casa soia. E tutto a no tiempo vidde lucere na spata e sentiete na voce dicere lassa 'sa donna, e corenno secutao lo viecchio, e io me ne trasiete a sarvare a la cantina de lo signore Fulgenzio. E cossì, poco da po', scesero Pollicinella e Vorpone a metter lo vino, e, credendose che io fosse stata femena e mariola, me ne cacciarono fora a forza de bone mazzate. E tutto chesto è stato 'n presenzia mia.
Matamoros. Bàlgate la mona Antona! Y todas a quesas desgratias has pasado esta noche?.
Scaramuzza. Signor sì, dateme quarche refregerio, ca sto pe morire e aggio na fame che crepo.
Matamoros. Querìa yo saber porque estava em mi casa Alberto, que si, que era venido con armas de fuego para matarme y dudoso de ser da ti descubierto, porque no me lo hubiesses dicho, fingiò de ser enamorado de mi hermana. Però yo lo be de saber, a pesar de sus barbas.
Scaramuzza. É lo fatto. Ca io manco me vuoze scoprire pe Scaramuzza, che no me avesse acciso pe la chiatonata che le diete. Ve preo, signore, a darenge remmedio, de grazia.
Matamoros. No tengas duda, dejad esse cuidado a mi valerosa persona.
Squarcialeone. A dunque, signor capitano, ora è discolpata in tutto la signora Clarice, poiché io credendomi Scaramuzza lei, e il signor Alberto suo amante, presi, per la oscurità della notte, così grave errore. E già che ve l'ho chieduta in moglie, vi prego a non negarmela.
Matamoros. Yo me contento, señor, bien que no he querido darla al hijo del rey de Suezia, ni al principe de España. Y tengo por siguro que ella se contenterà, mandandoselo yo.
Squarcialeone. Me ne terrò molto aventurato.
Scaramuzza. E se la signora sore vostra sarà mogliere a lo patrone mio, ve prego a concedereme Fioretta, ca staraggio sano e forte de schiena.
Matamoros. Yo te la daré para quitarme tan gran cuidado de casa y tu queres tomar mujer, pobre de ti, porque la quieres?
Scaramuzza. La piglieraggio pe castico de quanto male aggio fatto a sto munno. Orsù, a poco a poco se ha comenzato a farese iuorno e io sto deiuno.
Matamoros. Bamonos, señor.
Scaramuzza. Fermateve, segnor Matamoros, ca me so' arecordato de ve dicere na cosa.
Matamoros. Que quieres dezirme?
Scaramuzza. Sentiteme doi parole tutte dui e stopite.
Squarcialeone. Di' tosto ciò che vuoi tu dire, prima che più agiorni.
Scaramuzza. Signore, aggiate a sapere che quanno Vorpone e Pollicinella (le schiatature de mazze miei) vennero a la cantina de lo segnor Furgenzio, dicevano fra loro che la signora Lucilla, figliula de lo segnur Arberto, contrastava ad auto a la camara con Furgenzio, e che non lo voleva contentare pe fina a tanto che lo patre non se ne fosse contentato de darencella pe mogliere, e che loro l'hanno arrobata a lo patre suio. Orsù buon giorno, ca me ne voglio ire.
(Giorno)
Matamoros. Y tu lo has da ellos claramente entendido y lo vistes?
Scaramuzza. A dicere lo vero l'aggio io propio sentute contrastare da la cantina, nante che loro nge fossero venute.
Squarcialeone. O può far il mondo, gran cosa è questa.
Matamoros. No te partes de aqui, Escaramuza.
Scaramuzza. Che ne volite fare de me, lassateme ire a spogliare sti vestite de femena, ca chiamano le mazzate ciento miglia lontano.
Matamoros. Señor cuñado, armas, armas, siera, siera, contra Fulgentio, porque Lucilla es mia, que yo la pretendo. Toca aquella puerta de Fulgentio. Dejad que la toque yo.
Squarcialeone. Lo chiamerò io.
Scaramuzza. La tozzolaraggio io, tozzolamola tutte. O che avesse a lo manco na sferra! O de la casa.
Matamoros. Vengan fuera los de dentro aqui.
Squarcialeone. Aprite qui, cospettonaccio di Gatta Melata e di Bartolomeo da Bergamo.
Scaramuzza. Spaparanzate sta porta.
Matamoros. O cuerpo de Olimpo y de Tifeo.
SCENA TERZA
Fulgenzio, Volpone, Pollicinella, con sudetti
Fulgenzio. Che battere da motti e da imbriachi è questo?
Squarcialeone. Tu menti mille volte per la putrida golaccia!
Matamoros. Tòmate esta cuchillada, que Lucilla es mia!
Fulgenzio. Prèndeti questo man roverso!
Scaramuzza. E se io avessi spata, te darìa no stramazzone.
Pollicinella. Nonnavimo paura, ohimè, me sento le brache nfose.
Volpone. E io tutto bagnato.
Fulgenzio. Ah traditori assassini, questo a me!
Scaramuzza. Hà hà hà! Cà tutte se ne songo sbignate!
SCENA QUARTA
Lucilla, di casa di Fulgenzio
[Squarcialeone, Matamoros, Scaramuzza]
Lucilla. Ah guidoni, con soverchiarìa a un gentil'uomo di tanto onore?
Squarcialeone. Han fatto bene a fuggir tutti dal furore di questa mia vitrice destra.
Matamoros. Diga, señor, desta desenfrenada y diabolica cuchil ladora, beve sangre. Vèngase acà, señora Lucila.
Lucilla. Andate voi altri in là, discostatevi da questa casa, ché io voglio entrarmene.
Matamoros. O reniego del diabolico rey Maumetan de Bisantia y de la Tracia toda, venga aqui señora. Parecele cosa buena esta? huirse de su padre con Fulgentio y haçer la casta Lucrecia con migo? Con justa raçon ahora quiero vengarme de lo que es de raçon.
Squarcialeone. Obedite, signora, al signor capitano, ché non siamo qui per offendervi, ma servirvi.
Lucilla. Lasciatemi! Obeditelo voi, che volete da me?
Matamoros. Ah señora Penelope, muy casta Diana, aboreçer un cavallero y valiente, qual yo soy, para huirse con Fulgentio! Gran falta es esta que ha echo a su padre y a sus parientes.
Lucilla. Io sono stata ingannata, che volete da me? Non m'annoiate, di grazia.
Matamoros. No podrà ella allarse escusa alguna para defenderse, yo la quiero dar en poder de su padre, entretanto se podrà estar en mi casa con mi hermana. Toca, Escaramuza, aquella puerta.
Scaramuzza. Mo, signor. O della casa, casa, casa.
Lucilla. Vi andarò da mia posta. Ohimè, che sono in poter de' nemici.
Matamoros. Quiero llevarsela yo, pues, que ansì cunple a mi honrada persona.
Lucilla. Questa non è azione di cavalliero, lasciatemi andare, io sono stata, come ho detto, ingannata da Volpone e da un altro. Di grazia non sforzate la mia voluntà, è forsi per vostro meglio.
Matamoros. Yo no lo creo, pero si fuere la verdad, ellos me la pagaran. Toca tu a quella puerta, digo, balgate Satanas.
Scaramuzza. L'aggio tozzolata.
Squarcialeone. Presto, se non vuoi che con un calcio ti manda a incenerirti su la sfera del sole.
Scaramuzza. Non sentite, no? Ehilà, venite abascio, aprite chesta porta !
SCENA QUINTA
Fioretta con sudetti
Fioretta. Ti possono seccar le mani, e che dispietate percosse sono date a questa porta? chi mal anno sei?
Lucilla. Lasciatemi, dico! Che discrezione è la vostra?
Matamoros. Esto no haré por cierto. Llama acà mi hermana.
Fioretta. Ora, signore. Signora padrona, venite fuora per cosa che importa.
SCENA SESTA
Clarice con sudetti
Clarice. Che fracasso è questo? O baccio la mano, signora Lucilla.
Lucilla. Son vostra, signora. Soccoretemi se potete, ch' io son in gran lamberinto.
Clarice. E come, signora?
Matamoros. No quiera ella saver agora ni como, ni porque. Entrese, señora Lucila, en casa con mi hermana, que a hora iré a buscar el señor Alberto y aplacandole yo del sucedido caso, haré que se quede mi esposa; pues que da Escaramuza mi criado hé savido que no han pasado cosa mala con Fulgentio.
Lucilla. Signor, io sono rimasta fuora di ogni mio sentimento, per le cotante mie disaventure, che fra poco in qua la perversa fortuna mi ha fatto correre, che non so che altro dirvi. Solo che vi ricordo che debbiate procedere da onorato capitano, racomandandovi la vostra e mia riputazione.
Squarcialeone. Stiase ella di buon animo, signora, ché il signor capitano non farà per lei cosa inconvenevole.
Lucilla. In ciò che vostra signorìa potrà giovarme, la prego ad essermi favorevole, come io spero che il Cielo sarà propizio per la mia innocenza.
Clarice. E così glie lo prego ancor io.
Matamoros. No faltaré de hacer lo que devo, pues naçi cavallero.
Squarcialeone. E io di pregarglielo. E credete certo, signora, che se imposto mi aveste che io saltato fusse nell'Indie per condurvi tutti quei tesori, senza dubio alcuno fatto l'avrei; a fé d'ammazzatore lo giuro e lo farò per l'avenire.
Scaramuzza. De pulece e de chiatille.
Matamoros. Ea, entre la criada con la señora Lucilla y quedese aqui Clariç, que le tengo de hablar.
Fioretta. Entrate, signora Lucilla.
Lucilla. Vado. Mi raccomando alla vostra clemenza. O infelice me e in che termine mi ha condotta la mia perversa stella!
Matamoros. Toma esta llave de mi posenta y ençierala alli den tro, que no se vaya, que luego yo bolveré. Tened cuidado della.
Clarice. Andate signore, e di grazia siate presto di ritorno, non mi lasciate invilupata in questo intrico.
Matamoros. Ea, bamonos, señor capitan. Vayase ella dentro.
Squarcialeone. Son più vostro che mio, signora Clarice.
Clarice. Ve ringrazio, signore. Vado, signor fratello.
Scaramuzza. E io ve so' schiavo, schiavotolo, schiavone e schiavina, per fin, che schiove, si ben no chiove.
SCENA SETTIMA
Pollicinella e Volpone
Pollicinella. Ah spagnuolo nemico delli macarune.
Volpone. Taci, Pollicinella, ché ho ben udito il tutto.
Pollicinella. Che te ne pare, messere Vorpone, de sta nzalata? Hai ntiso, hai visto, come nce hanno arrobata la femena? Ora come farimo se sto spagnuolo nce accide?
Volpone. Fratello, noi siamo stati in disparte, abbiamo osservato il tutto. Circa dell'esser ucisi, come hai detto, io non temo. Chi ha paura si faccia sbirro.
Pollicinella. Ma se me accadesse, io sarìa aroinato, ca no saccio come se fa a stare acciso, perché non ce so' stato mai.
Volpone. Non mi rompere più il capo, per non darmi occasione di risponderti, poiché sto con la mente tanto ofuscata da diversi pensieri, e del sudetto caso, che non saperei che dirti.
SCENA OTTAVA
Fulgenzio con sudetti
Fulgenzio. Forfanti, infami, indegni di onore, questo insulto ad un par mio!
Pollicinella. Ahimè ca son muorto! Signore Furgenzio, nfoderate la spata, ca non nce aggio corpa niente.
Volpone. Né io, signore. Ohimè, avetela con noi?
Fulgenzio. Con voi?
Pollicinella. Ahimè ca so' speduto.
Fulgenzio. Con voi? e che mi avete fatto? L'ho con l'assassinamento del Matamoros e di Squarcialeone.
Pollicinella. Ahimè, ca non me era restato na livra de sangue dintro a le scarpe.
Volpone. É informato, vostra signorìa, del rimanente?
Fulgenzio. Io no. Di che?
Volpone. Come, di che? Sappiate che il Matamoros si ha tolta a forza di casa vostra la signora Lucilla e se l'ha condotta in casa sua; ed è andato via a ritrovar Alberto, acciò glie la dia per moglie.
Fulgenzio. Ohimè, questo di più! O può far la mia cattiva sorte! E come, non è in casa?
Pollicinella. Signore no.
Volpone. Signor no, né perciò ve disperate, ché per quello, che ho pensato in vostro favore, lo reputo a maggior beneficio, riuscendomi un mio disegno.
Fulgenzio. Perché di grazia, caro Volpone, dimelo tosto.
Pollicinella. Dimelo a me, bene mio, dimello ca po' te voglio dare no bello vuovo, c'ha fatto lo puorco sta mattina.
Volpone. In ogni cosa si vuole intricar costui! Tu ti credi di far bene e fai sempre male. Taci, non mi far disperare, di grazia.
Fulgenzio. Dimme che hai pensato per la mia salute.
Volpone. Io vi dirò, signore, statemi ad udire, però bisogna asecondare il mio umore con il padre di lei, quando li parleremo.
SCENA NONA
Alberto con sudetti
Alberto. Dicesi che la comodità fa l'uomo ladro e la necessità virtuoso e valente.
Volpone. Tacete, ché qui appunto è il padre di lei.
Alberto. E perciò la necessità ha cagionato che se siano portati valorosi i miei piedi e gambe questa notte, per salvarmi della furia di quel drudo di Clarice. Ed è bene che non mi ha conosciuto, sia salvo io, e del rimanente vada alla peggio! Ma che averà detto Lucilla, che io non sono andato questa notte a riposarmi a casa, e che dirà, vedendomi in questo modo vestito?
Volpone. O Signor Alberto, bon giorno. Udite, udite, di grazia.
Alberto. O te ho da dir di bello, dove è la mia veste?
Volpone. É in salvo. Non è tempo di cercar veste, ma di trattare cose di maggior importanza.
Alberto. Ahimè, sopra di che?
Volpone. Di vostra figliuola. Io son quasi morto di stanchezza per cercar di voi con il signor Fulgenzio.
Pollicinella. E io per zi', per vita mia.
Volpone. E lui ancora! Sempre costui risponde dove non è chiamato.
Fulgenzio. Signor sì, è vero.
Pollicinella. Non è buscìa pe cierto, ca l'affermo io.
Volpone. É vero, ché lo afferma Aristotile.
Alberto. Dimmi, è cosa appartenente al mio onore? Dimelo pure, affretta la lingua.
Volpone. Di grazia, la mi perdoni il mio signor Alberto, se, fuora del suo e mio decoro, con lei ragionassi cosa che poco grata vi fusse, senza offesa però del vostro onore.
Alberto. Di' pur, di grazia, non mi tener più suspeso. Che sarà mai questo?
Volpone. Già ben saper dovete che tre sorte di persone sono odiose e insoportabili al mondo: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio lussurioso.
Alberto. Che vòi dir per questo? Fenisciela.
Volpone. Voglio dire che è molta stoltizia la vostra, perdonatemi, poiché andate così in volta tanto di giorno quanto di notte per la città, e forse per amore; lasciando la vostra casa ad arbitrio di fortuna, dando occasione che vi sia rubbata la vostra figlia.
Pollicinella. Sì sì, ha ragione Vorpone, vosorìa è no bestiale.
Alberto. Come, rubbata mia figlia? Ohimè, ohimè, dunque mi è stata involata Lucilla? e da chi? Dimelo pur tosto.
Fulgenzio. É verissimo, signore, e con molta potenza.
Alberto. E chi me l'ha tolta? O povero Alberto!
Volpone. Dirovi signore, e in breve se potrò. Sappiate che il capitan Matamoros se ne è venuto con una squadriglia di soldati e con molto empito e furore è entrato a forza in casa vostra e di peso se la ha portata in braccio nella sua.
Pollicinella. E pe tale segnale, l'è scapato no pidito, pe la forza che faceva la povera signora.
Volpone. E ritrovandovisi il signor Fulgenzio, per salvezza del vostro onore volendoli porgere aiuto, il predetto spagnolo con suoi soldati l'assalirno malamente, e se noi non ci salvavamo saressimo stati spediti.
Alberto. Oh misero Alberto, oh infelice mia figlia, oh onor di casa mia! Ohimè, che moro di doglia! E come potrò più comparere tra li amici, che non sia infinite volte da loro mostrato a dito? ù ù ù, povero vecchio, questo d'udir ti mancava all'ultimo de gli anni tuoi!
Volpone. Non vi disperate, signore, udite il pensier mio, che vi sarà molto giovevole in questo proposito, e prendete il mio buon consiglio, ché chi ben si consiglia al ben si appiglia.
Fulgenzio. Ben dice Volpone. Uditelo, signore.
Pollicinella. É lo vero, signore, ca chisto è no nbroglione.
Volpone. Per tutto mi cacci la lingua, taci, in tua mal'ora!
Alberto. Che profitevol consiglio potrai tu darmi, se già il mio onore si è trasformato in vergogna?
Volpone. Il consiglio è questo, ma prima che ve lo dia, vi prego a perdonarmi di qual si voglia offesa che io vi avessi fatta in qual si voglia modo.
Alberto. Non mi son mai tenuto da te offeso, né ora me ne tengo, però mi contento, pur che il consiglio sia buono.
Volpone. Sarà benissimo, datemi grato orecchio. Concedete la signora Lucilla in moglie al signor Fulgenzio, ché come tale la ricuperaremo, ché lui vi difenderà e vi aiuterà con ragione, e vi serviremo tutti. Ora, che il capitano non è in casa, entraremo (se così vi pare) e a forza romperemo le porte e la conduremo in casa vostra, e doppo anderemo alla giustizia tutti uniti a querelarlo, ché io con Pollicinella ci esamineremo in favor vostro, e che l'avevate data prima al signor Fulgenzio.
SCENA DECIMA
Lucilla alla finestra del Matamoros
[Alberto, Pollicinella, Volpone, Fulgenzio]
Lucilla. Ahimè, signor padre mio, datemi aiuto, ché il Matamoros a forza mi ha condotta e fatta serrare in questa camera sua.
Alberto. O cara la mia figliola, non temere Lucilla mia, vedi se puoi aprir la camera, ché ora ti daremo aiuto.
Lucilla. Vado signore, ma non la potrò aprire senza il vostro potere.
Pollicinella. Non aggiate paura, ca si farrite sto matrimonio, lo cielo vi aiuterà, signor Arberto mio bello.
Volpone. Datevi la mano come parenti.
Alberto. Eccomi pronto, se egli se ne contenta.
Volpone. Signor sì, so che se ne contenterà.
Fulgenzio. Ne son contentissimo. Vi tocco la mano come genero, signore.
Pollicinella. E io me ne stracontento.
Alberto. Ve ne do la fede.
Fulgenzio. Più grato suono di questo non mi poteva venire nell'orecchio.
Alberto. Dunque Lucilla è vostra, e come tale la difenderete.
Fulgenzio. Signor sì, entriamo tutti.
Pollicinella. Trasimmo.
Volpone. Piano, animo e coraggio! Dentro, può far il mondo!
SCENA UNDECIMA
Scaramuzza solo
Scaramuzza. Ancora me fanno male le spalle de tante mazzate che aggio avuto sta notte passata ! E se non me levava da duosso chillo vestito de femena, ancora sarìa mazziato, perché era calamita de tutte le disgrazie. Ma che me porà fare mai chillo viecchio, se aggio dui brave smargiasune e dui liune da la mia? Che gran remmore è chisto che sento dintro sta casa de sto spagniuolo?
SCENA DUODECIMA
Clarice, Fioretta e Scaramuzza
Clarice. Oh misera Clarice, e che poco rispetto portano costoro a mio fratello e a me?
Fioretta. Sì sì, di questa maniera scassar la porta? E dove è ora il signor capitano?
Clarice. Sì eh? questa discortesia? Ah, traditori, in casa di un capitano di tanto merito usar tal violenza!
Fioretta. Aiuto, qui vicini, aiuto!
Scaramuzza. Che remmore è chisto? Ehilà ! Piglia, para, tiene, accide, squarta, e cata piezze.
Clarice. Dagli, Scaramuzza mio caro, va' dentro, uccideli.
Scaramuzza. Quarche aseno ce ierìa, sto a la larga.
N'aggiate paura, signora.
SCENA DECIMATERZA
Volpone, Pollicinella, Alberto, Fulgenzio, Lucilla, con sudetti
Volpone. Ah, becconaccio, che vuoi tu di qua? To'.
Scaramuzza. Ahimè, ca so' muorto, m'ha rotta la capo co no pignato.
Pollicinella. Sta a la larga, figlio de na scrofa cornuta.
Fulgenzio. Non temete, signora consorte, andiamo in casa vostra.
Alberto. Sta' pure allegra figliola, non dubitare, andiancene in casa.
Lucilla. O signor padre mio da me tanto amato.
Volpone. Tutti, tutti in casa del signor Alberto, andiamo, andiamo.
Pollicinella. Trasimo, trasimo, a dispietto de chillo spagnuolo.
Clarice. In tal modo si procede? Dovete ben saper tutti, canaglia, che il mio fratello non lascierà invendicato così fiero oltraggio.
Fioretta. No no, che non lo lascierà, forfantoni. Entriamo, signora. Scaramuzza, va' di grazia a ritrovare il signor capitano e narrali così strano successo.
Clarice. Sì di grazia, va' in fretta, entriamo noi.
Scaramuzza. Iaraggio, signora, lassate fare a me.
(solo)
Brava pignatata, e non m'ha rotta la capo, perché aggio lo caruso tuosto a botte de mazzate.
SCENA DECIMAQUARTA
Matamoros e Scaramuzza
Matamoros. Pues, que se pensava Fulgentio de ganarla con migo. Yo soy grande amigo de hombres valerosos, y enemigo de cobardes, pero me la pagarà.
Scaramuzza.Schiavo, signor capitano, ben state allegramente.
Matamoros. Sì que estoy allegre, pues que he dado la fuga a los enemigos y tenida la vittoria de la hermosissima Lucila.
Scaramuzza. Orsù, non ve pigliate colora, agiate a sapere che Furgenzio, Vorpone, lo signor Arberto e Pollicinella so' trasite pe forza a la casa vostra, e ve hanno arrobata la signora Lucilla e l'hanno portata quase de pesolo a la casa de lo patre, e nce l'ha data pe mogliere; e le poverelle femene vostre de paura hanno avuto a morire.
Matamoros. O maldita sca mi mala desventura, desta manera ha suçedido? Y tengo yo de sufrir de estos vellacones un tal agravio? Juro por la grandezza de mi serinissima persona y muy alto linaje, que ellos me lo ha de pagar. Y que tengo tan malamente de perder la muy hermosa Luzila, aquella, que es la resplandeçiente lumbre de mis ojos, la llama de mi coraçon, el ardor y encendio de mi alma, aquella gran lumbre que çentellando saca ya roja los claros rayos del proprio nombre que da resplandor a las estrellas fixas de mi fee y a las errantes de mis pensamientos. No lo quiero çufrir, pues que a elle mas que a mi vida quiero y el agravio ha sido muy grande. Ea, armas, armas, sierra, sierra, agora seran todos muerto de mis poderosas manos.
Scaramuzza. Signore, non vi fidate di me, ca me ne sbignio.
Matamoros. A picarones, a cabrones, a sucios, salgan todos aqui fuera, que os tengo de matar.
SCENA DECIMAQUINTA
Volpone alla fenestra con sudetti
Volpone. Che cosa vòi, misser Scaramuzza, castrone di Foggia?
Scaramuzza. Asano de terra de Otranto, voglio lo guaio che te stoca co la forca che te npenna!
Matamoros. Baxan aqui todos, que os tengo de matar y quiero haçer notomia de vos otros y de las estrañas cuerdas para mi ghitara.
Volpone. Mi darete de la lingua dove manca la pella.
Scaramuzza. A baiasso cane, cheste parole se diceno a l'acedetore, a lo scanatore e a lo npenetore de l'uomene?
SCENA DECIMASESTA
Fulgenzio da la fenestra con sudetti
Fulgenzio. Signor capitano, se non fusse che io non voglio perturbare le mie nozze, né la mia cara sposa Lucilla, io ho ben modo da potervi far cagliare. La signora Lucilla era di già stata a me conceduta prima dal padre e non occorre che più la pretendiate, partitevi di costì, perché doppo fra di noi bilancieremo il tutto.
Matamoros. Venga a baxo, digo, que le haré conoçer mi gran valor.
Scaramuzza. Lassatelo dicere, signor Furgenzio, non ce venite, si ben io ve desfidasse! Venite cà fora, ca ve voglio accidere.
Fulgenzio. Non mi voglio rompere il collo con voi altri. Andate pur via, ché sarà meglio per voi.
Matamoros. Venga a baxo, digo, gallina mojada.
SCENA DECIMASETTIMA
Fulgenzio si ritira. Alberto a la finestra, con sudetti
Alberto. Che rumori, che bravate in credenza, mi assembrate il cane, che abbaia alla luna. Che volete di qua? Abbiate creanza, ché oltre che vi faremo fuggire, ne sarete castigati dalla giustizia, e questo vi basti.
Scaramuzza. Lo viechio se n'è trasuto, iammoncenne, signor, ca sarà meglio pe nuie.
SCENA DECIMAOTTAVA
Pollicinella a la finestra
[Scaramuzza, Matamoros]
Pollicinella. Chi dice chesso che dicite vui, e de chello che no volimmo dicere nui, pe coprire l'embroglie nostre, lo dice fauzefecatamente, e te ne miente petrosine, maiorana, pepe, e zafarana, mile vote pe la canna de la gola e goletta, tiri tirisetta lo trapana e barletta.
Scaramuzza. Scinne cà a bascio, musso de puorco sarvateco, naso de papagallo!
Pollicinella. O capile de furia infernale, fronte de maglio ferrato, ciglio de sanguinaccio arostuto, uocchi de taratufole nfracetate, naso de mutillo de pezzente, aurecchie de scorze de nuce, diente de cane aragiato, lengua de spirito diabolico, voca de infierno, canna e cuollo de cestunia, spalle de mazzate, pietto d'aseno mardato, vraccia de npisso, stomaco de sturzo, panza de lupo menale, culo di scignia, gamme de ancora de nave, piede de arpia, che buoi da me, va lava le scotele, ca lo spagnuolo mangia ravanelle.
Scaramuzza. Ah figlio de na gran potana bagascia zelosa, e de ciento millia cornutune, etzetera, etzetera, ca no l'azetto 'se ngiurie, ma le metto dintro a no sacco de corne e te le rebatto 'n capo e 'n faccie a dispetto tuio.
Pollicinella. E io te le torno a rebattere e ne faccio no presiento a sto spagnuolo, calamita de pormonate e vesicate.
Matamoros. Ahi de puta vellacon, rudo animal costal, lleno de paja podrida! A mi tan malas palabras? a mi esto?
Pollicinella. A te, chesto. E miente ciente millia milliune de vote de 'se ngiurie che hai dito a tutte nui; e me confido e boglio fare a cortellate con tico, a mazzate, a pretate.
Matamoros. A guardame, oygame, no te vas de aquessa ventana.
Pollicinella. No sto con tico. Che buoi da me sentire chiù chiaro lo prociesso de li fatte tuoie? Adonca sienteme e spila buone, se ha urecchie, tu che me fai lo valente, lo sapio, e lo poeta, e lo cantatore co la chitariglia.
Matamoros. Que quieres dezir por esto, cabron?
Pollicinella. Sienteme e crepa, sto sonetto de lo cavaliero Marini, figlio d'Apollo e nepote de le Muse, perché è fatto pe te.
La pecora belanno fa be be
lo cavallo anechianno fa hì hì
lo grillo grisolanno fra grì grì
e lo puorco grugnanno fa grù grù.
Lo lucaro veglianno fa cù cù
cantanno il gallo fa chi chi ri chì
pigolanno il pulcino fa pi pi
e abbaianno lo cane fa bù bù.
La papera stridenno fa pà pà
la vocola fa spisso ancor cò cò
la gatta maulanno fa mià mià.
Lo cuorvo crositanno fa crò crò
e l'aseno araglianno fa hì hò
e tu cantor di chiachiere di' mo.
Dimello priesto e chiaro per tua fé
quale è lo vierzo che convene a te
dime lo vero e non me lo negare
ch'aseno si' e l'aseno sai fare.
Matamoros. Mirad, vellacon, porque te has descubierto por tan temerario y atrebido y que has dicho de querer pelear co migo, yo me contento por no pareçer que yo tenga miedo de ti. Te deafio a pelear co migo al estecado, con espada sola o como quieres.
Pollicinella. Io non voglio palleare con tico, ca no aggio voglia de ioquare.
Scaramuzza. E, figlio mio, tu no lo ntienne! Non dice de palleiare co la palla, peleare se ntenne commattere, a lengua soia.
Matamoros. Sì que quiero auchillarme con tigo.
Pollicinella. Ora mo sì ca t'aggio entiso. Non voglio comattere con tico, ca non si' pare mio.
Matamoros. Y por que tu eres de tan baxa condicion y yo de tan alto linaje y por esto te hago noble y caballero, y an sì seras mi igual.
Pollicinella. Che, che, che?
Matamoros. Callate, digo, que eres un nezio.
Pollicinella. Non mi chiamo Adezio, me chiamo Pollicinella.
Scaramuzza. E ca dice ca si' ignorante e no vozzachio. No responere chiù, siente chello che te dice.
Pollicinella. Pozza dicere tanto, che pozza crepare comma la cecala.
Matamoros. Quiero como te he dicho entrar con tigo a la estecada y por esso te doi la noblezza.
Pollicinella. Ora buona, io t'aggio ntiso; però corno volimmo commattere?
Matamoros. En camisa.
Pollicinella. Como 'n camisa, s'io sacio ca non hai camisa e puorti dui fuoglie de carta straccia, uno allo stomaco, e autro alle spalle, co lo collaro ntonato.
Matamoros. No quiero responder eri tantas tus desconçertadas palabras, pelearemos armados con dos espadas sencillas, sin dagas, ni broquelles.
Pollicinella. E chi cavaliero m'aggio da chiamar, po' che me avite fatto nobile?
Matamoros. El cavallero Biscaino.
Pollicinella. Buscaino si' tu, ca busca le borze lo iuorno, e li feraiuole la notte! Azzetto la desfida, e nante che se faccia notte, voglio scrapicciarme con tico armato a gusto mio.
Matamoros. Me contento.
Scaramuzza. Avertiscie ca hai azetato la disfida.
Pollicinella. Messersì, mo pe la posta vao a mangiare, perché se aggio da morire, voglio morire abotato de menestra.
(Pollicinella si ritira, gli altri rimangono)
Scaramuzza. Signor capitanio mio, perdonateme, io non ce sto troppo buono co sta desfida. Che cosa nce porite avanzare con un sciaurato com'a chillo.
Matamoros. Yo lo hago mas por mi gusto, que por otra cosa. Para poder deçir que con todas suerte de personas me he querido pelear, que no queriendose acuchillar con migo Fulgentio, ni Alberto por ser viejo; y para hazer conoçer a Lucila que yo por su causa pongo mi vida en peligro, quiero hazer esta battalla. Bamonos.
Scaramuzza. Iammo signore dove ve piace.
SCENA DECIMANONA
Pollicinella da dentro la casa di Alberto, con sudetti
Pollicinella. Scaramuzza, Scaramuzza.
Scaramuzza. Fermateve, signore, ca non saccio chi me chiamma, me ha parzo voce de femena. Chi è là, chi me chiamma?
Pollicinella. Sono quella infelice di Lucilla, che ama al par de gli occhi suoi il signor Matamoros, e voglio fugirmene seco.
Matamoros. O là EScaramuzza, mirad, que Lucila es venida a bajo, y està (si mal no he oydo) de tras de su puerta. Hablale, que yo estaré aqui de guardia.
Scaramuzza. Signora Lucilla.
Pollicinella. Che vòi? Ascoltami un poco per questo buco una parola, ché non voglio esser veduta fuora di casa a ragionar teco, fatte più in qua.
Scaramuzza. Vecome cà a sto pertusso. Ve ne volite fuire co lo signor capitanio?
Pollicinella. Sì, accòstate.
Scaramuzza. M'accosto. Ohimè l'uocchie, ca so' cecato!
SCENA VIGESIMA
Pollicinella e sudetti
Pollicinella. E ca so' stato io, ca t'aggio schiafato sto cannuolo de farina a l'uocchie! Ah ah ah!
Matamoros. A ladron, bien me la pagueras.
Scaramuzza. Ahimè, ca non ce veo caminare.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Alberto, Fulgenzio, Volpone, e Pollicinella
Alberto. Non v'ha dubbio alcuno che più offender suole la puntura de l'amico, che la gran ferita dell'inimico. Il Matamoros era egli prima di tutti noi altri amico, e ora, con la sua importunità e ambizione, ne ha tutti offesi e ne è divenuto nemico, senza averne profitto alcuno.
Fulgenzio. É vero, signore, che abbiamo a far noi sopra di ciò, se non in tutto, in parte andar sopportando con prudenza questo suo bestial umore. E credetemi che se in tal maniera io non lo avessi sopportato, che o lui o io saressimo rimasti privi di vita, però ho giudicato di esser bene a lasciarlo così distruggere da sua posta, e rodere come la ruggine il ferro; per la molta invidia che egli tiene del nostro felice acordo.
Volpone. Attendiamo noi a fare il debito nostro, e del rimanente lasciamo operare a la Fortuna. Già, mercè del Cielo, siamo giunti a sicuro porto, non occorre più di altro dubitare.
Alberto. É vero, ma non bisogna por la speranza sovra la instabil ruota della fortuna, che in un punto ti volge il tergo e ti abandona, con una mano ti dona con l'altra ti toglie, con un piede si avanza e con l'altro si allontana, con voce umile ci chiama e con altiera ci discaccia. Dico a proposito che bisogna star ben sora di sé con questo capitano, perché sempre va in compagnia di persone di mal affare, e molti traditori abbondano.
Fulgenzio. Signore, il consiglio vostro è buono ed è lodabile a porsi in opra.
Pollicinella. Ogn'uno parla, sparla e contra parla, e dapo' torna a parlare, e de me pover'ommo mai se parla. Come aggio da fare pe no commatere co isso, si me ha desfidato, e io aggio azzetata la desfida; e né de commatere, né de scrimiare ne saccio spagliocca.
Fulgenzio. Mi meraviglio di te, che ti spaventi di colui che non vale un zero tra gli uomini.
Volpone. E signor Fulgenzio, ha ragione il poveraccio, poiché non è bene informato chi egli si sia.
Pollicinella. Commo si sia, io creo ca sa sciare e boccare, ma non vo' commattere co lo rimmo , ma co la spata a lo stecato; ca cossì ha dito da sulo a sulo.
Volpone. E che io non parlo di remi, né che sia, né che voga; dico che tu non sai che quello è più bravo di parole che di effetti.
Pollicinella. No me ne curo che isso aggia defiete, che ne voglio fare? Ma diceno la gente ca smerza l'uomene commo a le stivale; è lo vero? Ca no smerzasse a mme como a cammisa, ca nce parerìa brutto e la gente me farìano la baia pe la terra.
Alberto. Ti pare che questo abbia del verisimile? Egli è uno eloquente parabolano, e dicono le persone che questo sia un certo suo umor melanconico, come è quello ancora di Squarcialeone, che vogliono esser stimati per quelli che non sono.
Volpone. E non, signore, che volete dire Squarciapecore, e non leone.
Pollicinella. O piecore, o puorce, o asene, signure chesto a me no me nporta: ma aggio paura de esser acciso contra voglia mia, e no ce so' ausato.
Fulgenzio. Orsù, Pollicinella, non dubitare, combatti pur di buon cuore, perché essendo vincitore, come che indubitatamente sarai, tutti ti chiameranno il vittorioso cavalier Pollicinella, e sarai amato, pregiato, riverito e onorato, non solamente tra gli uomeni volgari, ma tra' più dotti, e tra' prencipi, e da tutto il mondo, e ti faranno pasti con esquisitissimi cibi e preziosi vini, e chi ti chiamerà di qua, chi di colà, e te diranno: «E ben signor Pollicinella, come passò quel gran fatto di arme tra vostra signorìa e il signor capitan Matamoros».
Pollicinella. Chesto sarìa quanno che io restasse guadagnatore, ma se isso me venciesse, senza ca m'accedesse, chi mi darìa manco lo buon giuorno? Anze che, chi me darìa no punio da cà, chi no secozzone da llà, chi na scopoleata, chi mazzate, chi cauce a lo tafanario, chi promonate 'n faccia, e chi tripate allo musso de sette sapate.
Volpone. Del rimaner perditore non dubitare, ché lui è timido e si spaventerà di te; oltre ciò, che noi ti staremo tutti da presso armati, che conoscendo che lui ti avantagiasse di valore, saressimo pronti al difenderti al suo dispetto; sì che in tutti i modi ne sarai il vittorioso.
Alberto. Sì che hai bene inteso, dunque animosamente alla battaglia, se vorrai esser posto nel numero de' valorosi campioni e paladini antichi.
Pollicinella. E io me sento debole e non poraggio commattere.
Fulgenzio. Nulla temere, perché prima che entrerai nel marziale aringo, sarai ben confortato.
Pollicinella. Avertite ca no me piaccino le arenghe.
Volpone. Allo stecato, ha detto. E sarai prima ringagliardito con la sostanzia di buoni caponi, galline, lasagne, pasticci, pollastri arrostiti e maccaroni caldi caldi.
Pollicinella. A fé per vita toia? Ma che non siano tanto caude, che me cocano la vocca.
Volpone. Non dubitare, certissimo lo vedrai in effetto.
Pollicinella. Adonca si farà così: io me resorvo e despongo de commattere non sulo co isso, ma con ciente de li pare suoie. Ah mariuolo cornuto, ah spagnuolo figlio de quatuordece putane, iesce cà, ca me te voglio gliotere sano como a macarone sodunto.
Alberto. Questa è una bravata fuora di proposito, bisogna aver fatti e non parole.
Fulgenzio. O sarebbe ridicolosa che costui chiarisse quel capitano, che per altro io non lo fo che per fargli calar l'orgoglio.
Volpone. O sarebbe da ridere che l'asino si mangiasse il lupo! Orsù, signori, non perdiamo più tempo, andiamo da un mio amico armaruolo, per farlo armare a suo modo. Viva viva il cavalier Pollicinella!
Alberto. Andiamo. Ma che viene a far colui così in fretta alla volta nostra? Aspettiamo, di grazia, un poco.
SCENA SECONDA
Scaramuzza con sudetti
Scaramuzza. Fermateve, segnure, ascotateme chello che v'aggio a dicere.
Pollicinella. A te puro voglio sbodellare, smatricolare, scannare, scortecare, desossare, squartare e sbufarare.
Scaramuzza. Si arcuno de vuie autre signure fosse stato offiso da me, ve preo che me perdonate e tanto chiù lo dovite fare quanto che, commo amasciatore de lo signore capitanio Matamoros, vengo a darve sto cartiello, che desfida lo signore nobele e illustrissimo Pollicinella alla battaglia.
Fulgenzio. É il dovere che non debbiate da noi esser offeso. Mostrate il cartello.
Scaramuzza. Pigliate, signore, aspetto la risposta.
Fulgenzio. Orsù, che si legga. Voletelo leggere, signor Pollicinella?
Pollicinella. Come piace a vui, signore. O pover'ommo me, e a che so' areduto.
Alberto. Avete imparato di umanità in scuola, o avete letto in casa?
Pollicinella. L'aggio a la casa, ma lo patrone mio me fa sempre dormire in coppa a no saccone de paglia. Perché l'adomannate?
Volpone. Tu non intendi. Dice se hai letto, se sai leggere, se hai mai leggiuto, come te l'ho a dire.
Pollicinella. Se io saccio leiere? Non saccio, ma provarragio.
Fulgenzio. Ti proverai? Come, ti proverai, hai saputo mai leggere?
Pollicinella. Signore non aggio mai leiuto, perché patremo no me manao mai a la scola, e perzò non saccio leiutare, ma chi lo sa se ne sapesse quarche poco? Mostra chisso cartiello.
Fulgenzio. To', leggilo, se sai leggere.
Pollicinella. Ca ca, co co, bi bi bò, bu bu, trista è mamata, e peo si' tu.
Alberto. E leggetelo voi, signor genero mio, non odite che egli non sa ciò che si dica.
Fulgenzio. Mostra qui, damelo.
Pollicinella. Te', pigliatelo.
Fulgenzio. State bene attento ad udire, signor Pollicinella, perché vi importa la riputazione e la vita.
Pollicinella. M'avite frusciato con tanta repotazione, me nporta chiù la vita che autro.
Fulgenzio. (qui legge)
«Yo, el gran capitan Matamoros ganavanderas, horrible, terrible, increible, tremendo, estupendo, horrendo, animoso, valeroso, espanto de Marte y de la Muerte, sobrino de Belona, nieto de la fortuna, naçido y criado dentro del gran baratro enfernal, entres los diabolicos gritos de Pluton, Mijera, Tesifone y Eletto, notrido y sustentado de sangre humano, arcecavalleraço de Espaa, destruydor de campos enemigos, rompedor de exercitos, deribador de castillos, conquistador de reynos, temor de imperios, vencedor de batallas, pariente del Soffi, señor del Eteopia, tributado dal turquo, dal persiano y dal grandissimo Lucifero, sostancia y bravezza dela guerra y plus ultra, mas allà de todo el mundo, sessenta mil millones de leguas; desafio el noble Pollicinella a pelear con migo, armado de la manera que a el fuera de gusto, antes que el claro sol se vaia dentro del oceano y todo lo hago por mantenerle que lo que de mi ha dicho es muy gran mentira».
E ben, signor Pollicinella, avete ben udito la disfida?
Pollicinella. Parte sì e parte no.
Fulgenzio. Che ve risolvete di fare?
Pollicinella. No saccio, ca me scomuosso lo cuorpo. Vedite, per vita vostra, se lo potessivo accordare, accomodare sta cosa con dareme isso da cordio cinquanta carcacopole e tricento secozzune.
Volpone. O bello onore, che ne sarebbe a tutti noi! Non ti vergogni di lasciarti uscire queste parole di bocca?
Alberto. Ah, Pollicinella, e dove è il tuo bel animo generoso, il tuo valore, il tuo ardire, il tuo elevato ingegno?
Fulgenzio. Animo, Pollicinella mio, non mostrar viltà, aricordati de gli amici, e di principi, e di quegli che per la tua virtù e vittoria ti chiameranno, ti accarezzaranno, ti inviteranno, e più, che i macaroni con la carne ora per te si apparecchiano in cucina, ti chiamano e te invitano in compagnia del greco e invitano all'armi, all'assalto e alla vittoria, alla gloria e alla fama.
Pollicinella. Avite ragione, pota de mene, dateme sto cartiello. To' to' to'! Ora va' e di' a lo spagnuolo ca men'aggio stoiato lo tummentienne, e ca me l'aggio puosto sotta a li piede, e che mo le voglio mannare no contra cartiello nfamatorio scritta 'n carta straccia, acatata a lo funneco de lo Cetrangolo de Napole.
Volpone. O bravo Pollicinella, o che valent'uomo, o buon soldato.
Fulgenzio. Sì certo, non si può negare.
Alberto. Non v'è dubbio, è sicuro.
Pollicinella. Va' tu, Scaramuzza Me Meo, muzzo de stalla, striglia cavalle, va' alla cantina, e curre 'n cucina, e dille da parte mia a 'so spagnuolo, nemico de la carne de puerco e delle sauciccie arostute, ca no lo sommo na iota. Iamo a solecetare che se coccano priesto li macarune, ca me voglio armare allegramente da dintro e da fore.
Scaramuzza. Io vao, ma de 'se chiachiare me ne rido, o pover omo te, e pe la canna te fai pigliare, mo nce lo vao a dicere.
Pollicinella. Dille ancora ca è no truffa paga, e ca non è vero spagnuolo, ma di chille matane descacciate da Spagna. E tu va', mieteme li puorce a li cetrule, cornuto sbrufa papa.
Alberto. A fé, che tu gli hai risposto meglio che per le proprie rime.
Volpone. O bene, o bene, ti se' portato da paladino.
Fulgenzio. Andiamo qui in casa d'un mio amico per scrivergli il tuo cartello, ma che sia da te dettato e ti faremo armare.
Pollicinella. Sopra a tutto che nge sia caso piacentino assai e burro sopra li macarune.
SCENA TERZA
Matamoros e Squarcia
Matamoros. Ya enbié mi carte a Policinela, por el criado de vuestra merced, no sé lo que havrà soçedido.
Squarcialeone. Certo, signore, che molto dispiacemi che per umore e capriccio ella volle con persona così di bassa condizione combattere, e por la sua vita e il proprio onore in compromesso.
Matamoros. Señor, lo hago por que soy tan deseoso de haçer al mondo conoçer que con qualchiera suerte de hombres he querido venir a battalla, y tanto mas que el fue el primero que me desafiò y serà muy gran verguenza la mia en faltar de açello y estoy mas contento que si hubiera de venir a iornada con el muy valeroso monsiur de Chirichì, verdadero y gran paladino de Françia, pero con todo esto, yo le doy este titolo de cavallero, aun que no lo sea.
Squarcialeone. Sia pur come ella dice, signore. Bastami che, come vero amico e cognato, senza adulazione gli abbi notificato il mio parere, perché da un soldato de' nostri se avrebbe potuto far dare una gran carica di bastonate e sarebbe stata finita la cosa.
Matamoros. Ya està concluydo y me serìa de mucha verguenza el dejarlo de haçer.
SCENA QUARTA
Scaramuzza con sudetti
Scaramuzza. Signore, io aggio fatto lo servizio. Pollicinella ha fatto leiere lo cartiello e dice ca no ve stimma niente, l'ha stracciato e se n'è iuto ad armare dicenno ca ne voleva mannare n'autro a vosegnorìa.
Matamoros. Y no se ha espantado de mi valorosa persona y de mi gran valor? Juro por la fuerza del grande Alcides, que el primero golpe que le tengo de dar en la cabeça y de hazerle saltar los ojos por de dentro de los agujeros de las nariçes. Vete corriendo a mi armero y dile que me tenga a preçevidas las armaduras, y que el estoque sea mas reluciente de los rayos del sol, porque quando alçaré por darle la cuchillada, quiero que el resplandor le quite la vista y lo dexe confundido y fuera de si.
Squarcialeone. Presto, corri più che il vento, servi il signor capitano.
Scaramuzza. Facite cunto che sia iuto e tornato, vecome cà.
Matamoros. Ea, corras, vete en hora mala, que aguardes?
Scaramuzza. Mo, signore, a la bona ora, vao.
SCENA QUINTA
Volpone, Matamoros, e Squarcia
Volpone. Tuttavia Pollicinella si va armando.
Matamoros. A picaron, a qui estas? Tu cabeça es mia.
Squarcialeone. E questa gamba è mia.
Volpone. Ahimè, che sarà questo? Infoderate, signori, le vostre armi e facciamo tregua per due ore, perché vengo come ambasciatore del signor Pollicinella, e questa carta viene a vostra signorìa, signor capitano Matamoros mio signore.
Matamoros. A mi? es carta del emperador?
Volpone. Signor sì viene a vostra signorìa, ma non viene di Alemagna.
Matamoros. Detengase señor, que se envainan las espadas.
Squarcialeone. Ecco che la ritorno al suo loco, per la salute del genere umano.
Matamoros. Es papel de España, de Fiandres o de Constantitinopola?
Volpone. E non, signore, è un cartello a vostra signorìa, mandato dal nobilissimo signor Pollicinella.
Squarcialeone. Che signor Pollicinella! Corpo del mondo, vuoi tu dire la feccia de' guidoni, la schiuma de' sguattari e de' poltroni.
Matamoros. Si señor, que yo le he dada la nobleça. Damela cà, che dize, me acontento de escuchiarte, levàntate, no steyas mas arodillado delante de mi.
Volpone. Con vostra licenza m'ergerò in piede.
Matamoros. No entiendo esta escritura, que es eri lengua italiana.
Volpone. É vero, signore.
Matamoros. Pues leed, que te doy licençia, si sabes leer.
Volpone. Io leggerò, però se non vi sarà cosa di vostro gusto, non ne date la colpa a me.
Matamoros. Non importa, me contento, leed.
Squarcialeone. Leggi, e se non potrai supplire, ti aiuterò nel legere.
Volpone. State dunque ad udire per cortesia, e non vi turbate.
Matamoros. Desid, presto.
Volpone. «Io lo gran nobele e illustrissimo signore Pollicinella de Gamaro de Tamaro coccumaro de Napole , nasciuto a Pontaselece, figlio de Marco Sfila e de Madama Sbignapriesto, pe mangiare no cacavo de macarune, mangiatore de galline, picciune, fasane, pernice, pastice, sausiccie, migliacie e capune, squarciatore de cosse de porcelle, accedetore de puorce sarvateche, sgareatore de galle d'Innia, e deluviatore d'ogni genere musicorum de vidanne squisite, smafaratore de vuote de grieco, lagrema, guarnacia, marvasia, leateco, mangiaguerra, scolatore de fiasche, polizatore de scotelle, così de iuorno comme de notte, co lumme e senza lumme, dintro e fora coreggia; azzetto la desfida de lo capitanio Matamora, re e monarca de li poltrune, arcefanfaro delli crastate».
Matamoros. O mal naçido, vellaco, y de puta cabron.
Volpone. «Me offerisco de pigliarolo a mazzate, a besicate, a tripate, a fecatate, e a pormonate 'n facce, a despieto de chi lo vo' favorire. Azzetto la desfida e benga priesto a commattere co lo gran Pollicinella, re delli mangiature e monarca de li vevetture. E zetera, e zetera, e zetera, e ciente millia zetera, e n'autra vota zetera».
Matamoros. No hay mas que dezir. Sé bien lo que tengo de hazer sobre esto.
Volpone. Ambasciatore non porta pena.
Matamoros. No hablo con tigo, pero vaya, y digale que se procure sepultura, y presto, antes que, despues de haverle muerto, lo profunda dentro del eterno fuego. Bamonos, señor, al armero.
Squarcialeone. Andiamo. E digli da mia parte che con un corno del rinoceronte vorrò sbudellarlo.
Volpone. Non sarebbe meglio con il vostro?
O se m'avesse inteso. Certo che l'ho scapata buona dalle mani di costoro.
SCENA SESTA
Clarice, Fioretta, e Volpone
Clarice. Olà, misser Volpone, come va questa cosa? Dalla fenestra ti ho veduto con mio fratello, così presto si è placato contro di te? Se avesti avuto a far meco, so che non l'averesti passata così franca. Che indegnità fu la tua a fare un'insolenza così grande a casa nostra, senza avere riguardo a le persone che noi siamo?
Volpone.Signora, con alcune efficaci ragioni ho placato il signor vostro fratello, il quale darà per me sodisfazione a vostra signorìa.
Clarice. Non mi occorreno tante sodisfazioni, so ben che tu sei un mal guidone.
Volpone. O per grazia vostra, signora, son troppo favorito da voi.
Fioretta. Veramente, messer Volpone, voi avete un bel collo da forca! Tanta ne farete, che un giorno v'inciamperete sotto, e bene.
Volpone. Non v'inciamperò, astuta volpe non inciampa a laccio.
Fioretta. Non in laccio di cacciatori, ma de' ladri e de' furboni.
Clarice. E non alterare così la voce, ché ti farai scorgere per matta da i vicini! Va' via da qui tu, baronaccio.
Volpone. Io vado, con ogni debita riverenza parlando.
E costei dal civile entra nel criminale.
E io vi ho d'avisare d'una strana cosa.
Clarice. Che cosa sarà? Forsi qualche tramma da te ordita?
Volpone. Il signor capitano vostro fratello si è disfidato a combattere a lo steccato con Pollicinella, servo del signor Fulgenzio.
Clarice. Ohimè, che è quel che odo? con quel sciagurataccio, con quel vil uomo da nulla?
Volpone. Signora sì, ma lui dice di averlo fatto nobile.
Fioretta. E non mi sapeva comandare che io l'avessi caricato bene le spalle di legnate? Signora, non state suspesa, né pensosa, perché il signor padrone averà finto di voler combattere da dovero, e doppo lo farò bastonare.
Clarice. Ne credo più di quanto che ha detto costui, perché mio fratello è peggio che matto, né se gli può far mai capire ragione alcuna.
Volpone. Da catena , avete ragione, signora.
Fioretta. Ah forfantaccio, mascalzone, questo di più! Sì tu, sei matto da catena, da ospedale, da berlina, da galera e da forca! Sfacciatone, ti tirarò d'una pianella.
Clarice. Non occorre qui più dir altro. Sia come ella si voglia, il Cielo sia quello che li dia vittoria.
Fioretta. Entriamo, signora. Orsù, il malanno vi venga, messer Volpone beccaccio.
Volpone. E a voi il malanno con la mala Pasqua, madonna Fioretta poltrona.
(Volpone solo)
Dissemi Pollicinella che io li facessi apparecchiare una sedia.
O là, o di casa!
SCENA SETTIMA
Scaltrino e Volpone
Scaltrino. Perché batti a quella porta, Volpone, che non entri? Sai bene che il padrone non è in casa, e che il pasticciero mette all'ordine gran robbe mangiative per Pollicinella.
Volpone. Lo so. Va' dunque e porta qui fuora un paro di sedie per la porta che entrano i carri delle legna; e questo per ordine del signor Alberto. E avisa la signora Lucilla che senza fallo si combatterà tra Pollicinella e il capitano, conforme egli disse di voler fare.
Scaltrino. Da dovero, o da burla?
Volpone. Da dovero, dico.
Scaltrino. O che bel vedere che sarà!
Volpone. Se tu non potrai portarle, fatti aiutare.
Scaltrino. Farò ciò che potrò. Vado, non ti partire.
Volpone. Sto pensoso, pensando come riuscirà questo duello. Il signor Fulgenzioe noi abbiamo inanimito Pollicinella a combattere più per mortificazione di quel capitano che per altro, ché ben si sa che è più matto che valente, già che mostra tanta poca prudenza.
SCENA OTTAVA
Scaltrino e Volpone
Scaltrino. Largo, largo, ecco qui le sedie. Poni tu questa colà e quest'altra in qua.
Volpone. Tu non volendo hai fatto bene a porle una in quella casa del Matamoros, e l'altra appresso la nostra.
Scaltrino.Andiamo ad incontrare Pollicinella, andiamo allegramente, o bel ridere che sarà!
Volpone. Piano piano, che tanto saltare e ballare, par che andiamo a nozze! Taci, férmati, ché è vergogna.
Scaltrino. Che sì, che non potrò tôrmi un poco di allegrezza e di piacere?
SCENA NONA
Clarice dalla sua finestra, e Fioretta più in alto
Clarice. Io sono venuta qui su la finestra solo per saperne il vero di ciò che mi disse quel forfante di Volpone circa di mio fratello, che non lo credo, essendo tutto pieno sempre d'infinite bugie. E non gli volsi altro dire di Fulgenzio, che egli mi promise d'introdurmelo in camera, e ciò l'ho fatto per parere di non tenerne più conto, e tanto più che come sposa si condusse Lucilla via, non essendo egli di me inamorato, ma di lei.
Fioretta. E io signora, me ne son salita qui sul granaio. State pur salda costì, ché me ha parso aver udito battere il tamburro a la lontana, che sì che passerà qualche compagnia de spagnoli.
Clarice. É vero, però non mi stare a fare più la gaza, tacci un poco.
SCENA DECIMA
Lucilla con le sudette
Lucilla. Son venuta un poco qui su la fenestra per non starmene così rinchiusa, come fin ora ho fatto, pensando ai miei passati guai.
SCENA UNDECIMA
Matamoros, paggio, che li porta lo scudo, squarcia padrino, tamburro che sona da dentro, e Scaramuzza
(Matamoros passeggia, s'inchina alle donne, e si senta appresso la sua casa).
SCENA DUODECIMA
Alberto, Fulgenzio, Volpone, Pollicinella armato, sguattari con spiedi e robbe da mangiare, con sudetti
(Pollicinella fa l'istesso, e si senta a suono di tamburro con Scaltrino, Volpone gli parla nell'orecchio. Scaltrino afferma tacendo).
Squarcialeone. Poiché, mercé del potentissimo Marte, giusto, verace e degno protettore di noi altri famosissimi ammazzatori, quinci comparsi vi siano due famosissimi guerrieri, che venir vogliono fra di loro a singolar duello, giusta e ragionevol cosa mi pare, acciò né l'uno, né l'altro possa rimaner offeso, né ingannato, dico che si debbano misurare le loro armi, acciò non vi sia disuguaglianza alcuna, e che per ciò ragionevolmente si debba compartire il sole, conforme usar si suole fra più degni e valorosi eroi.
Pollicinella. Faraggio quanto volite vui, ma non me date troppo sole, perché aggio autro caudo che de sole.
Fulgenzio. Dammi la tua spada, Pollicinella.
Pollicinella. E perché, è scomputa la guerra, non se commate chiù?
Volpone. E tacci, non mostrare pusilanimità, ché oggi è quel giorno che acquisterai molta gloria e onore.
Pollicinella. E che so' sbregognato, che me aggio da quistare onore? Ogni poco de onore me abbasta, ca so' sulo.
Fulgenzio. Dìame, vostra signorìa, quella del signor Matamoros.
Squarcialeone. Con licenza, signor capitano. Eccola, signore.
Fulgenzio. Son giustissime. Ripigliàtela, signore.
Squarcialeone. Prendete, signor capitano.
Fulgenzio. Animo, signor Pollicinella.
Matamoros. Y es posible que esta valerosa y vitoriosa espada, que fue del fuerte Achiles, que por sentencia del rey Agamenon fue dada al griego Ulis con las otras armaduras, que al cabo de muchos años y guerras suçediò en las balerosas manos del gran Iulio Cesare primero emperador de Romanos y despues de su muerte cayò en poder de Octaviano, de Octaviano a Tiberio, de Tiberio a Cayo Cesare, da Cayo a Claudio, da Claudio a Neron, da Neron a Sergio, da Sergio a Silvio Orton, da Silvio a Vitelio, da Vitelio a Vespasian, da Vespasian a Tito, da Tito a Domician, da Domician a Cuceio, da Cuceio a Troian, da Troian ad Antonio Pio, da Antonio Pio ad Aurelian, da Aurelian a Comodo y Comodo, por antigua memoria, la encerrò en el templo de Giano en Roma. Que despues, al cabo de muchos successiones, vino en poder del grande emperador Carlos Quinto, quando fue encoronado emperador de Romanos en la famosa ciudad de Bolonia, gran madre de studiosos. Carlos Quinto la diò en sacrificio a Marte; Marte la diò alla Muerte, la Muerte a Pluton, Pluton la diò a mi valerosa persona, gran monarca de muy estremada valentia; paraque deviese matar con ella gran parte del Asia, Africa y Europa, como que ansi hasta hora he hecho para la aumentacion del Reyno Ynfernal, por el muy gran tributo que el principe del fuego me da; y que a hora se ha de ensuçiar de la pudrida y negra sangre de un rudo animal, como es aquel que en todas maneras yo lo he de matar.
Fulgenzio. Animo, signor Pollicinella, perché dice così per isbigotirvi, rispondeteli prontamente che non avete paura delle sue chiachiare.
Pollicinella. O figlio de bagascia cornuta, e che te pienze de me sbaotire? e con chi te pienze de avere a fare, con quarche catarchio, con quarche bozzachio come si' tu, che meglio non te avesse fatto mamata? Sai che chesta è chella spata che era prima no gran cacavo deventao caudata, da caudata pozzonetto, da pozzonetto fressora, da fressora gratiglia da rostireme vrassole e rossole de puorco, da gratiglia deventao cochiara perciata da menestrarence lasagne, da cochiaro spito, da spito spata; aspetta che sputa. E dappo' fu data en potere de lo gran Colafronio Trenta Ova, da Colafronio a Marco Cinco, da Marco Cinco a Gelormo Percuoco, da Gelormo a Pantalè, da Pantalè a Iacovo de lo Caso, da Iacovo ad Antonio Cumaro, da Antonio a Nardiello, Nardiello a Pascariello, Pascariello a Cola Marchione, Cola a Coviello, Coviello a Giananiello de la Conochia, Giananiello la deze a lo gran Micco Passaro Napolitano, paladino de Forcela, smargiaso de lo mercato, bravo de la chiazza del Urmo e isso la deze a lo capitan Totaro e chillo me la donao, ché avesse da cidere tutte li forfantune, taglia vurze, mariule de sacociola e robba ferraiuole de lo munno, e perzò guardate tu ca sai chillo che si', e sufficite appilo, che escie feccia.
Squarcialeone. E perché, signori, questo duello senza dubbio si può chiamare padre della morte, per tanto, vi prego a manifestare ciaschedun di loro, quando per disgrazia rimanesse dall'inimico vinto, e forsi estinto, come vi piacerebbe che per memoria si dovesse far scrivere su la sepoltura.
Pollicinella. Ora chisto è n'autro chiaito, lo Cielo me la manna bona.
Matamoros. Aunque cierto y claro soy de no poder morir para ser imortal, todavia yo este epitafio haria poner en cima de mi sepoltura, oigame:
A qui yace en poca tierra
el que toda lo temia
el que la paz y la guerra
por todo el mundo hazia.
O tu que vas a buscar
cosas dinas de loar
si tu loes lo mas dino
aqui para tu camino
y no cures mas buscar.
Alberto. E voi, signor Pollicinella, come vi piacerebbe che si dovesse scrivere su la vostra sepoltura?
Pollicinella. Bell'aùrio, che me facite! Lassate no poco che nce penza, e che responna a chisso iosse e bosse e scaravosse, che sta llà, ca le voglio parlare tosco.
Matamoros. Diga el vellaco.
Pollicinella. Mo lo dico, piecoro, ora siente.
Qui giaccio e più non son quel che fui pria,
non cercar del mio nome, o tu che leggi,
vattene col malan che il Ciel ti dia.
Scaramuzza. Te pozza venire 'n faccie, aseno nmardato.
Fulgenzio. Signori, fin qui siamo bene aggiustati, però mancavi una sol cosa e doppo si darà il generoso assalto.
Squarcialeone. Che cosa, signore, ditelo.
Fulgenzio. Cercare adosso a l'uno e l'altro, acciò non si tenesse qualche sorte di scrittura per l'offesa, o difese delle armi, benché non vi si debbe dar credenza se non alla ragione, tuttavia per sodisfazione di tutti, non si deve lasciar di farsi.
Matamoros. Me contento, pues que otra escritura no tengo si no la fuerza del braço y el animo del coraçon.
Pollicinella. E a me nesciuno me passe de contentaresse, cercateme tutto ca me contento, stracontento contentessemamente.
Matamoros. Con un soplo lo tengo de embiar a besar los cuernos de la luna.
Pollicinella. E io co no caucio te boglio fare ire a vacuare le fecate a Levante. Signore, nante che se commatta vorrìa dicere doi parole secretamente a Scaramuzza paisano mio.
Squarcialeone. Presto, Scaramuzza, ascoltalo come amico.
Scaramuzza. De grazia, signore. Che buoi da me, messer Pollicinella?
Pollicinella. Fa' arassare tutte, e sienteme na parole a le orecchia.
Scaramuzza. De bona voglia, de razia, arassateve segnure, ca me vole parlare secretto.
Alberto. É di ragione, ecco che ci siamo ritirati.
Pollicinella. Scaramuzza mio bello, nuoi simmo paisane, e si nce mozecammo non ce gli stimmo e me fido de te.
Scaramuzza. Di' che buoi dicere, e prieste.
Pollicinella. Te lo diraggio, con patto però, che non lo diche a nullo. Sienteme e saperai che boglio. Ahimè, frate mio, chesta è una brutta colata pe me, vide tu se lo poi quietare 'so spagnuolo, ca me contentaraggio da cordio che isso co le mano soie propie me vaga frustanno a cavallo a n'aseno pe tutta la cetate de Capua, e che sautaraggio, abuffaraggio e faraggio capo tomole pe tutta la chiazza, che me dia schiaffune, bufettune e cauce quanto vo' isso, puro che no me faccia commattere, ca m'è benuta la cacarella, frate mio, e lassa far a me po', ma come venesse da te.
Scaramuzza. Povero Pollicinella, cierto che me dispiace.
Pollicinella. Ne lo vero, pro vita toia, di' che buoi dicere che te despiace?
Scaramuzza. Ca me despiace ca no si' stato dece anne prima acciso, caperonne d'Innia, va' a la forca! Io no le voglio dicere niente, ca voglio che muore acciso pe le mazzate che me hai dato sta notte passata! Crepa, schiata, sfonola, e crepanta!
Pollicinella. É è è è !
Volpone. Che cosa hai, Pollicinella? Va' in là, Scaramuzza.
Pollicinella. L'aggio dito che me npara dove se va a fare lo servizio, perché aggio fruscio de cuorpo, e isso dice ca non vole e ca no se n'empaccia.
Scaramuzza. Lassatelo dicere, ca chessa è scusa pe no commattere.
Volpone. O che indegnità d'un cavaliere, di un guerriero tanto famoso! Ah, signor Pollicinella, state sora di voi, non perdiate la riputazione, né il vostro onore.
Pollicinella. Io ve dico lo vero, ca me site venute 'n fastidio con tanta segnorìa e tanta reputazione e tanto onore, e me avite confuso. De razia, lassateme ire a mitte.
Fulgenzio. Fermatevi, dico, non partite. Orsù, Volpone, cerca tu Pollicinella.
Volpone. Di grazia, dove è la tua bisacca?
Pollicinella. Che?
Volpone. La tua scarsella.
Pollicinella. So' ommo de fare squarciella a ciente de li pare tuoi, con chi te pienze de parlare?
Volpone. E te dico la sacoccia! Eccola qui. Che cosa è questa? Che carta inviluppata.
Pollicinella. É una polesa de cammio che m'ha fatto no potecaro de caso e d'uoglio.
Volpone. Tu hai ragione, questa è una buona fetta di cascio, e questo bollettino che cosa dice?
«Vuol esser cotto in fretta il figatello
e con gran fretta posto sul tagliero;
e caldo caldo trarlo nel budello».
Il detto è bello, tosto te lo ripongo in scarsella.
Squarcialeone. Signor Matamoros, resterà ella servita che io faccia lo istesso.
Matamoros. Haga, señor, lo que le fuera de gusto, busque en mi faldriquera.
Squarcialeone. Con licenza, che cosa è questa?
Matamoros. O mi desdichosa fortuna ! Muestra señor. Son guantes de España, para dallos a la reyna de Sueçia.
Pollicinella. Segnor no, le bolimmo vedere.
Squarcialeone. To', guardateli voi.
Pollicinella. Da' cà, ha ha ha, cheste so' ravanelle spagnole contra a l'arme 'taliane! Co licienza le boglio iettare.
Scaramuzza. E no, dammele a me, ca so' radice confettate, che le saranno restate 'n mano a la tavola de Marte, ca co isso ha magniato sta mattina.
Fulgenzio. Non vi si ponghi più intervallo di tempo ad intrar nella battaglia. Animosamente, signor Pollicinella! Che si batta il tamburro.
(Qui si batte il tamburro)
Matamoros. Armas, armas, sierra, sierra!
Pollicinella. Ferma, ferma tammorino, damme l'avanzo de lo carrino, non sonare 'sa sonata, ca me ne voglio sbignare.
Alberto. E se non avete ancora combattuto?
Matamoros. Señor capitan Squarcialeon, digale vuestra merced si se ha dicho esta manaña lo que se diçe por toda España de mi valerosa persona.
Clarice. Ritiratevi in casa, Fioretta, ché non si conviene, né mi comporta l'animo, di vedere tal disordinata pazzia di mio fratello.
Fioretta. É vero, signora, però son di umore di saltar fuora per dare una mano di legnate a quel forfantonaccio che si vuole uguagliare con il mio padrone. Andiamo, signora.
Squarcialeone. Hai bene inteso ciò che ha detto il signor Matamoros.
Pollicinella. Lo malanno che le venga, che saccio che se dice.
Matamoros. Se diçe desta manera.
Del capitan que ganna las banderas
guardame Marte y guarde muy de veras.
Pollicinella. Sai come se dice de me pe tutta la 'Talia?
Matamoros. Como? Desid.
Pollicinella. Del capitan che spisso va a magniare
guardame Giove e tu te fa squartare.
Lucilla. Ogni momento mi par un seculo di veder costoro entrar ne la battaglia! Io non so come potrà costui resistere contra di un valoroso capitano.
Squarcialeone. Orsù, all'armi.
Matamoros. Aqui estoy. Levantate de aquella silla, vellacon.
Pollicinella. Ahimè ca so' muorto, sto buono a così, no me voglio levare, tallune aiutateme.
Fulgenzio. Férmati, o là Pollicinella, avèntati contro di lui come saetta, vuoi tu rimaner privo di onore?
Pollicinella. Io voglio essere no cornuto, che bolite da me? Lassateme ire pe li fatte miei.
Alberto. Che tu debba valorosamente combattere e mostrar la faccia e i denti al inimico.
Pollicinella. Te', io ce le mostre con tutte le mole, che bo' chiù? Covernateve.
Fulgenzio. Non ti far questa vergogna, ascolta.
Volpone. Né questo vituperio a' tuoi amici, a quelli che ti hanno da pasteggiare, da banchettare! Non vedi questi bei conditi macheroni, che sono qui per te dolcemente apparecchiati, questo bel pezzo di arosto, queste quaglie e questi piccioni? Vedi con quanta solennità ti stanno attendendo che tu li debba godere, finita la battaglia, e che ti conforteranno la lingua, il palato, la bocca, e le budella, te impiranno il ventre e trangugiando goderai, bevendo questo eccellentissimo greco, sgorgato che sarà da cotesti odoriferi vasi. Prenderai più vigore, più forza e maggior ardire. Animo, animo e cuore! Entra valorosamente a la battaglia! Batti, dunque, lo marzial stromento per dar maggior animo al nostro valoroso paladino.
Pollicinella. A fé ca hai ragione, lassame prima paziare la nostra guerra co lo nemico, non sonare. Segnore capitanio, ve contentate che io ve acida senza commatere?
Matamoros. A bacillero, ladron, tu matar un tan famoso guerre ro? Yo quiero luego con la punta de mi espada arojarte en Yngalterra. Passate a cà.
Pollicinella. Ferma, ferma, facimmo prima li pate nuostre.
Matamoros. Que patos?
Pollicinella. Che all'assauto no ce dammo co le spate 'n face, né 'n capo, né a le braccia, né a l'uochie, né a lo pieto, né a la panza, né a le spalle, né a nulla parte de la perzona, e damoce dove volite vui.
Matamoros. Yo no tengo de buscar tantas neçedades, cadauno dea adonde podrà. Sierra, sierra.
Pollicinella. Serra, serra, ed apre quanto vòi tu.
Fulgenzio. In cervello, Scaltrino, con la corda al piede del capitano.
Scaltrino. L'ho qui, lasciate pur fare a me.
Pollicinella. Ferma, ferma, sta' a la larga, mazza franca da cà e da là, lassame sedere, aiuto, aiuto, refregerio, macarune, macarune! Lassamene pigliare na vrancata.
Volpone. Mangia, mangia Pollicinella, allegramente.
Pollicinella. O bene mio, lassame no poco adorare la carne arostuta, damme lo stoiavuco.
Volpone. To', confortati con il greco di Somma.
Pollicinella. Da' cà.
Alberto. Dagli il bichiere.
Pollicinella. Non mporta, ca vevo a lo fiasco, hà, ca tutto me sento decreiare.
Scaramuzza. Trinca buono, cornuto, che te faccia fuoco!
Pollicinella. Viene nante mo, spagnuolo scassa poteche
Matamoros. Venga, el puerco vestido.
Pollicinella. Ferma, ferma! Macarune, macarune, carne arrostuta e vino.
Volpone. To', non hai combattuto e ti ritorni a confortare.
Fulgenzio. Sù, di buon animo, all'ultimo assalto, e fenianla, di grazia.
Pollicinella. Mo. Te', pìgliate sta cortelata!
Matamoros. Y tu esta estocada.
Fulgenzio. Tira becarello.
Scaltrino. Gli ho invilupato il piede.
Volpone. Tira adesso.
Scaltrino. Eccolo in terra a fé.
Volpone. Sbigna, trucca di calcagnio! Salvati via.
Scaltrino. E me conviene.
Matamoros. Hay de mi, y que engaño y traycion es esta? Ay que deribado fue en el suelo da un muchacho.
Pollicinella. Ariènete, spagnuolo, se no ca te acio e te smenuzzo.
Squarcialeone. O là, che tradimenti sono questi? Ah briconzello, te ho ben io veduto, me la pagherai, da capitan generale.
Scaramuzza. Crai mattino lo smafato e l'accio.
Pollicinella. Segnure, io aggio lo nemico 'n terra, che bulite che ne faccia?
Fulgenzio. Che sia per tuo conto il tutto rimesso nel maturo giudizio del signor Alberto.
Pollicinella. Io me ne contento, ca me pare mill'anne de fuìre.
Squarcialeone. E io, in nome del vinto cavalliero, ne son contentissimo.
Alberto. Già che questa autorità (per vostra buona grazia) da voi altri signori mi vien conceduta, dico che si debba levar su tosto, con promissione inviolabile di lui, che tosto qui voglia perdonare a tutti, come tutti noi l'uno a l'altro facciamo, di qual si voglia offesa ricevuta, così per lo tempo passato, come per il presente, acciò tutti uniti debiamo rimanere pacificati e contenti.
Matamoros. Yo otra cosa no deseava y ne quedo muy contento.
Pollicinella. E io chiù de nullo autro me ne stracontento.
Volpone. E io ancora.
Fulgenzio. Dunque, ergasi vostra signorìa in piede, signor capitanio, e abracianci come cari amici, ponendo in oblivione tutte le passate offese.
Matamoros. A qui estoy, me le offereçco por muy grande amigo.
Squarcialeone. Il tutto sta bene, però è di ragione che Pollicinella debba dimandar perdono al signor Matamoros come a suo maggiore, poiché è rimasto vittorioso per inganno.
Alberto. É ben il dovere, obedisci Pollicinella.
Pollicinella. Signor capitanio mio carissimo, illustrissimo, gentilissimo e magnaninio, ve preo che me perdonate, ca la cannarizia e desiderio de essere banchettato e mangiare assai macarune, me ha fatto fare sto sproposeto, e ve vaso le mano, li piedi e le sole delle scarpe.
Matamoros. Yo te perdono, andat, pues que has mostrado ser hombre tan atrebido.
Volpone. Gridate tutti (dunque) illustrissimi signori sguattari: viva viva il signor Pollicinella, e conducetelo di peso in cucina.
sguattari. Viva viva il signor Poricinella, per mare e per terra!
(Partono i Sguattari con Pollicinella. Gli altri rimangono.)
Matamoros. Otra cosa que un tan grande engaño no podia hazerme derribar de tal manera en el suelo, aunque fueran esidas todas las piezas de artillarias del mundo.
Fulgenzio. Signor capitano, di grazia, la non si perturbi l'animo e prenda a scherzo il tutto, già che l'inganno della sua caduta a tutti è stato manifesto, e sappiamo il vostro indicibile valore.
Matamoros. Ha, ha, ha, ha, que me revientan los lados de risa.
Alberto. Come? E di che, signor capitano?
Matamoros. De la astutia militar, que yo he usada con todos vos otros señores.
Scaramuzza. Ah, ah, ah, ah.
Squarcialeone. Di che ridi tu?
Scaramuzza. Ca veo ridere tanto de core lo signor spagnolo.
Fulgenzio. E come, e di che, signor capitano?
Matamoros. Lo diré señor. Yo, deseoso de querer perdonar a todos, y no sabiendo la manera que havia de tener de haçerlo con mi reputacion, considerando que Policinela, en ganarme en batalla, me hubiera pedida merced de perdonar a todos, he querido pelearme con el por mi gusto y contento, con deseo de ser amigo de todos, como que agora lo soy. Y si el mochacho no me atava el pie, de mi propria voluntad caydo me hubiera en el suelo, por darmele vençido, como fingì de dolermene, de manera que por tal causa, quiero todos por muy grandes amigos y ansi lo afirmo.
Volpone. E chi vi crede è un asino.
Signor sì, signore, è vero, poiché tutti ci siamo accorti che vi siete aveduto del inganno e lo avete ignorato per vostro piacimento.
Il concorrere con il suo bestial umore non ci arreca pregiudizio.
Alberto. Dunque signore, per maggior sua grandezza e generosità, sarà bene che da oggi avanti siamo buoni amici, abbracciandovi con tutti noi.
Matamoros. De muy buena gana, pues que mucho lo deseo.
Fulgenzio. E io sommamente lo bramo.
Volpone. Dunque, per qual si voglia passata e ricevuta offesa, mi dichiaro in grazia di tutti è perdonato.
Matamoros. Sì por cierto.
Alberto. Non v'ha dubbio, già l'abbiamo stabilito.
Squarcialeone. E chi ne vorrà dir il contrario si parte dalla ragione.
Volpone. Orsù, abbracciami Scaramuzza, siamo amici.
Scaramuzza. T'abbraccio, ma starìa pe no me contentare pe le mazzate che m'hai dato sta notte.
Alberto. Già che siamo tutti (mercé del Cielo) con gran contento pacificati, dico, signor capitan Matamoros, che desidero sapere da lei qual cagione vi mosse a venire impetuosamente a tôrmi Lucilla per condurla in vostra casa.
Matamoros. No la tomé, señor, yo de su casa, mas bien de casa del signor Fulgentio, por darla a vuestra merced. Pero, agora que me acuerdo, deseo saber que es lo que vino hazer la noche passada en mi casa.
Volpone. Signori, vi prego, già che mi avete perdonato del tutto, ad udirmi e perdonarmi di novo, se vi avesse offesi. É vero che il signor capitan Matamoros non tolse egli fuora di vostra casa la signora Lucilla, ma la levò di casa del signor Fulgenzio, e se la menò nella sua per darla a vostra signorìa, come che io da lui proprio intesi, e vi ha detto, e io di veduta ne posso far ampia fede.
Alberto. E come di casa di Fulgenzio? chi ve la condusse e perché?
Volpone. Perché fu da me e da Pollicinella ingannata.
Alberto. Non è questi che dice di chiamarse Antuono Cipolla quando che ne arrecò i limoni mandati da mia sorella? Come ha tanti nomi?
Volpone. Signor sì, e io li fe' cambiare il nome e il tutto feci per dar maggior colore a l'inganno, che doppo di notte lo mandai dalla signora Lucilla, dandoli a credere che la signora vostra sorella stava moribonda, e che vostra signorìa la aveva mandata a chiamare in fretta, perché quella voleva far testamento e lasciarli tutti i suoi beni. E così, con molta fretta, la tolsimo fuora di casa vostra e, amorzato il lume, fingendo di condurla a casa mia per farla accendere da una mia sorella, la conducessimo in casa del signor Fulgenzio, e avendolo saputo il signor Matamoros, per via di Scaramuzza, a forza la tolse di casa de Fulgenzioe se la condusse nella sua, e io, acciò fosse moglie di lui, ne dissi il contrario.
Alberto. A dirti il vero, Volpone, tu sei un gran ribaldo.
Volpone. Questo non è dubbio. Ma per servire il signor Fulgenzio, che tanto la amava, mi disposi a ciò fare, essendo stato dispreggiato da lei.
Alberto. Signor capitano, di grazia la mi perdoni, se io vi ho tenuto in cattiva considerazione.
Matamoros. Antes, que yo he de pedir perdono a vuestra merced del agravio que yo en compania de algunos amigos le hiçe la noche passada.
Volpone. Fermatevi, signore, ché sono io quello che vi ho da perdonare, poiché io fui il ricevitore delle bastonate e piatonate, ché fui preso in cambio per avermi posta la vesta e baretta del signor Alberto, che lo mandai nella vostra cantina (ridete di grazia, hà, hà, hà, hà) che queste è cose da ridere! Poiché li diedi a credere che la signora Clarice, vostra sorella, lo amava e che lo sarebbe venuto a ritrovare come sposa. E il tutto feci per cavarlo fuora di sua casa, acciò non mi avesse impedito lo aver a menar via la figliuola, e ancora, per girmene a tôr un baccio da una certa persona che non debbo nominarla. Ridete, di grazia. Voi non ridete?
Matamoros. Pues balgate el demonio, son cosas estas de reir si no de cargarte de palos.
Volpone. Signor no, ché la pace è fatta e non si converebbe.
Alberto. Tu hai raggione.
Squarcialeone. Deh, signor capitano mio, non bisogna più tener conto delle passate offese, perché costui averebbe ancora a far meco, che mi mandò in quella casa vòta ad aspettare una dama, e in vece di quella mi mandò un uomo, che non potei conoscerlo, e non ne fo caso alcuno.
Scaramuzza. E ca fui io la signorìa mia, che nce veniete pe desgrazia, comme dissi primma.
Alberto. Una sola cosa mi manca di sapere, se quando io uscii fuora di casa del signor capitan Matamoros, con quella che io chiamava Clarice per menarla a casa mia, se poteste sapere chi ella stata si fusse, e chi fu che mi seguitò con la spada.
Squarcialeone. Io fui quello, signore, già che dite di esser stato voi il seguitato. Ma quella, che avevate per la mano, non era la signora Clarice?
Alberto. L'ho bene a caro. E chi era di grazia?
Scaramuzza. La signorìa mia, che po' fuiete a la cantina de lo segnor Furgenzio, e che fui schiatato de mazze da messer Vorpone e da mastro Pollicinella.
Alberto. E perché eri tu in abito di donna?
Scaramuzza. Pe no ne essere conosciuto da vostra signorìa, a tale che no me avisseva fatto fare despiacere, pe la chiatonata che ve diete da dereto no volenno.
Alberto. Orsù, basti saper l'innocenza de le nostre donne, e le furbarìe che tu hai comesso; e perché è tempo di allegrezza, non se ne parli più, di grazia. Anzi, che io bramo che il signor Matamoros debba favorirmi de la sua presenza, unito co il signor capitan Squarcialeone, ad onorar le nozze di mia figliola con il signor Fulgenzio.
Matamoros. Por que la nuestra honrada y larga amistad no sea puesta en olvido, vendremos juntos y despues me haran ellos merced de venir a las nuestras bodas, haviendo concluydo de dar mi hermana al señor capitan Squarcialeon, sustancia de la guerra.
Alberto. Io molto me ne allegro, e staremo prontissimi ad ubedire i loro degni comandi.
Fulgenzio. Sì, certo, ne sarà favor singolare, e glie ne rimaremo obligati.
Scaramuzza.E io lo riceveraggio a piacer particolare.
Volpone. E io n'ho gusto incredibile.
Squarcialeone. Il contento che io ne ho e ne avrò è indicibile.
Volpone. Vi prego, signor capitan Matamoros, di concedermi per moglie Fioretta.
Matamoros. El señor capitan me la pediò para EScaramuzza, su criado, no sé si ella se contenterà.
Scaramuzza. É lo vero, signore, ca la pretenno io, e de ragione, perché so' anteriore a la domanna. E nce volimmo bene inzieme, ma non però facimo la volontà soia, e pigliase chi vo' essa.
Squarcialeone. Ha ragione, è galant'uomo Scaramuzza.
Alberto. Dunque, sarà se no bene di chiamar le donne qui da noi.
Matamoros. O là, que digo, o de casa Floretta, Clariç a fuera.
SCENA DECIMAQUARTA
Fioretta, Clarice, con sudetti
Fioretta. Questa è la voce del signor padrone. Chi batte?
Matamoros. El valiente , y vitorioso.
Volpone. Vol esser valente per forza.
Clarice. Mi chiama?
Matamoros. El bravo, digo.
Volpone. Nel mangiar delle minestre.
Clarice. Deh, signor fratello, vi vuol altro che bell'umore, ho ben io veduto in parte le vostre disordinate perfidie. Perdonatemi, il ritrovarvi qui fra tante meritevoli persone, cagiona che io la lingua affreni, né dica ciò che dir vi doverei: bisognava far molto bene bastonar colui.
Fioretta. É vero, signore.
Scaramuzza. Scioretta mia, parla adaso, ca si Pulicinella te sente auzare la voce, te desfida a comattere co isso.
Matamoros. No tantas palabras. Has da saber, hermana, que por el obligo grande que tengo al señor capitan Esquarcia Leon, y tambien por sus grandes mericimientos, yo te he casada con el. No me respondas de no, porque me haras enojar y muy de veras.
Clarice. Signore, per non contradire alla vostra cortesissima volontà, e per non far torto all'amor che lui ha dimostrato portarmi, son contentissima di ubidirvi.
Matamoros. Mucho me huelgo. Dense las manos aqui, delante de todos estos amigos y caballeros.
Squarcialeone. Ecco, signori, glie la tocco, con promissione che in brevissimo spazio di tempo farla madre di un grande esercito d'uomeni di guerra, e tutti armati alla bizarra.
Clarice. Ed ecco ancora la mia, per conclusione del tutto.
Volpone. Datemi Fioretta, signore, ché io vi prometto di farla madre di trecento sguatari di cucina.
Scaramuzza.Non sarìa meglio di ciento millia pecore?
Volpone. Sì, ché io sono un becco.
Scaramuzza. Chi ne dice lo contrario?
Matamoros. Pues que ya havemos determinado y concluydo esto, desid Floreta, quieres tu casarte?
Fioretta. Signor sì, perché è un gran tempo che ho desiderato marito, per non morire con la semenza nel corpo come alle zucche.
Matamoros. Quien quieres de los dos: Volpon o el bravo Esca ramuzza? Te doy lizençia, que te tomes quien quieres.
Fioretta. Signor, vi ringrazio di questa libertà. Volpone per la sua virtù è di gran merito e Scaramuzza per lo suo valore è degno d'esser amato; però, per non far torto a ciascun di loro, sarebbe cosa degna e lodabile che mi divenissero marito l'uno e 1'altro.
Volpone. Sarà meglio a darti a la communità..
Fioretta. Poiché ho licenzia di abbracciare il mio marito, vieni qua, Volpone mio caro.
Scaramuzza. O maro mene, ca la perdo pe la mano.
Volpone. Eccomi, sposa mia! O che ridere, che Scaramuzza n'è rimasto beffato.
Fioretta. Va' dunque tu in mall'ora in là, e abbraccio per mio consorte il mio Scaramuzza.
Scaramuzza. Hà, hà, hà, hà, ca me schiato de ridere! E come si' restato corivo e co no parmo de naso! Adonca, co licienzia de li patrune nuostre, simo marito e mogliere.
Matamoros. Sì ya està hecho.
Squarcialeone. É vero.
Alberto. E perché a Lucilla mia ho fatto già dal signor Fulgenziotoccar la mano in casa, è bene che ella ancora venghi ad allegrarsi con la signora Clarice delle stie nozze. Di grazia chiamala, Volpone.
Volpone. Di grazia, signore, ma che occorre chiamarla se ella è qui di fuora? Signora Lucilla, il signore vostro padre dimanda.
SCENA ULTIMA
Lucilla con sudetti
Lucilla. Sono stata qui in disparte ad osservare, intenta, i vostri curiosi detti e cerimonie, e certo che non poco contento io ne ricevo, per esser così felicemente e senza scandolo sortito il tutto. E perciò molto con vostra signorìa mi allegro, signora Clarice, che siete divenuta sposa di un così valoroso capitano.
Clarice. E io ancora ne prendo sommo diletto di aver inteso che con indisolubile nodo maritale vi siete accopiati con il signor Fulgenzio.
Lucilla. É verissimo e il tutto è stato per voler del Cielo, e per servir la mia signora Clarice.
Clarice. E io a vostra signorìa, signora Lucilla.
Fulgenzio. Gentilissimi signori, già la Comedia della Lucilla costante, e le ridicolose disfide di Pollicinella (mercè la vostra benigna grazia e grato silenzio) è fenita, e se volessi perciò entrare nel vasto oceano delle vostre lodi e infiniti meriti, sarebbe di necessità che non solo io fossi un novo Omero, un eloquente Cicerone, ma l'istesso Apollo, datore di tutte le somme grazie poetiche, e per questo dico che, dove manca il mio poco valore, supplirà il nostro molto desiderio, che con l'autore di essa abbiamo di servirla. A Dio.
FINE
ArchigraficA Paperback
Silvio Fiorillo, La Lucilla costante, Mialno, 1632
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ISSN 1970 . 7355
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