Uno smartphoneconto è un racconto per smartphone, rapido, sintetico, ben calibrato.
Pubblicheremo, a cadenza periodica smartphone conto che potranno essere scaricati direttamente dal post di presentazione.
Al racconto si accompagnerà sempre un'immagine originale che sintetizza il senso del racconto.
Il primo a inaugurare la serie è:
Le formiche di Claudio Cajati, illustrato da Maurizio Zenga.
Un racconto fulmineo e immediato. Da leggere in un fiato solo.
Ve lo proponiamo senza alcun indugio.
Claudio Cajati, The ants mobi (English version)
Le formiche
di Claudio Cajati
“Dottore,
io lo devo sapere... me lo dica: quanto mi rimane?”
Gli metto le
mani sul braccio e glielo stringo. Come si farebbe con un amico al quale si sta
chiedendo un grosso favore. Certo, lui invece è un dottore. Addirittura un
luminare. Non sta bene che io mi prenda tutta questa confidenza. Ma ormai l’ho
fatto. E continuo a stringergli il braccio mentre aspetto la sentenza.
Lui mi
guarda. Mi sembra imbarazzato, ma soprattutto irritato. Scuote leggermente il
braccio e capisco che la mia stretta lo infastidisce. Devo mollare. Mollo. Ma,
puntandogli addosso gli occhi, sguardo già pronto a velarsi, lo incalzo.
Assillante e al tempo stesso implorante: “E allora, dottore?”
Si
schiarisce a lungo la voce. Non l’ho mai sentito tossire, o avere comunque un
qualsiasi problema alla gola. È chiaro che sta prendendo tempo. E se sta
prendendo tempo è perché tutto il cinismo acquisito e rafforzato nella sua
lunga carriera di oncologo non gli basta per spiattellarmi a cuor leggero
l’annuncio della mia condanna.
Approfitto
di un’altra pausa che lui si concede – comincia a gesticolare misteriosamente
ma sempre senza rispondermi – per precisargli cosa c’è dietro la mia domanda:
“Dottore, lo so che devo morire... ma questo lo sappiamo tutti, che prima o poi
ci tocca...” Faccio una brevissima pausa in cui il dottore non trova di meglio
che far oscillare appena il capo in un accenno di assenso, scontato, a
un’affermazione così lapalissiana. Ma io ho da dire una cosa più stringente, e
continuo: “Però per me è diverso: gli altri, quelli sani, non hanno nessuna
idea di quando gli toccherà. Potrebbe essere fra un’ora o fra molti, moltissimi
anni, e così la morte, il pensiero della morte, diventa talmente remoto da non
influenzare, praticamente, il modo di vivere...”
Il dottore
dà una vistosa occhiata al suo orologio. E poco ci manca che la sua mano si
chiuda e apra più volte nel gesto che vuol dire: Stringa, io ho altri pazienti, mi aspettano, cosa crede Lei?.
E va bene,
stringo. Cerco di arrivare rapidamente al nocciolo: “Dottore, io invece so che
la morte mia è vicina... ma quanto vicina? Questo devo sapere. Gli ultimi
giorni li voglio vivere meglio che posso... ma, se ho solo una settimana o un
anno intero, cambia quello che posso fare...”
Il dottore
assume un’espressione vagamente ironica, quasi divertita, direi. Ancora una
pausa, come se cercasse le parole adatte. Chiare ma possibilmente non crudeli:
“Lei, signor Marotta, vorrebbe sapere quanto le rimane. Ebbene, non lo sa
nessuno. Non glielo può dire nessuno. Nemmeno io che faccio l’oncologo da
quarant’anni ormai. Quello che posso dirle, invece, sulla base di casi analoghi
al suo – ma, preciso, non uguali, solo analoghi, solo analoghi – è che forse,
dico forse, le rimane da un mese a due anni... mi corre l’obbligo di
sottolineare che è solo un’ipotesi. Potrei anche sbagliarmi...” E fa una faccia
mestamente imbarazzata. Forse vuol dire che potrebbe essere anche meno di un
mese, piuttosto che più di due anni?
Ingoio a
stento il rospo. E mi affretto a dire: “Ho capito, ho capito. Grazie...” Eppure
non ho nessuna voglia di ringraziarlo. E non aggiungo altro. Altre parole,
forse amare o stizzose, mi muoiono in bocca.
E poi il
dottore ormai si è congedato. Con un sorriso di affettuosa paternalistica pietà
ha concluso: “Signor Marotta, cambi prospettiva. Non pensi a quanto le resta.
Pensi solo a vivere intensamente. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.” Mi
stringe la mano, forte; con l’altra mi dà una piccola pacca sulle spalle. Più
da saggio amico che da freddo luminare.
Esco dalla
clinica. Non so se ho voglia di sedermi o di correre. Guardo l’orologio. Il mio
poco tempo sta passando. Il mio poco tempo che non so quanto poco è.
In fondo
il dottore ha ragione. Le sue parole mi hanno irritato, ma debbo riconoscere
che ha ragione. Anche io vorrei che ogni mio istante fosse carico di senso. Che
fosse intelligente, emozionante, commovente perfino. “Vivi intensamente e non
esserne mai pago” mi disse una volta un’amica.
E allora
senza rifletterci comincio a correre. Per ingoiare il vento, per lasciarmi
indietro le case, per superare qualcuno giovane e sano, per sentire il corpo,
affamato di vita, ancora vincitore sulle cellule assassine.
Corro.
Corro a precipizio. Come se non avessi superato i cinquanta. Come se non fosse
necessario badare alle irregolarità, avvallamenti o rigonfiamenti, nella
pavimentazione.
Non ci
bado. E mi accorgo di essere irrimediabilmente inciampato quando sono ormai
rovinato in terra, sacco floscio inerme. I pantaloni lacerati all’altezza delle
ginocchia, sbucciate e sanguinanti.
Dopo poco,
sento dolore. Ma non me ne dolgo: quanto sono ancora vivo! E poi, cos’è una
sbucciatura di ginocchia per un malato, forse terminale, di cancro?
Vorrei
rialzarmi subito. Penso che ne va del mio orgoglio di uomo malato ma ancora
vigoroso. Non mi aiutano le braccia, però. E nemmeno le gambe, tronchi di legno
fradicio.
Resto a
terra. Molti secondi, forse minuti. In attesa di un’energia, di uno scatto, che
non possono avermi abbandonato definitivamente. Curvo a quattro zampe, non
penso a chiedere aiuto. E del resto, davanti e dietro di me, non c’è nessuno a
cui chiedere aiuto.
I pochi
passanti sono spariti d’un tratto. A casa a passo svelto per il pranzo o
chissà. Penso che dovrò cucinarmi qualcosa anche io. Ma mi si è chiuso lo
stomaco, o piuttosto, mi rendo conto, è perché lì si annida il male che
l’operazione, tardiva, non ha potuto arrestare.
Resto a
terra a quattro zampe, ridicolo animale improvvisato. E di nuovo faccio per
tirarmi su.
Le formiche, di Maurizio Zenga
Prima di
riuscirci, mi capita di vedere sul marciapiede, a pochi centimetri davanti a
me, una linea fitta, mobile, di trattini neri. Sono tanti, scorrono al tempo
stesso verso sinistra e verso destra. Sono formiche. Alacri, organizzate,
ordinate, lavorano all’unisono per un compito che dev’essere importante, anche
se mi sfugge. È la loro vita, minuscola, misteriosa, sacra. Che noi umani ignoriamo,
sottovalutiamo. O addirittura combattiamo a morte.
Penso che
avrei potuto inciampare qualche centimetro più avanti: mi sarei abbattuto su di
loro con tutto il mio peso, e magari chissà quante, senza volere, avrei
schiacciato. Avrei dato loro una morte inopinata e immeritata.
Ma per
fortuna non è successo. La loro sommessa silenziosa preziosa vita è salva. E ne
provo sollievo. Quasi da lungo tempo fossimo amici.
Gli occhi
mi si velano di tiepide lacrime. Intanto un signore mi è arrivato accanto e si
offre di aiutarmi a rialzarmi.
Lo
ringrazio. Ma gli rispondo che adesso no: sto osservando le formiche. La vita
delle formiche.
La vita.
Claudio Cajati (Napoli, 1947), architetto, già ricercatore e
docente alla Facoltà di Architettura di Napoli, animalista e gattomane, ha
pubblicato due romanzi per ragazzi, Testafina
e Pallina mia blu, i romanzi Le parole del corpo e La convergenza, la raccolta di racconti In prima persona, e vari racconti fra
cui quelli, intitolati Una monade in
condominio, scritti a 4 mani con Lucilla Actilio. Nel 1992 ha vinto con
“Look definitivi” il Premio Teramo per un racconto inedito (6 milioni di lire).