Masaniello
di Giacomo Ricci
Un mio caro amico, Maurizio Zenga, mi ha comunicato il suo profondo malessere di fronte alla morte di Pino Daniele, la polemica speciosa di alcuni pennivendoli nostrani e la furia selvaggia del terrorismo.
La ragione oltre che generale, è nel suo caso evidente. Maurizio è un musicista napoletano che ha amato moltissimo Pino Daniele ed è un vignettista satirico. Il suo mondo è stato messo violentemente in discussione.
Io ho capito poco di quello che ci succede, ma ho tentato di spiegarmi alcune cose e le ho scritte in una lettera di getto.
La trascrivo perchè potrebbe essere utile a qualcuno. E qualcuno potrebbe anche chiarire alcuni punti oscuri del mio ragionare. Mi farebbe cosa gradita. Per questo la pubblico su archigrafica.
Caro Maurizio,
nella chat di FB non sono
riuscito a risponderti come avrei voluto. Sarà il mezzo, troppo costretto, che
ti impedisce di andare a capo, che ti restringe in uno spazio limitato di
schermo, sarà stata l’emozione che a poco alla volta ha preso anche me. Non
sono riuscito a farlo.
Perché le domande che tu ti
ponevi, sono un po’ quelle cui anch’io – ma credo tutti noi – tentavo di
rispondere.
Il fatto è che non c’è risposta. Almeno
non ce n’è una immediata, facile. Non c’è risposta per farsi capaci che Pino
Daniele è morto. Non c’è risposta al fatto che tre balordi, in nome di una
cazza di ideologia di merda che li fa peggio delle peggiori bestie che l’uomo
abbia mai potuto immaginare, abbiano fatto strage di persone che erano armate
solo della matita e dell’intelligenza.
Ma il gioco del mondo è spesso
balordo, incomprensibile.
E’ tutto balordo, la fame, la
miseria dei migranti, il terrorismo, qualcuno che, di tanto in tanto, gioca a fare il primo ministro,
il capitalismo che tenta di impossessarsi anche della proprietà della natura,
del grano, delle sementi OGM, che noi non si capisca un cazzo di che cosa sia
la vita che ci è piovuta addosso, non sappiamo che farcene e impazziamo di colpo
tutto l’animo nostro.
Non ci sono parole. E messa così,
la cosa è veramente incomprensibile.
Io non ero un fan sfegatato di Pino Daniele. Ma questo non fa storia perché quando lui era agli inizi, intorno
alla metà degli anni Settanta, io odiavo Napoli. Odiavo la retorica, le
canzonette, il folklore stereotipo, la folla, la plebe che non sopportavo per la sua ignoranza. Ero illuminato dal sol dell'avvenire, pretendevo la presa di coscienza. Chi non
capiva e non aderiva alla lotta di classe apparteneva al Lumpenproletariat, sottoproletari, inaffidabili, balordi. Un’etichetta di appartenenza metteva a posto tutte le domande.
L’ideologia mi aiutava a interpretare il mondo. Non capivo niente di niente. E’
ovvio.
Poi sono cresciuto. Anzi sono
invecchiato, dentro prima di tutto, nell’anima. Poi anche nel corpo. E ho avuto
un modo diverso di vedere le cose. Ho cominciato ad amare, in maniera
incondizionata, viscerale, irrazionale la mia città. Apparentemente senza una
ragione. Nel bene, ma soprattutto nel male. Ho cominciato a capirne le complesse
motivazioni. Mi sono fatto una ragione per
la strafottenza, l’arroganza, per tutto quello che, insomma,
caratterizza il napoletano plebeo. Anche alla camorra, pur non giustificandola,
ci mancherebbe, ho trovato una ragione. Ho tentato di spiegarmene il perché. Complesso entrare qui nel merito, per filo e per
segno, spiegarsi tutto. Ma mi sono state chiare tante cose. Mi sono fermato a riflettere.
E la domanda che mi rimane è una
sola: che cosa vuol dire la morte? Che vuol dire il nostro sbatterci di fronte
all’inevitabile? E’ inevitabile che moriremo, bene, male, consapevoli,
inconsapevoli. Noi tutti moriremo. Morirà tutto. La vita, il pianeta,
l’universo, i ricordi. Di noi, genere umano, della vita nel suo complesso su questa Terra non rimarrà
più nulla. Figurati i soldi, le ricchezze! Stronzate. Tutto sarà ingoiato in un enorme buco nero.
Alla fine anche il nostro sole morirà e diventerà un gorgo immane, inghiottendo
tutto quello che lo circonda, compresa la Terra, il sistema solare e tutto il
resto. Figurati che rimarrà di
Marchionne, la Fiat, Renzi, la politica, l'euro, l'IVA, il profitto, gli interessi, la finanza, i furbetti e soprattutto dei nostri ricordi, dei sentimenti.
Puff. Tutto svanito. E allora?
La risposta? Se uno non riesce a
farsene una ragione religiosa vive male. Ecco. Ma per religione bisogna
intendersi. Non quella barzelletta ipocrita che è sempre stata l’organizzazione mondana della chiesa. Semmai qualcosa ribelle e
salvifica come il francescanesimo, il rifiuto illuminante e straordinario di
tutti i beni terreni che animò il nostro unico Francesco d’Assisi.
Per questo mi sembra che la
risposta debba essere cercata nella mite convivenza di ognuno con tutti gli
altri. La risposta sarebbe allora una sola: rispettare gli altri, sempre, in ogni caso,
sentirne la vita e averne cura. Rispecchiarsi l'uno nell’altro.
E qui viene la tua domanda.
Perché anche tu sei arrivato a questa conclusione. E quando senti Terra mia non puoi non commuoverti. E’
ovvio. Anche io, che credevo di essere tosto e corazzato di fronte a qualsiasi
retorica, sentendo alcune canzoni di Pino Daniele, ora che è morto, non ho potuto non commuovermi.
Perché tutta quella che sembrava
retorica, la retorica di un cantante con la sua strana voce sottile, con quel
suo seguire la musica con un semplice filo di voce quasi sempre in falsetto, la
sua chitarra, diventa di colpo cosa sensata, con un significato che s’è interrotto.
Io ho scoperto Pino Daniele tardi.
Credo non più tardi di una decina di anni fa. Si ne conoscevo le canzoni più importanti. Ma non ci uscivo pazzo. Comprai, non so perché, un
cofanetto di tre CD e me lo piazzai in macchina. Andando avanti e indietro da Pescara per il mio lavoro
universitario, Pino assieme ai Blues Brothers e qualche canzone di John Lennon,
mi faceva compagnia nelle quattro ore ad andare e quattro a venire che facevo
da solo.
Per le montagne.
La sua voce mi accompagnava, mi faceva sentire meno
solo, in specie quando scendeva il sole per le valli e le montagne e mi trovavo ad
attraversare la piana delle Cinque miglia, interminabile. Così cominciai a
riflettere su quelle parole, su quella musica all’inizio un po’ ostica, sulle
contaminazioni che proponeva. E poi ho cominciato a cantarci appresso anche io.
Prima sotto voce e poi, man mano, aumentando la voce, fino a cantare a squarciagola con lui. E’
diventato un amico. Ha riempito un qualche vuoto dell’anima mia, mi ha fatto
gioire e immalinconire, allo stesso tempo.
Ecco. Pino Daniele era un amico
anche se non come l’intendiamo di solito. Uno che ti fa compagnia. Come Troisi
e il suo garbo. E a volte anche Benigni, quando non si cimenta con i comandamenti. Benigni de La tigre e la neve, insomma.
E con le battute, i sorrisi, le
canzoni forniscono una specie di risposta a quel quesito che prima ti dicevo.
Noi siamo impauriti di fronte alla morte, alla vita e le sue incognite. Non
sappiamo come comportarci. Non sappiamo che pensare. Ma ci sono degli amici che, con il loro fare,
le loro parole, e loro riflessioni, ci fanno compagnia, ci fanno sentire meno
soli.
E credo che questo abbiano
sentito i centocinquantamila a Piazza del Plebiscito.
Una cosa mai vista. Una
cosa unica.
Nessuna città ha tributato un così grande affetto a un suo figlio.
E non so che cosa sia stato più grande se il figlio o la città, che n’è
riuscita trionfante, incomparabile, bellissima, unica al mondo. Non credo mai
sia successo spontaneamente quello che è accaduto nel flashmob di due sere fa.
Mi ha commosso. Lo confesso e me
ne fotto se qualcuno ci farà dell’ironia. Cazzi suoi.
Mai una città è convenuta a
salutare un suo figlio lontano in questo modo. Anche se magari questo figlio
sembra che si sia allontanato e non ne vuole sapere di tornare.
Cadere nella
retorica è facilissimo. Basta fare un passo falso e ci siamo. Ma, lo dico e me
ne strafotto di caderci, è come la madre
che aspetta il figlio che s’è allontanato, e poi ritorna, dopo anni. Per lei lo
spazio e il tempo non ci sono. Quando si tratta di quella sua creatura è sempre
come quand’era piccolo. Napoli ha accolto Pino nel momento più difficile della
vita di un uomo, quando questa si conclude, con un solo abbraccio. Lo ha
abbracciato e apprezzato come sempre.
Unico. Le folle in maniera
oceanica si sono raccolte, nella storia, per paura nei confronti di un tiranno, un aguzzino. Qui invece è successa in maniera spontanea una cosa mai vista.
E mai vista era quella folla di
persone che nel buio intonava le sue canzoni. Quelle più sinceramente sue, che
avevano rappresentato l’anima forte e debole allo stesso tempo, sperduta, con
gli occhi pieni di dolore, bassa, popolare di ognuno che si sente perseguitato.
Quella che io considero il suo vero inno “Io so pazzo”, quel suo “Nun ce
scassate o’ cazzo” che ognuno dei napoletani, quando si vede trattato male,
perseguitato da uno Stato lontano, messo alla gogna immeritatamente perché
considerato, razzisticamente inferiore, grida anche a denti stretti: “Nun ce
scassate ‘o cazzo”.
Nun ce scassate o cazzo.
Una frase che, a scriverla così, isolata dal contesto appare volgare, aggressiva. Che dà fastidio.
Ma che Pino ha fatto in modo che tutti accettassero. Grande.
L'ha messa in una canzone, alla fine, dirompente, aggressiva, strafottente. E tutti, ma proprio tutti l'accettano, la cantano, l'ascoltano. Ha reso la rabbia di un singolo, sottoproletario, perseguitato, che si ribella, che lo Stato non può condannare perché lui ha il diritto di parlare ed esprimere il suo dissenso, e l'ha fatta accettare, digerire, l'ha resa normale agli occhi di tutti.
La signora, il prete, il ragazzo, il professore universitario, il medico, il barone, il presidente del consiglio. Tutti, nella canzone, sono costretti ad accettare il dissenso, l'aggressività popolana quando ha le palle piene e vuole parlare.
Straordinario. Ecco, questo per me è Pino Daniele. Questo è Pino per i centocinquantamila.
Prole che tutta l’Italia, alla fine, accetta. Perchè stanno alla fine di una canzone protestartaria e a suo modo violenta, di Pino
Daniele.
Che oggi è potente come lo sono
le altre «Napoli è carta sporca e ognun
aspetta a sciorta». In tre parole tutto il fatalismo di antica memoria greca che ogni napoletano conseva dentro l'animo suo, è costretto ad accettare e esprime. Che fa il pari con quell'altra straordinaria espressione della NCCP che qui voglio ricordare: «Napule è comme 'a nu franfelliccoo, ognuno, vene, allicca e se ne va».
Che sintetizza secoli e secoli di dominazioni subite.
Ecco tratti di genialità pura. Genialità tutta popolana, tutta napoletana.
Pochissime parole che indicano i
lati più tragici, più dolenti e autentici del popolo napoletano che si sente
abbandonato da tutti. E l’abbandono e la disperazione sono stata una condizione
permanente. Non dimentichiamo il Viceregno spagnolo
duranto duecent’anni e l’annessione al nord che dura da oltre 150 anni.
Ma specialmente oggi, in questo Stato unitario truffatore e ingordo, imbroglione e malfattore. Perché una classe
politica che non abbandona i suoi privilegi, rappresentanti dello stato che si
fanno corrompere per il proprio tornaconto sono proprio quelli che Pino chiama
in causa «E lo Stato oggi non mi deve condannare, perché io so pazzo, e oggi
voglio parlare».
Parliamo. Parliamo con la musica tutti insieme in piazza. La più grande, pacifica, immensa rivoluzione che l'Italia si ricordi. E ne porteremo ricordo per tanto tempo a venire.
Masaniello. Quale figura della
storia non è stata più bistrattata di Masaniello? Benedetto Croce ha scritto un
libro sui Lazzari e per primo, seguito a ruota da tutti gli storici beceri e
codardi intellettualoidi fino ad oggi, ha sostenuto che Masaniello era un poveretto e che quei
quattro ragazzotti armati di cannucce – i lazzaroni, per l’appunto – non avevano alcuno spessore per fare una
rivoluzione. Masaniello era poca cosa, la sua pazzia era scoppiata, poi, perché
incapace di reggere il confronto con la storia.
Grande la stima che ho di Croce come studioso di cose napoletane. Ma questa, perdonatemi non posso digerirla. Qua lo studioso abbruzzese ha preso una sciuliata di mazzo a terra. Ma tu senti che puttanata!
Il confronto con la storia farebbe impazzire il pescivendolo rivoluzionario napoletano. Così, di punto in bianco. Non lo terrorizza nella conduzione delle esecusioni capitali, nel suo giudicare la gente e gli oppressori. Non lo terrorizza nel confronto diretto con il Vicerè e il Cardinale. E poi lo fotte, all'improvviso, subito dopo, di dice, la cena a Posillipo su invito del vicerè. Mostrando segni inequivocabli da avvelenamento da alcaloidi che sono presenti in veleni ben conosciuti all'epoca, che venivano somministrati nel vino o nell'acqua. E pare che subto dopo aver bevuto un bicchiere 'acqua il poveretto abbia cominciato a smaniare e dare i numeri, n preda a un vero e proprio delirio allucinato. Un’invenzione che farebbe ridere, quella di Croce, se non si trattasse di un tragico equivoco sminuente.
Ancora oggi gli storici "universitari", i "cattedratici nostrani, impediscono, a chi fa ricerca in questo settore, di
dire la verità. Non posso fare nomi, ma so di ricercatori seri ai quali è stato
“suggerito” di non approfondire l’argomento avvelenamento di Masaniello perché
la figuraccia dell’intero settore di ricerca sarebbe altrimenti veramente
insostenibile. Qual è la verità?
Che Masaniello fu avvelenato con una mistura a
base di Belladonna e altre schifezze che sono dei veri e propri allucinogeni
già ben noti da tempo, come scrive Della Porta nel suo Trattato sulla Scienza
Naturale.
Pino Daniele ha toccato le corde
nascoste del popolo napoletano. La sua emarginazione, la sua voglia di
ribellarsi in solitudine, da solo, la sua voglia di mandare affanculo tutto e
tutti.
Per questo Napoli è odiata. Per un potenziale non essere d'accordo, una resistenza forte, una non volontà di sottomissione. Per
questo hanno fatto di tutto per allontanare dal popolo napoletano i suoi simboli,
i suoi miti.
E per questo è straordinario
quello che è successo. Alla faccia di tutti i pennivendoli di regime che
dobbiamo sopportare ogni giorno nei media.
Quel cantante, con quella sua voce a volte un po’ querula, in
falsetto, spinta al massimo della scala verso l’alto, ci ha fatto compagnia e
ha fatto compagnia a tutti quelli che stavano in quella piazza. Cioè a una
città intera.
E la cosa commovente che in tutto
questo non c’era retorica. La nostra città, in questo, non è grande. E’ unica
al mondo.
Allora i fili, in qualche modo si
riannodano. Cioè si ritrova il mio amare i vicoli bui, le voci che chiamano i
figli, le persone anziane che se ne stanno sedute fuori dai bassi a contemplare la vita che scorre su quei basoli di pietra lavica antica, i ragazzi che
ridono. Ma ci sta anche l’indisponenza, l’arroganza di qualcuno. Fa parte del
gioco. Essere guappo è una risposta del poverocristo all’arroganza dei potenti.
Una delle canzoni che più ho
amato di Pino è quella che comincia con “Te veco quanno scinne e scale”. Perché
è una scena che si ripete sempre nei palazzi dei Quartieri, è una scena che
ognuno di noi ha vissuto, ogni ragazzo adolescente ha vissuto vedendo una
ragazza semplice e fresca, che si affaccia alla vita che scende le scale.
Perché Pino Daniele ha sentito, dentro di sé, l’anima profonda e
popolare di questa città.
Ti ho detto che ho iniziato ad amarla con il tempo.
Ne ho amato soprattutto la lettura che ne hanno dato alcuni scrittori come
Malaparte. Cialtrone, imbroglione, furbo, ha però capito, da persona
intelligente, l’animo popolare di Napoli e l’ha descritto in maniera
straordinaria ne La pelle.
Come l'ha descritta senza precedenti Nanni Loy ne Le quattro giornate di Napoli.
Bisogna capire anche la plebe
napoletana. Quella plebaglia di origine seicentesca che fa paura e che è la
ragione per cui tutti ci disprezzano. Sanno che c’è un’anima ribelle nel
profondo, inaffidabile, almeno secondo il loro concetto di ordine, che ancora
ribolle, che ancora non se ne sta al posto suo.
Quell’anima lazzara e potente che
fa paura a tutti perché dal suo corpo, può nascere l’amore per Pino Daniele, ma
anche l’esaltazione di Lauro, seguire il re Borbone, spiazzando e sterminando i
quattro borghesi e aristocratici e la loro rivoluzione del 99.
E questo argomento è ancora un
vero e proprio tabù. Con gli intellettuali napoletani non puoi dire che il
popolo era per il Re perché il re era uno di loro. E che gli intellettuali del
’99 in realtà, più che una rivoluzione, stavano effettuando un cambio di
dominazione passando il potere nelle mani dei Francesi, come realmente accadde. Leggersi, a questo proposito, il passaggio delle proprietà che venne effettuato da Murat che
consegnò terre, poderi, conventi e altro a tutti gli scagnozzi amici suoi è
estremamente istruttivo in questo senso.
Il fatto che tutti questi nodi
del popolo napoletano sono completamente irrisolti. Sono messi da parte. Come
Croce sminuisce Masaniello e la portata della sua ribellione, così, dopo la
cosiddetta unità d’Italia, vengono disprezzati i patrioti, i combattenti e le lotte
che fecero contro l’arroganza dei piemontesi, col chiamarli briganti.
Il popolo napoletano in sé non è
crudele, reazionario, ribelle, assassino. Ma in certe occasioni può esserlo,
come ad esempio nel caso della morte dell’eletto Starace. Lo fecero a pezzi.
E’ una furia.
E’ questo che fa paura e fa
essere gli altri razzisti nei confronti di Napoli. Anche se sempre più spesso
mi sembrano delle vere e proprie pruderie da condominio, di uno dell’ultimo piano in una riunione che chiama lazzari quelli che abitano nei bassi a piano terra.
Sono contraddizioni
apparentemente complesse che però si capiscono subito. E Pino era uno che aveva
intuito tutto per essere il tipico esponente popolano di
questo tipo. Con il genio della musica. Con il ritmo nel sangue.
Veniamo alle vere bestie. L’isis,
il califfato sono il vero pericolo. Sono una furia cieca e
irrazionale che uccide chi gli si oppone. Bisogna difenderci.
Capisco che colpire chi fa una
vignetta è come se ti avessero colpito direttamente al cuore. Ma la bestialità
dell’uomo arriva anche a questo.
So che ho le idee confuse. E chi
è che non le ha in momenti come questi? Perché di fronte alla morte di una
persona di famiglia (e Pino, nonostante il Pino di adesso non mi stesse tanto
simpatico, lo era) e di fronte alla furia selvaggia che distrugge quello che
non capisce o gli si oppone noi rimaniamo senza parole.
Dobbiamo farcene una ragione e
continuare a produrre. Sperare che quest’anima bellissima della città di Napoli
sia accettata e riconosciuta non come qualcosa che fa paura, ma come un bene
prezioso e di civiltà. Le vere bestie che fanno paura sono altrove e sono
pronte a colpirci nei valori più importanti che la nostra civiltà è riuscita a
costruire.
Un abbraccio
Giacomo